Giu Reati fiscali e L'esistenza dell'abuso del diritto (concetto equivalente a quello di elusione fiscale)
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE - 16 luglio 2024 N. 28502
Massima
L'esistenza dell'abuso del diritto (concetto equivalente a quello di elusione fiscale) è configurabile qualora vi siano l'assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate e la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito che rappresenti l'effetto essenziale dell'operazione. Le operazioni abusive non danno luogo a reati puniti ai sensi delle disposizioni tributarie. La disciplina sostanziale dell'abuso del diritto si applica anche ai diritti doganali; tuttavia, tale abuso non può essere invocato in presenza di una diretta violazione delle norme fiscali che comportino una dichiarazione infedele o omessa dichiarazione perché tali fattispecie devono essere perseguite con gli strumenti previsti dall'ordinamento giuridico italiano.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE - 16 luglio 2024 N. 28502

1. È opportuno premettere che, a norma dell'art. 325, comma 1, cod. proc. pen., il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice (explurimis, Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017, Rv. 269656). Nello specificare tale presupposto, si è chiarito che il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo, pur consentito solo per violazione di legge, è ammissibile quando la motivazione del provvedimento impugnato sia del tutto assente o meramente apparente, perché sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l'iter logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato (Sez. 6, Sentenza n. 6589 del 10/01/2013, Rv. 254893).

Ebbene, le doglianze formulate in questa sede, se compiutamente apprezzate al di là della loro intestazione formale, esorbitano in generale dai limiti entro cui è consentito esercitare il sindacato di legittimità.

1.1. Passando alla disamina dei singoli motivi di ricorso proposti, giova preliminarmente partire dall'analisi della questione dell'erronea applicazione del regime doganale di ammissione temporanea e della connessa violazione dell'art. 70 del D.P.R. n. 633 del 1972.

Come noto, l'IVA all'importazione non è un diritto di confine ed è estranea all'obbligazione doganale, pur condividendo con i dazi la caratteristica di trarre origine dall'importazione di beni nell'Unione Europea e dalla loro conseguente introduzione nel circuito economico degli Stati membri (ex multis, Cass. civ., Sez. 5, n. 5962 del 28/02/2019, Rv. 653033; Cass. civ., Sez. 5, n. 7951 del 21/03/2019, Rv. 653332; Cass. civ., Sez. 5, n. 8473 del 9/01/2018).

Ciò, tuttavia, non esclude che, in ragione del richiamo contenuto nell'art. 70 del D.P.R. n. 633 del 1972, l'IVA all'importazione e i diritti di confine (che sono di natura doganale) presentino, quanto a meccanismi applicativi, una disciplina comune e, pur configurando tributi distinti e separatamente liquidati, siano resi oggetto di unico prelievo. In altri termini, l'IVA all'importazione condivide con i dazi la caratteristica di trarre origine dal fatto dell'importazione nell'Unione e della susseguente introduzione nel circuito economico degli Stati membri (CGUE 11 luglio 2013, in causa C-272/12, Harry Winston SA, punto 4:1). E poiché il fatto generatore e l'esigibilità dell'IVA all'importazione sono collegati a quelli dei dazi, ne consegue che la prima non possa che seguire le procedure che caratterizzano i diritti di confine (Cass. civ., Sez. 5, n. 26311 del 16/12/2009); di talché l'IVA all'importazione, pur essendo estranea all'obbligazione doganale, deve farsi rientrare nei tributi che vanno corrisposti in occasione delle operazioni doganali e, pertanto, in virtù del rinvio contenuto nell'art. 70 D.P.R. n. 633 del 1972, deve ritenersi soggetta alle disposizioni procedurali dettate per i diritti di confine (Cass. civ., Sez. 5, n. 21659 del 29/07/2021, Rv. 661951-01).

Ciò premesso, occorre ulteriormente precisare che, ai sensi della normativa contenuta nel Codice doganale dell'Unione, l'obbligazione doganale all'importazione nasce allorquando merci extracomunitarie siano vincolate ad uno dei regimi doganali di cui all'art. 77 del citato D.P.R. n. 633 del 1977 e, segnatamente, il regime dell'importazione definitiva ovvero quello della cosiddetta importazione provvisoria.

Quest'ultima, in particolare, rappresenta un regime doganale speciale, a carattere temporaneo, che permette la libera circolazione nel territorio doganale, in esonero dai dazi all'importazione, di merci non comunitarie destinate alla riesportazione entro un determinato termine, e che può essere concesso soltanto nel caso in cui vengano soddisfatte congiuntamente le condizioni tassativamente indicate dall'art. 212, comma 3, e dell'art. 217, comma 1, lettera e), del Reg. UE n. 2446/2015.

Ebbene, nel caso di specie, il Tribunale del riesame di Imperia ha motivatamente ritenuto soddisfatte dallo yacht in contestazione le condizioni previste per l'accesso al regime di ammissione temporanea. Ed invero:

a) quanto alla circostanza che il mezzo debba essere immatricolato fuori dal territorio doganale unionale a nome di un soggetto stabilito fuori dal medesimo territorio, non c'è contestazione sul punto, risultando l'imbarcazione, di proprietà della società armatrice Cadort Ventures Ltd, con sede nelle Isole Vergini Britanniche, registrata nell'anno 2008 presso l'Isola di Grand Cayman;

b) quanto alla necessità che il mezzo debba essere utilizzato da una persona stabilita al di fuori del territorio doganale unionale, ritiene il Collegio che si tratti di censura preclusa al sindacato di legittimità, ai sensi dell'art. 325, comma 1, cod. proc. pen., giacché afferente all'accertamento di un dato puramente fattuale. Ed invero, il giudice cautelare ha correttamente rilevato e motivato l'impossibilità di ricavare, in modo univoco, la stabile collocazione, in Italia, della sede degli affari o interessi del comandante del natante, in qualità di suo utilizzatore, dalla circostanza che, quando lo yacht risulti ancorato nel porto di I, questi possa usufruire di un appartamento preso in locazione e risulti altresì dotato di un'utenza telefonica italiana (come si vedrà più in dettaglio sub 1.3.);

c) quanto, invece, alla condizione, secondo cui il mezzo non deve stazionare nelle acque territoriali dell'Unione per un periodo superiore a 18 mesi ("termine di appuramento"), decorrenti dalla data di ingresso dell'imbarcazione, trascorsi i quali il natante deve essere riesportato, ossia trasferito al di fuori delle acque territoriali, osserva il Collegio che, a fronte della prospettazione accusatoria - secondo la quale la specifica normativa sarebbe stata elusa, interrompendosi di volta in volta il periodo dei 18 mesi con viaggi di pochi giorni in località extra UE (e sempre nella medesima località di T in Montenegro) al solo fine di beneficiare nuovamente del regime di ammissione temporanea all'atto del rientro in Italia, e ciò con intento fraudolento così da configurare il reato di contrabbando all'importazione temporanea, quanto meno nell'ipotesi residuale sanzionata dall'art. 292 del D.P.R. n. 43 del 1973 - il Tribunale del riesame di Imperia ha ritenuto l'insussistenza di indizi suscettibili di assurgere a prova di un meccanismo concretamente fraudolento, volto a conseguire indebiti vantaggi fiscali, e di una diretta ed immediata violazione di norme tributarie attraverso la rappresentazione estema di una situazione di fatto non corrispondente alla realtà; ciò che, nel caso di specie, manca certamente, attesa la veridicità degli effettivi spostamenti eseguiti in Montenegro dal natante.

Del resto, come correttamente evidenziato dal giudice cautelare, il confine tra condotte abusive aventi rilievo esclusivamente fiscale e comportamenti posti in essere in violazione della legge penale, è caratterizzato dall'esistenza di comportamenti fraudolenti, ingannevoli o mendaci nei confronti dell'Amministrazione Finanziaria, realizzati in violazione della normativa tributaria: confine che, nell'ordinamento giuridico italiano, risulta tracciato, oltre che dal D.Lgs. n. 74 del 2000 - secondo cui: per "operazioni simulate oggettivamente e soggettivamente" devono intendersi quelle operazioni apparenti diverse da quelle disciplinate dall'art. 10-bis della legge n. 212 del 2000, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti; mentre l'espressione "mezzi fraudolenti" starebbe ad indicare le condotte artificiose attive, nonché quelle omissive, realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà - anche dall'art. 10-bis della legge n. 212 del 2000, il cui richiamo appare, pertanto - contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente - perfettamente pertinente.

Fatte queste premesse, in punto di diritto, occorre rilevare che l'istituto dell'abuso di diritto di cui all'art. 10-bis della legge n. 212 del 27 luglio 2000, che si applica anche ai diritti doganali, non è configurabile in presenza di condotte che integrino una diretta violazione delle norme in materia, con la conseguenza che queste ultime vanno perseguite con gli strumenti che l'ordinamento mette a disposizione, mentre, riguardo ai fatti elusivi riconducibili alla categoria dell'abuso, la suddetta disciplina realizza una sostanziale abolitio criminis, ed opera, pertanto, retroattivamente senza condizioni (ex multis, Sez. 3, n. 35575 del 5/04/2016, Rv. 267678; Sez. 3, n. 5809 del 04/12/2018, dep. 2019).

Più nello specifico, nella menzionata sentenza n. 35575 del 2016, la Corte di cassazione, in motivazione, ha precisato che la norma citata - entrata in vigore a partire dal 1 ottobre 2015, in base a quanto disposto dallo stesso citato D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 1, comma 5, a norma del quale "Le disposizioni della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10 bis, hanno efficacia a decorrere dal primo giorno del mese successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto e si applicano anche alle operazioni poste in essere in data anteriore alla loro efficacia per le quali, alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impositivo" - assume particolare rilievo nel caso in esame, perché il suo comma 13 prevede che "Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie", ferma restando l'applicazione delle sanzioni amministrative tributarie. Come evidenziato da questa Corte (Sez. 3, 01/10/2015, n. 40272) il nuovo testo legislativo si prefigge lo scopo, da un lato, di delineare quali condotte possono integrare il c.d. "abuso del diritto", sostanzialmente unificando i concetti di "abuso" e di "elusione", dall'altro, di abrogare l'art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 - disposizione di più limitata portata, sulla cui interpretazione è superfluo soffermarsi in questa sede - e di creare una disciplina applicabile per tutti i tipi di imposte. Il nucleo essenziale della nuova disciplina è costituito dal comma 1, il quale prevede che "configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi indebiti". Queste operazioni non sono opponibili all'Amministrazione finanziaria, che ne può disconoscere i vantaggi tributari determinando le imposte secondo le regole ordinarie, fermo restando il riconoscimento di quanto già versato dal contribuente. Nel successivo comma 2, si precisa che: a) per "operazioni prive di sostanza economica" si intendono i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi da quelli fiscali (ad esempio, indici di mancanza di sostanza economica possono essere "la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell'utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato"); b) per "vantaggi fiscali indebiti", si intendono i benefici, anche non immediati, contrastanti con le finalità delle norme tributarie o con i principi dell'ordinamento tributario. In ogni caso, il legislatore sancisce che non sì considerano abusive le operazioni giustificate da valide ragioni economiche, non marginali, anche di tipo organizzativo o gestionale, "che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa ovvero dell'attività professionale del contribuente" (comma 3). È comunque ferma la facoltà di scelta tra regimi opzionali diversi e tra operazioni comportanti un differente carico fiscale (comma 4).

La previsione individua, quindi, i tre presupposti per l'esistenza dell'abuso: 1) l'assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate; 2) la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito; 3) la circostanza che il vantaggio è l'effetto essenziale dell'operazione.

Posto ciò, l'effettiva portata del nuovo art. 10-bis, comma 13, della legge n. 212 del 2000, il quale prevede l'irrilevanza penale delle condotte elusive, deve essere verificata alla luce dei precedenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, che invece ritenevano penalmente rilevanti tali condotte. Nella vigenza dell'art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, si è infatti affermato che il reato di cui all'art. 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000 è configurabile anche in presenza di una condotta elusiva, quando tale condotta, risolvendosi in atti e negozi non opponibili all'Amministrazione finanziaria, comporti una dichiarazione infedele, per la mancata esposizione degli elementi attivi nel loro effettivo ammontare (Sez. 3, 18 marzo 2011, n. 26723, Rv. 250958.; Sez. 5, 23 maggio 2103, n. 36894, Rv. 257190). Si è inoltre precisato che i reati di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione possono essere integrati anche da comportamenti elusivi posti in essere dal contribuente per trarre indebiti vantaggi dall'utilizzo in modo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che possano giustificare l'operazione, a condizione che sia individuata la norma antielusiva, specificamente prevista dalla legge, violata (ex multis, Sez. 2, 22 novembre 2011, n. 7739, Rv. 252019; Sez. 3, 12 giugno 2013, n. 33187, Rv. 256430). Con statuizione di portata più generale, si è ritenuto penalmente rilevante l'abuso del diritto, sull'assunto che, dai principi di capacità contributiva e dì progressività dell'imposizione dettati dall'art. 53 Cost., si desume che il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo in maniera distorta di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che possano giustificare l'operazione, ad esempio in caso di esterovestizione di una società, avente residenza fiscale all'estero ma operante effettivamente in territorio nazionale (Sez. 4, 20 novembre 2014, n. 3307, Rv. 262026). Una voce in parziale dissenso con tali orientamenti è rappresentata da Sez. 3, 24 ottobre 2014, n. 43809, Rv. 265120, la quale fa, però leva sulla non configurabilità dell'elemento soggettivo, affermando che il "dolo di elusione", ossia la generica volontà consapevole di avvalersi degli strumenti negoziali previsti dagli artt. 37 e 37-bis D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per ottenere vantaggi fiscali non dovuti, non si identifica con il dolo specifico di evasione che, in quanto integrato dalla deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine e del mezzo, esprime un disvalore ulteriore idoneo a selezionare gli illeciti penalmente rilevanti da quelli che tali non sono. Con specifico riferimento ai diritti doganali, bisogna inoltre considerare l'affermazione di questa Corte - già sopra riportata - secondo cui l'aver usufruito illegalmente di dazi in misura ridotta a seguito della cessione vietata dei titoli da parte di un operatore nuovo a favore di un operatore tradizionale comporta la realizzazione di una condotta integratrice del reato di contrabbando (Sez. 5, 30 novembre 2006, n. 4950/2007, Rv. 235784). Bisogna infine considerare che la previsione del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 292, ha inteso creare un'ipotesi residuale e sussidiaria di reato a forma libera in cui soltanto l'evento è precisato, e cioè la sottrazione di merci al pagamento dei diritti di confine; ad integrare il reato sarebbe, dunque, sufficiente qualsiasi condotta idonea a produrre l'evento di cui sopra.

In tale quadro si inserisce il comma 12 del nuovo art. 10-bis della legge n. 212 del 2000 il quale prevede che "in sede di accertamento l'abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie". Esso costituisce attuazione dell'art. 5, comma 1, lettera a), della legge di delegazione 11 marzo 2014 n. 23, il quale contiene il seguente criterio direttivo: "definire la condotta abusiva come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d'imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione".

Tale principio deve essere valorizzato in via interpretativa, perché permette di escludere che vi sia elusione in presenza di una diretta violazione di norme, anche penali. Il che conferma che la disciplina dell'abuso del diritto ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti la simulazione o i reati tributari, in particolare, l'evasione e la frode; con la conseguenza che tali fattispecie vanno perseguite con gli strumenti che l'ordinamento già mette a disposizione. Se, ad esempio, una situazione configura una fattispecie di reato regolata dal D.Lgs. n. 74 del 2000, in quanto frode o simulazione, l'abuso non può essere invocato. Rimane dunque impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali - sempre che ne sussistano i presupposti - in operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive (ad esempio, negando deduzioni o benefici fiscali, la cui indebita autoattribuzione da parte del contribuente potrebbe bene integrare taluno dei delitti in dichiarazione).

Un altro profilo dell'abuso del diritto rilevante ai fini del presente procedimento è rappresentato dall'individuazione dell'ambito temporale di applicazione della disciplina, a fronte della disposizione transitoria di cui all'art. 1, comma 5, del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, che prevede l'applicazione dell'art. 10-bis della legge n. 212 del 2000 anche alle condotte commesse anteriormente alla propria entrata in vigore, solo se non sia ancora stato notificato un atto impositivo. Deve qui essere integralmente richiamata e condivisa l'affermazione - contenuta nella richiamata sentenza n. 40272 del 2015 - secondo cui tale disposizione non impedisce comunque di ritenere non più penalmente rilevanti le condotte fiscalmente elusive integranti mero abuso del diritto, per effetto del comma 13 del medesimo art. 10-bis, in quanto tale comma, realizzando una sostanziale abolitio criminis, deve operare retroattivamente senza condizioni. Ed è sufficiente qui richiamare, sul punto, le considerazioni svolte in detta pronuncia (ai parr. 18 e ss.) circa la coerenza di tale soluzione interpretativa con i principi costituzionale e la Cedu.

Come visto, l'art. 10-bis, essendo contenuto nello Statuto dei diritti del contribuente, si applica tendenzialmente a tutti i tributi, con alcune limitazioni in relazione ai diritti doganali. L'art. 1, comma 4, del D.Lgs. n. 128 del 2015 prevede, infatti, che "i commi da 5 a 11 dell'art. 10-bis della legge n. 212 del 2000 non si applicano agli accertamenti e ai controlli aventi ad oggetto i diritti doganali di cui all'articolo 34 del decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, che restano disciplinati dalle disposizioni degli articoli 8 e 11 del decreto legislativo 8 novembre 1990, n. 374, e successive modificazioni, nonché dalla normativa doganale dell'Unione Europea". L'esclusione fissata dal legislatore è però limitata ai profili procedimentali, sia perché ha per oggetto i commi da 5 a 11 - che riguardano l'interpello del contribuente, le modalità di accertamento, le richieste di chiarimenti, la riscossione, il rimborso - sia perché si riferisce letteralmente, non ai diritti doganali in quanto tali, ma "agli accertamenti e ai controlli" aventi ad oggetto tali diritti.

Ne consegue, quanto al caso di specie, che le disposizioni sostanziali alle quali si è fatto riferimento si applicano comunque anche ai diritti doganali.

Conclusivamente, devono essere confermati i seguenti principi, già precedentemente affermati nella sopracitata sentenza n. 35575 del 5/04/2016, Rv. 267678: a) l'abuso del diritto - che è concetto del tutto equivalente a quello di elusione fiscale - è configurabile qualora vi siano l'assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate e la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito che rappresenti l'effetto essenziale dell'operazione (commi 1 e 2 dell'art. 10-bis della legge n. 212 del 2000); b) le operazioni abusive non danno luogo a reati puniti ai sensi delle disposizioni tributarie (comma 13); c) l'abuso del diritto non è configurabile in presenza di una diretta violazione di norme, con la conseguenza che, in tal caso, i fatti posti in essere non perdono la loro eventuale rilevanza penale (comma 12); d) l'introduzione della disciplina dell'abuso del diritto ha, per i fatti che risultino riconducibili a tale categoria, gli effetti di una abolitio criminis, con la conseguenza che la stessa opera retroattivamente senza condizioni (comma 13); e) la disciplina sostanziale dell'abuso del diritto è applicabile anche ai diritti doganali (art. 1, comma 4, del D.Lgs. n. 128 del 2015).

Fatte queste premesse, nel caso di specie, il ricorrente richiede implicitamente una rivalutazione della fattispecie concreta, per individuare se vi sia stata violazione diretta o elusione e per mettere in discussione la ritenuta diversità tra la presente fattispecie e quella oggetto della sentenza Sez. 3, n. 4978 del 13/01/2022, richiamata nel ricorso. Trattasi, tuttavia, di accertamento fattuale, come tale rimesso alla cognizione del giudice di merito e sottratto al sindacato di legittimità, laddove, come nel caso di specie, esso sia adeguatamente motivato, e, in ogni caso, precluso in materia cautelare ai sensi dell'art. 325, comma 1, cod. proc. pen. (explurimis, Sez. 2, n. 7351 del 14/12/23, dep. 2024; Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017, Rv. 269656; Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Rv. 239692); di talché la presente censura deve ritenersi infondata.

1.2. Alla luce delle predette considerazioni, afferenti essenzialmente all'impossibilità di accertare la sussistenza o meno del fumus commissi delicti in capo all'indagato, deve ritenersi interamente assorbito il primo motivo di ricorso.

1.3. La terza censura - con la quale ci si duole dell'erronea applicazione dell'art. 250, comma 2, del Codice Doganale Unionale - è inammissibile.

Valgono sul punto le considerazioni svolte sub. 1, da intendersi richiamate. Il provvedimento impugnato, del resto, appare scevro da qualsivoglia vizio motivazionale, avendo il Tribunale specificamente motivato, oltre che in ordine all'insussistenza di elementi dimostrativi del ruolo del A.A. sia come proprietario del natante - e, dunque, come titolare del regime doganale - sia come utilizzatore dell'imbarcazione, anche con riguardo all'impossibilità, a ben vedere assorbente, di ritenere l'Italia quale luogo in cui costui abbia stabilito il proprio centro di interessi e affari, sì da risultare integrata la violazione delle condizioni di cui all'art. 212 del Reg. UE n. 2446/2015.

Sul punto, giova preliminarmente precisare che il terzo comma della predetta norma, nella parte in cui prevede che l'esenzione totale dal dazio all'importazione sia concessa per i mezzi di trasporto adibiti alla navigazione marittima e nelle acque interne, purché - per la parte che qui interessa - siano utilizzati da una persona stabilita al di fuori del territorio doganale dell'Unione, non fa esplicito riferimento al "titolare del regime doganale" - che è concetto richiamato dal diverso art. 250 del Codice doganale unionale, il quale non può trovare applicazione nel caso di specie, giacché atto a disciplinare il regime di ammissione temporanea con riferimento alle sole merci e non anche ai mezzi di trasporto - ma al diverso concetto di "utilizzatore", da ricondursi al soggetto che effettivamente usi il bene.

Ebbene, ciò premesso, il giudice cautelare ha adeguatamente precisato, a pag. 20 del provvedimento impugnato, che, anche laddove si voglia far coincidere le due nozioni, il Comandante dell'imbarcazione - legato da un rapporto di lavoro che ne presuppone la soggezione alle direttive dell'armatore stesso -semplicemente non può essere considerato l'utilizzatore del natante. Come logicamente sostenuto dal Tribunale del riesame di Imperia, infatti, non può ritenersi sintomatico della stabile domiciliazione in Italia del comandante dello yacht in contestazione né il possesso, da parte del A.A., di un'abitazione, regolarmente locata, sita in I, né quello di un'utenza telefonica italiana. Dalle stesse risultanze investigative, del resto, è emerso che: a) costui - che è cittadino statunitense, residente in Florida, a B, ove da sempre ha stabilito il centro dei propri affari ed interessi, anche familiari ed amicali, ove trascorre il tempo in cui non è impegnato nella navigazione e ove risulta proprietario di una molteplice serie di beni mobili, compresa un'autovettura, ed immobili - risulta intestatario di due ulteriori utenze telefoniche, una olandese e una iberica, che non lo radicano certamente neanche in quei paesi; b) i consumi medi mensili, esaminati mediante l'analisi delle utenze domestiche dell'immobile preso in locazione, non consentono di inferire in alcun modo che l'appartamento sia effettivamente occupato, in maniera continuativa, dall'indagato, né che questi abbia trascorso ad I un periodo superiore a quello di centottanta giorni nel corso del 2019, ovverosia del più ampio periodo preso come riferimento.

1.4. L'ultimo motivo di ricorso - con il quale si lamentano l'erroneo riferimento al sito internet della Commissione Europea quale criterio interpretativo in ordine all'applicazione del beneficio di plurimi periodi di appuramento ed il rigetto della richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea - è inammissibile.

Il Collegio, infatti, non ritiene necessario il rinvio pregiudiziale relativamente alla corretta decodificazione delle circostanze effettivamente integranti il superamento del termine di appuramento, sul rilievo della sussistenza, nell'ambito dell'ordinamento giuridico interno - come precedentemente chiarito - di una chiara differenziazione tra il concetto giuridico di violazione diretta, e dunque di evasione, e quello di elusione, tenuto altresì conto della non configurabilità neanche astratta, da parte dell'ordinamento sovranazionale, di un'interpretazione giurisprudenziale volta a consentire un'incriminazione, e dunque l'applicazione di una condanna penale, all'opposto non prevista dall'ordinamento giuridico italiano. A ciò si aggiunga, infine, che poiché l'elemento dirimente è rappresentato, nel caso in esame, proprio dalla differenza tra la fattispecie giuridica della evasione e quella della elusione, la rilevanza concreta della questione pregiudiziale risulta preclusa dal fatto che questa presuppone una rivalutazione critica dell'accertamento di fatto operato dal Tribunale, che non può essere oggetto né del giudizio di legittimità, ai sensi dell'art. 325, comma 1, cod. proc. pen., né del rinvio pregiudiziale dinnanzi alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea.

2. Da quanto precede consegue che il ricorso deve essere rigettato.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Conclusione

Così deciso l'8 marzo 2024.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2024.