Giu LA nozione di molestia NEL REATO DI ATTI PERSECUTORI
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II PENALE - 04 giugno 2024 N. 22484
Massima
In tema di atti persecutori, rientra nella nozione di molestia qualsiasi condotta che concretizzi una indebita ingerenza od interferenza, immediata o mediata, nella vita privata e di relazione della vittima, attraverso la creazione di un clima intimidatorio ed ostile idoneo a comprometterne la serenità e la libertà psichica.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II PENALE - 04 giugno 2024 N. 22484

l. Il ricorso è infondato.

1.1. Relativamente al primo motivo di ricorso, si deve ribadire che "non sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nel caso in cui nella contestazione, considerata nella sua interezza, siano contenuti gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza, posto che l'immutazione si verifica solo laddove ricorra tra i due episodi un rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale per essersi realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell'addebito nei confronti dell'imputato, messo così, a sorpresa, di fronte a un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna possibilità d'effettiva difesa" (Sez.2, n. 10989 del 28/02/2023, Pagano, Rv. 284427); infatti, si osserva come da tempo nella giurisprudenza di legittimità sia stato affermato il principio secondo cui, in tema di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e oggetto della statuizione di sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (cfr. Cass. , sez. un. , 19/06/1996, n.16, Di Francesco); infatti, non sussiste violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza quando non muta il fatto storico sussunto nell'ambito della contestazione (vedi sez. 3, Sentenza n. 5463 del 05/12/2013, Diouf Rv. 258975 - 01)

Nel caso in esame, il ricorrente aveva la possibilità di difendersi sin dall'inizio dalla contestazione a lui mossa, senza che si possa dire di trovarsi di fronte ad un mutamento del fatto che renda impossibile la difesa, posto che nella sentenza di primo grado si è operata soltanto una diversa qualificazione giuridica dei fatti, che sono rimasti immutati; si deve inoltre osservare che nel caso in esame la modifica è avvenuta nel giudizio di primo grado per cui il ricorrente, che aveva la possibilità di difendersi in appello anche mediante richieste di attività istruttoria,aveva l'onere di indicare quale pregiudizio aveva subito.

1.2 Quanto al secondo motivo di ricorso, lo stesso reitera quanto già dedotto con l'atto di appello, senza confrontarsi con la motivazione della Corte territoriale, che ha rilevato che "la parte offesa ha dichiarato di aver modificato le proprie abitudini di vita a causa dei pedinamenti subiti tali da generare la paura di ritrovare l'uomo davanti casa e di essere aggredita, sia pure solo verbalmente, per strada, come peraltro affermato dallo stesso imputato nei messaggi in cui ammetteva di avere tenuto comportamenti inadeguati chiedendole scusa" (pag.2 sentenza impugnata); è stata quindi correttamente applicata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui "in tema di atti persecutori, rientra nella nozione di molestia, quale elemento costitutivo del reato, qualsiasi condotta che concretizzi una indebita ingerenza od interferenza, immediata o mediata, nella vita privata e di relazione della vittima, attraverso la creazione di un clima intimidatorio ed ostile idoneo a comprometterne la serenità e la libertà psichica" (Sez.5, n. 1753 del 16/09/2021, dep. 17/01/2022, Q, Rv. 282426).

1.3 Manifestamente infondato è, infine, il terzo motivo di ricorso: come efficacemente precisato in Sez.2, n. 12347 del 10/02/2021, D'Isanto, Rv. 280996, con una risalente pronuncia, le Sezioni Unite (sent. n. 36747 del 28/05/2003, Torcasio e altro, Rv. 225466-01) avevano riconosciuto come la registrazione fonografica di conversazioni o comunicazioni realizzata, anche clandestinamente, da soggetto partecipe di dette comunicazioni, o comunque autorizzato ad assistervi, costituisce - sempre che non si tratti della riproduzione di atti processuali - prova documentale secondo la disciplina dell'art. 234 cod. proc. pen.: l'acquisizione al processo della registrazione del colloquio può legittimamente avvenire attraverso il meccanismo di cui all'art. 234, comma 1, cod. proc. pen. , che qualifica come "documento" tutto ciò che rappresenta "fatti, persone o cose è mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo": del resto, "il nastro contenente la registrazione non è altro che la documentazione fonografica del colloquio, la quale può integrare quella prova che diversamente potrebbe non essere raggiunta e può rappresentare (si pensi alla vittima di un'estorsione) una forma di autotutela e garanzia per la propria difesa, con l'effetto che una simile pratica finisce col ricevere una legittimazione costituzionale". Il principio secondo il quale la registrazione fonografica di un colloquio ad opera di uno dei partecipi al colloquio medesimo costituisce prova documentale rappresentativa di un fatto storicamente avvenuto, pienamente utilizzabile nel procedimento a carico dell'altro soggetto che ha preso parte alla conversazione, sia essa intercorsa tra presenti o telefonicamente, è stato successivamente ribadito da numerose decisioni, anche con riferimento specifico a fattispecie nelle quali il privato autore dell'intercettazione del colloquio al quale partecipava come interlocutore si era attivato su indicazione della polizia giudiziaria e/o con mezzi messi a disposizione dagli inquirenti (cfr. , Sez. 6, n. 31342 del 16/03/2011, Renzi, Rv. 250534-01; Sez. 6, n. 16986 del 24/02/2009, Abis, Rv. 243256 - 01; Sez. 1, n. 14829 del 19/02/2009, Foglia, Rv. 243741 - 01, che ha ritenuto utilizzabile - sia pur per l'adozione del provvedimento di cautela personale - la registrazione delle conversazioni intervenute fra la persona offesa ed alcuni degli indagati, effettuata tramite il telefono cellulare della predetta, lasciato in funzione al fine di consentire l'immediato intervento delle forze dell'ordine qualora la vittima fosse stata aggredita; Sez. 1, n. 6339 del 22/01/2013, Pagliaro, Rv. 254814 - 01, per la quale, in particolare, non è riconducibile alla nozione di intercettazione la registrazione fonografica di un colloquio svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, operata, sebbene clandestinamente, da un soggetto che ne sia partecipe o, comunque, sia ammesso ad assistervi, costituendo, invece, una forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l'autore può disporre legittimamente, anche a fini di prova: tale principio non viene meno per la circostanza che l'autore della registrazione abbia previamente denunciato fatti di cui sia vittima, né può ritenersi che per ciò solo le successive registrazioni realizzate dal denunciante con il proprio cellulare fossero state concordate con la polizia giudiziaria); la Corte territoriale ha fatto precisa applicazione dei principi di diritto di cui sopra che non possono che essere ulteriormente ribaditi; dalla sentenza di primo grado risulta infatti (pag.8) che le registrazioni nelle quali è contenuta la richiesta di A.A. di avere dalla B.B. somme di denaro per "lasciarla in pace" sono state effettuate dalla persona offesa; peraltro, risulta che comunque la persona offesa ha dichiarato espressamente che l'imputato le aveva detto "se vuoi che ti lasci in pace mi devi dare 300 euro mensili", per cui la dichiarazione di responsabilità si basa non sulle intercettazioni, ma sulle dichiarazioni della persona offesa; il ricorrente non supera quindi la ed. "prova di resistenza".

A tale proposito, si ricorda come secondo l'orientamento di questa Corte allorché con il ricorso per cassazione si lamenti l'inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di ricorso deve illustrare, a pena di inammissibilità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", essendo in ogni caso necessario valutare se le residue risultanze, nonostante l'espunzione di quella inutilizzabile, risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento (Sez. 6, n. 18764 del 05/02/2014, Rv. 259452); l'applicazione del suddetto principio al caso in esame comporta proprio l'inammissibilità del terzo motivo di ricorso posto che la prova di cui il ricorrente lamenta l'inutilizzabilità non ha avuto incidenza determinante nel giudizio di colpevolezza affermato concordemente dai giudici di merito sulla base delle dichiarazioni della parte offesa.

2. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. , con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento; l'imputato deve inoltre essere condannato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile in virtù del principio della soccombenza, non sussistendo motivi per la compensazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile B.B. , che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge lite.

Conclusione

Così deciso il 28 marzo 2024.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2024.