1. I motivi sopra illustrati appaiono manifestamente infondati e pertanto il proposto ricorso va dichiarato inammissibile. Per contro, il provvedimento impugnato appare contrassegnato da motivazione che, secondo il perimetro di cognizione del giudice di legittimità in sede di cautela reale, contiene l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato e l'assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (anche con riferimento alla puntuale analisi delle specifiche doglianze difensive), oltre ad essere corretto in diritto.
2. In premessa, va ricordato che l'art. 325 cod. proc. pen. prevede contro le ordinanze in materia di appello e di riesame di misure cautelari reali che il ricorso per cassazione possa essere proposto per sola violazione di legge.
E' vero che la giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche a Sezioni Unite, ha più volte ribadito, tuttavia, come in tale nozione debbano ricomprendersi sia gli "errores in iudicando" o "in procedendo", sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice vedasi Sez. U. n. 25932 del 29/5/2008, Ivanov, Rv. 239692; conf. Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009, Bosi, Rv. 245093; Sez. 3, n. 4919 del 14/07/2016, Faiella, Rv. 269296). Ed è stato anche precisato che è ammissibile il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo, pur consentito solo per violazione di legge, quando la motivazione del provvedimento impugnato sia del tutto assente o meramente apparente, perché sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l'"iter" logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato (così Sez. 6, n. 6589 del 10/1/2013, Gabriele, Rv. 254893 nel giudicare una fattispecie in cui la Corte ha annullato il provvedimento impugnato che, in ordine a contestazioni per i reati previsti dagli artt. 416, 323, 476, 483 e 353 cod. pen. con riguardo all'affidamento di incarichi di progettazione e direzione di lavori pubblici, non aveva specificato le violazioni riscontrate, ma aveva fatto ricorso ad espressioni ambigue, le quali, anche alla luce di quanto prospettato dalla difesa in sede di riesame, non erano idonee ad escludere che si fosse trattato di mere irregolarità amministrative). Di fronte all'assenza, formale o sostanziale, di una motivazione, atteso l'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, viene dunque a mancare un elemento essenziale dell'atto.
Tuttavia, come si evidenzierà di qui a seguire, non è questo il caso del provvedimento impugnato. E, per contro, il ricorso propone una serie di vizi di motivazione non scrutinabili in questa sede di legittimità.
3. Va rilevato -e da qui la manifesta infondatezza del terzo motivo di ricorso - che il Tribunale del Riesame di Ravenna in sede di rinvio ha correttamente delimitato a pag. 5 dell'ordinanza impugnata il proprio perimetro decisorio, tenendo conto di essere vincolato dalle statuizioni coperte dal giudicato cautelare formatosi a seguito della pronuncia rescindente.
Conferentemente è stato evocato il principio di diritto secondo cui, quanto alle questioni in diritto il giudice del rinvio ha l'obbligo di uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione per quanto riguarda ogni questione di diritto con essa decisa, anche quando, a seguito di tale decisione, sia intervenuto un mutamento di giurisprudenza, fatti salvi i casi in cui una sentenza della Corte di Giustizia Europea abbia riconosciuto l'incompatibilità con il diritto comunitario della norma nazionale ovvero sia stata dichiarata l'illegittimità costituzionale, con efficacia ex tunc, di una norma sulla cui base era stato affermato il principio di diritto, dovendo il giudice del rinvio riconsiderare la questione alla luce della reviviscenza del trattamento sanzionatorio previgente (il richiamo è a Sez. 3 n. 15744/2019).
Allo stesso modo, quanto agli elementi in fatto, viene correttamente ricordato che il giudice del rinvio può prendere in considerazione elementi sopravvenuti dopo l'emissione (o il diniego di emissione) della misura cautelare, ma tale potere è condizionato oltre che dalle valutazioni espresse dalla Corte di legittimità nel giudizio rescindente, dalla esigenza che i fatti nuovi posti a base del rinnovato appello incidano sull'originaria legittimità del titolo cautelare trovando, in caso contrario, la loro naturale rilevanza nell'ambito di una autonoma richiesta di revoca o di modifica della misura cautelare (cfr. Sez. 2, n. 22015 del 13/02/2019, Ricucci, Rv. 276652 - 01; conf. Sez. 6, n. 2527 del 06/11/2003, dep. 2004, Zorzi, Rv. 227894 - 01).
Applicando le ricordate coordinate al caso di specie, per i giudici ravennati ne discende correttamente l'impossibilità di rimettere in discussione i profili legittimanti l'applicazione della misura, ossia il fumus di esistenza degli illeciti contestati ed il periculum di reiterazione degli stessi, trattandosi di aspetti già vagliati dal giudice della misura, confermati dalla prima ordinanza del riesame e coperti da giudicato cautelare a seguito della pronuncia della Cassazione.
Nella sentenza rescindente, infatti, si legge (par. 6 e 7 in Diritto - pag. 3) che "il Tribunale del riesame ha confermato il fumus boni iuris con riguardo a tutte le condotte contestate al A.A." ed "ha riconosciuto anche il periculum in mora, evidenziando che la libera disponibilità dei beni in cautela poteva aggravare o protrarre le conseguente dei reati contestati o agevolare la commissione di altri reati".
Dunque, la sussistenza degli elementi costitutivi del rimedio cautelare era stata già ampiamente vagliata e non poteva più essere posta in dubbio, se non nel limite della valutazione di fatti nuovi sopra riportata.
E in tale limite i giudici ravennati hanno ritenuto che non potesse assumere rilievo, nel senso di attenuare o elidere il pericolo di reiterazione del reato, il recente provvedimento disciplinare che ha disposto la radiazione del A.A. dall'Albo dei veterinari, trattandosi di decisione, allo stato, non esecutiva e, comunque, la cui verificazione non è idonea ad incidere sulla "originaria legittimità del titolo cautelare" (cfr. le richiamate Sez. 2, n. 8854/2016 e Sez. 2, n. 22015/2019). Ciò dovendosi, peraltro, tenere conto, come si legge ancora nell'ordinanza impugnata, che - come correttamente evidenziato nei precedenti gradi di giudizio - soltanto alcuni dei reati in contestazione appaiono essere la proiezione illecita dell'attività professionale svolta, mentre altri hanno trovato in questa soltanto l'occasione di realizzazione ed altri ancora risultano del tutto estranei all'attività professionale esercitata. La logica conclusione sul punto dei giudici ravennati è, dunque, che la revoca del titolo abilitativo sarebbe idonea, se e allorquando divenga definitiva, ad inibire il pericolo di reiterazione degli illeciti strettamente connessi alla professione, non già anche di tutti gli ulteriori illeciti che presentano una connessione funzionale con i beni in sequestro (ambulatorio e materiali), piuttosto che con l'attività in sé di medico veterinario.
Dunque, correttamente il raggio di intervento del Tribunale è stato ritenuto essere quello di valutare se la misura applicata dal G.I.P. risulti adeguata rispetto al suo scopo e proporzionata rispetto agli illeciti in contestazione ed ai pericula di reiterazione. E, diversamente da quanto si opina in ricorso, non corrisponda al vero che vi sia stata una non revocabile statuizione di dissequestro dell'intero ambulatorio veterinario per sproporzionalità ed esuberanza dell'originario sequestro.
Il precedente giudice di legittimità, investito della decisione dal ricorso della Procura, ha evidenziato una lacuna motivazionale nel precedente provvedimento del tribunale del riesame, rilevando che i giudici del gravame cautelare: "avrebbero dovuto specificare in quale altro modo la riconosciuta esigenza cautelare potesse esser soddisfatta, se non con il sequestro dell'intero ambulatorio; specie, peraltro, considerando che - come già chiarito - l'ordinanza non ha mai sostenuto che determinate parti dello stesso bene fossero risultate estranee alla commissione dei reati (così da poter esser eventualmente liberate), ma - diversamente -che determinati illeciti fossero estranei all'attività professionale. In altri termini, se per alcuni reati è stato ravvisato un chiaro collegamento funzionale con la professione, e quindi con l'immobile, per altri lo stesso collegamento è stato escluso, non venendo dunque coinvolto il bene, in alcuna misura; con riguardo ai primi, dunque, l'ordinanza avrebbe dovuto specificare gli strumenti di tutela da approntare per soddisfare le esigenze di cui all'art. 321 cod. proc. pen. (ad esempio, qualora possibile, un vincolo parziale sul bene)" (così par. 11 in Diritto, pag. 4).
Orbene, il Tribunale di Ravenna ha seguito un percorso motivazionale del tutto coerente nel rispondere al compito demandatogli dal giudice rescindente, e certo non può dirsi che abbia risposto con una motivazione apparente, laddove ha dato atto che, assodata la sussistenza del fumus e del periculum dichiarata nell'ordinanza annullata e confermata nella sentenza rescindente, l'unica misura cautelare possibile sia quella applicata dal GIP.
4. Il ricorrente richiama il condivisibile dictum di Sez. 6, n. 222 del 25/10/2023, Ricci, non mass, che rileva come: "Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, il principio di proporzionalità, sancito, anche in riferimento alle misure cautelari reali, dell'art. 275 cod. proc. pen. (ex plurimis: Sez. 2, n. 29687 del 28/05/2019, Frontino, Rv. 276979; Sez. 3., n. 21271 del 07/05/2014, Konovalov, Rv. 261509-01) e a livello sovranazionale dalle fonti del diritto dell'Unione (art. 5, par. 3 e 4, TUE, art. 49, par. 3, e art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali) e dagli artt. 7 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, così come interpretata dalla Corte Edu, assolve "ad una funzione strumentale per un'adeguata tutela dei diritti individuali in ambito processuale penale, e ad una funzione finalistica, come parametro per verificare la giustizia della soluzione presa nel caso concreto" (ex plurimis, Sez. 4, n. 29956 del 14/10/2020, Valentino, Rv. 279716 -01; Sez. 6, n. 9776 del 12/02/2020, Morfù, non massimata). Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno, inoltre statuito che "ogni misura cautelare, per dirsi proporzionata all'obiettivo da perseguire, dovrebbe richiedere che ogni interferenza con il pacifico godimento dei beni trovi un giusto equilibrio tra i divergenti interessi in gioco (Corte Edu 13 ottobre 2015, Unsped Paket Servisi SaN. Ve TIC. A. S. c. Bulgaria)". Dunque, solo valorizzando l'onere della motivazione è possibile, come sottolineato dalla più attenta dottrina, tenere "sotto controllo" l'intervento penale quanto al rapporto con le libertà fondamentali ed i beni costituzionalmente protetti quali la proprietà e la libera iniziativa economica privata, riconosciuti dall'art. 42 Cost. e dall'art. I del Primo protocollo addizionale alla Convenzione Edu, come interpretato dalla Corte Edu......" (così testualmente Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273548, in motivazione). La proporzionalità della misura cautelare costituisce, dunque, oggetto di una ineludibile valutazione preventiva da parte del giudice della cautela reale affinché non comporti un'ingerenza nell'esercizio dei diritti fondamentali più incisiva rispetto a quella strettamente funzionale a tutelare le esigenze cautelari da soddisfare nel caso di specie" (così pagg. 3-4 della motivazione).
Tuttavia, è lo stesso provvedimento impugnato che ricorda come, in linea generale, i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, dettati dall'art. 275 cod. proc. pen. per le misure cautelari personali, devono ritenersi pacificamente applicabili anche alle misure cautelari reali, imponendo al giudice di motivare adeguatamente sull'impossibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso una cautela alternativa meno invasiva (e si richiama sul punto Sez. 6 n. 1646/2023).
I giudici ravennati ricordano che, con l'ordinanza annullata, il tribunale aveva riscontrato una sproporzione fra le pur ravvisate esigenze cautelari e l'apposizione del vincolo sull'intero ambulatorio veterinario, sostenendo che non si potesse ritenere la struttura integralmente asservita alle attività delittuose, in quanto alcuni addebiti risulterebbero episodici, altri atterrebbero a "singoli segmenti di attività che non involgono in toto l'intera attività professionale", altri ancora "sarebbero estranei alla stessa attività". Sicché, pur riconoscendo che molti dei reati contestati al A.A. coinvolgevano in via diretta l'attività professionale di veterinario, svolta esclusivamente nell'ambulatorio, il precedente Collegio aveva, tuttavia, eliminato il vincolo sullo stesso bene sul presupposto che altre condotte illecite, parimenti riscontrate per fumus e periculum, non presentavano invece alcun collegamento con la professione e, dunque, con l'immobile sequestrato, così da renderne sproporzionato l'integrale vincolo.
5. Orbene, con congrua e logica motivazione, nel solco di quanto richiesto nella sentenza rescindente il giudice del rinvio si è confrontato con le precedenti pronunce, pervenendo al contrario avviso, rispetto al precedente Tribunale del riesame che, a fronte della riscontrata sussistenza degli elementi costitutivi della cautela per tutte le ipotesi di reato in contestazione, l'unica misura cautelare possibile sia proprio quella applicata dal G.I.P., ossia il sequestro dell'intero ambulatorio e delle attrezzature ivi presenti.
Per i giudici del rinvio non si vede, infatti, come le esigenze di cautela potrebbero essere soddisfatte con una misura diversa dall'apposizione di un vincolo sull'intero compendio immobiliare e sui relativi beni.
Il provvedimento impugnato aderisce a quanto ritenuto nel provvedimento del G.I.P., dove si legge che: "Le cose sulle quali si chiede l'apposizione del c. d. 'fermo reale" (ambulatorio e beni che lo compongono) sono strettamente pertinenti ai reati per cui si procede: è lo svolgimento dell'attività veterinaria in sé a costituire l'occasione per la commissione dei reati indagati, che siano i maltrattamenti in danno degli animali sottoposti al veterinario, costretti loro malgrado a subire interventi chirurgici in assenta di anestesia; ovvero le uccisioni degli animali in assenza di completa e documentata giustificazione terapeutica, le falsificazioni dei libretti sanitari consegnati ai clienti dello studio medico; oppure gli abusivi esercizi della professione farmaceutica; le illecite caudotomie, praticate al di fuori delle condizioni che ne legittimano l'esecuzione; o la detenzione di farmaci scaduti; l'illecito smaltimento di rifiuti sanitari e l'irregolare tenuta del registro carico/scarico degli stupefacenti (...).È all'evidenza che tutte le ipotesi di reato indagate sono intimamente correlate allo svolgimento della professione veterinaria, poiché ne rappresentano estrinsecazione (...). È dato di pacifica acquisizione probatoria quello per cui l'immobile adibito ad ambulatorio veterinario è intrinsecamente e strutturalmente collegato da un nesso strumentale diretto e immediato all'esercizio dell'attività veterinaria; in altre parole, la disponibilità dell'ambulatorio e delle maestranze che vi sono all'interno sono consustanziali all'esercizio dell'attività medico veterinaria da parte dell'indagato, nel senso che la seconda fatalmente postula, per poter esistere, la prima (...).Quanto s'è detto concorre a rappresentare uno scenario di persistente, trasversale, insistita e patente illiceità che accompagna lo svolgimento dell'attività medico veterinaria svolta dall'indagato... ".
Il tribunale del riesame richiama adesivamente quanto dichiarato dal GIP laddove ha ritenuto che: "Tra lo svolgimento dell'attività medico veterinaria, strutturalmente e funzionalmente insita nella disponibilità dell'ambulatorio e delle maestranze che vi sono custodite e allocate, e la commissione dei reati partitamente analizzate, sussiste un nesso di naturale ed evidente pertinenzialità, nel senso che la pronosticabile reiterazione di ulteriori fatti di penale rilevanza, o dell'aggravamento delle conseguenze di quelli già posti in essere, sono necessariamente occasionati dall'esercizio della professione veterinaria, per arrestare la quale unico strumento processualmente coltivabile è, appunto, quello del sequestro preventivo dell'ambulatorio".
Coerentemente con tali richiami adesivi al primo provvedimento, i giudici ravennati opinano nel senso che, se è indubbio che all'interno dell'ambulatorio fosse svolta anche attività lecita e dunque non possa dirsi sussistente un integrale asservimento dell'immobile a scopi illeciti, nondimeno non sarebbe operazione praticabile quella di separare plasticamente la parte dell'ambulatorio veterinario in cui si svolge l'attività lecita da quella dove invece si commettono gli illeciti contestati. Non risultando ragionevole, prima ancora tecnicamente corretto, consentire la protrazione dell'attività illecita per il sol fatto che la stessa venga svolta insieme o in alternativa a quella lecita.
E un simile argomentare si colloca nel solco del richiamato orientamento di questa Corte di legittimità -che va qui ribadito- secondo cui è ammissibile il sequestro preventivo dell'intera azienda, "ove sussistano indizi che anche taluno soltanto dei beni aziendali, proprio per la sua collocazione strumentale, sia utilizzato per la consumazione del reato, a nulla rilevando la circostanza che l'azienda svolga anche normali attività imprenditoriali" (così Sez. 6, n. 27340 del 16/4/2008, Cascino, Rv. 240574 - 01 in una fattispecie relativa al sequestro preventivo del patrimonio aziendale di un'impresa edile, in cui è stata esclusa la riconducibilità sostanziale dei beni oggetto del sequestro, nella formale disponibilità di terzi estranei al procedimento, alle persone degli indagati, conf. Sez. 3, n. 6444 del 7/11/2007 dep. 2008, Donvito, Rv. 238819 - 01 nel giudicare il caso di un sequestro preventivo, disposto per il reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti, che aveva interessato gli immobili e l'intera area nella disponibilità della società facente capo all'indagato; Sez. 6, n. 36773 del 18/06/2003 Pepe, Rv. 226820 - 01 che, in applicazione di tale principio, ha annullato con rinvio il provvedimento del giudice del riesame che, nel confermare il decreto di sequestro preventivo di una farmacia, utilizzata dal suo titolare per la commissione di truffe a danno della Regione, aveva motivato la misura reale sul periculum in mora che la disponibilità della stessa da parte dell'indagato potesse agevolare la commissione di altri reati; Sez. 6, n. 29797 del 20/06/2001, Paterna, Rv. 219855 - 01).
6. Come rileva il provvedimento impugnato, va considerato, inoltre, che l'ambulatorio veniva utilizzato non solo per perpetrare "illeciti professionali", ma anche per la commissione di illeciti privi di stretto collegamento funzionale con la professione.
In quest'ottica, allora, secondo il logico opinare dei giudici ravennati, non appare determinante in via esclusiva, ai fini del giudizio sulla proporzione ed adeguatezza, indagare il solo rapporto fra bene sequestrato e attività professionale esercitata, dovendosi considerare, altresì, il dato obiettivo dell'utilizzo materiale del complesso aziendale (ambulatorio, lettini, siringhe, farmaci) per la realizzazione (anche) di reati di non stretta attinenza con la professione medico veterinaria. In altri termini, il giudizio di proporzione coinvolge una duplice prospettiva: in primis, il rapporto fra immobile (e relativi strumenti di lavoro) e attività professionale, per quanto riguarda gli illeciti che appaiono una degenerazione della professione svolta; in secondo luogo, il rapporto fra immobile (e relativi strumenti professionali) e reati di non stretta inerenza rispetto all'attività lavorativa.
Coerentemente con tali premesse, si conclude nel provvedimento impugnato che, a fronte di un'attività illecita che manifesta un collegamento di occasionalità necessaria sia con "illeciti professionali", sia con "illeciti extraprofessionali", l'unica misura praticabile è quella disposta del sequestro dell'intero compendio aziendale, poiché idonea ad arginare la fondata e ragionevole probabilità che la continua disponibilità dell'ambulatorio, ove non ne venga impedita la fruizione, consenta di dar corso e reiterare condotte analoghe o affini a quelle indagate, come può desumersi dalla natura delle cose su cui si impone la cautela preventiva e dal nesso strumentale con l'attività professionale svolta, dalla tipologia dei rimproveri oggetto dell'incolpazione, dalle circostanze dei fatti e delle condotte, tutt'altro episodiche o occasionali, quanto invero routinarie e seriali (si richiamano, a tal proposito, gli esiti della successiva attività di indagine condotta dagli inquirenti, che hanno evidenziato la persistenza del contegno da. parte del prevenuto anche dopo le condotte oggetto di contestazione nel presente procedimento).
Sul punto, in definitiva, i giudici romagnoli dichiarano dì concordare con quanto già affermato dal G.I.P. in sede di emissione della misura, secondo cui "la prognosi inerente al pericolo di reiterazione o aggravamento criminosi è tanto più pregnante, quanto più si riflette sulla vastità del giro di clientela che affolla quotidianamente l'ambulatorio del veterinario, sulle modalità di definizione degli appuntamenti, fino anche a tarda sera, sulla impossibilità di discernere il reale volume dell'attività decodificando la fitta rete di annotazioni presenti nelle agende sequestrate e prestando fede agli ingenti e non tracciati guadagni lucrati dall'indagata".
Di contro, l'apposizione di un vincolo soltanto parziale sull'immobile (ad esempio, soltanto su una porzione dell'edificio) viene ritenuta non sufficiente a contenere il pericolo di recidivanza, atteso che il A.A. ben potrebbe operare nella parte di immobile lasciata nella disponibilità del titolare, continuando a perpetrare gli illeciti sub iudice (in tal senso, vengono richiamati anche gli esiti dell'attività integrativa di indagine svolta nelle more del giudizio incidentale, che ha evidenziato la commissione di ulteriori casi di eutanasia oltre quelli contestati nel presente procedimento).
7. Ancora, il tribunale del riesame dà atto che il sequestro soltanto degli strumenti da lavoro non sarebbe in grado di prevenire ulteriori azioni illecite, avendo l'imputato la possibilità di procurarsi analoghe attrezzature da utilizzare nel medesimo centro, liberamente accessibile alla clientela.
Logico appare, peraltro, il rilievo che non si vede come potrebbe essere condotto un ambulatorio veterinario senza strumenti e macchinari che, concretamente, consentono l'esercizio dell'attività veterinaria. Va peraltro considerato, secondo quanto si legge nel provvedimento impugnato, che, in questo caso, non appaiono neppure individuabili beni strumentali che non consentano la consumazione della variegata ed eterogenea rosa di condotte posta in essere dal prevenuto attraverso l'attività ambulatoriale e le relative maestranze.
In una simile prospettiva, la deduzione difensiva secondo cui il sequestro dell'immobile o anche delle sole attrezzature non sarebbe comunque in grado di impedire la reiterazione dei reati ipotizzati, in quanto il prevenuto potrebbe svolgere altrove le medesime attività, appare per i giudici romagnoli priva di sostegno, dal momento che porterebbe all'assurdo di rinunciare ex ante a disporre qualsivoglia presidio cautelare per il sol fatto che il suo autore sarebbe in grado di eluderlo.
Da ultimo, il tribunale del riesame dà conto di non ritenere neppure astrattamente praticabile l'opzione di una misura personale di tipo interdittivo, in quanto, anche ammettendo che una misura personale sia percepita come meno invasiva e più adeguata di una misura reale, le fattispecie criminose in questione connesse allo svolgimento dell'attività di veterinario non consentono, per ragioni edittali, l'applicazione di misure interdittive.
Dunque, con una motivazione che è tutt'altro che apparente, il provvedimento impugnato ritiene misura reale e proporzionata alle esigenze di cautela e conforme ai principi di sussidiarietà ed extrema ratio sopra ricordati che l'istituto cautelare deve perseguire.
8. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2024.
Depositata in Cancelleria il 4 marzo 2024.