Giu L'applicabilità della causa di esclusione della punibilità prevista dall'art. 131 bis cod. pen. non può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di legittimità
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE - 28 febbraio 2024 N. 8653
Massima
L'applicabilità della causa di esclusione della punibilità prevista dall'art. 131 bis cod. pen. non può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di legittimità, ostandovi quanto stabilito dall'art. 606, terzo comma, cod. proc. pen., che comporta l'inammissibilità dei motivi di impugnazione con cui venga dedotta una violazione di legge che non sia stata eccepita nemmeno con l'atto di appello.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE - 28 febbraio 2024 N. 8653

1. Il ricorso non è fondato.

2. Il primo motivo, mediante il quale sono stati denunciati la violazione di disposizioni di legge processuale, con riferimento all'art. 597, primo comma, cod. proc. pen., e, segnatamente, la violazione del principio devolutivo che regola il processo di appello, e un vizio della motivazione, per avere la Corte di appello esaminato i motivi di appello anziché i punti della sentenza impugnata oggetto del gravame, è infondato.

Ad avviso del ricorrente, l'inosservanza di detta disposizione di legge processuale avrebbe determinato un vizio della motivazione nella parte in cui, limitandosi a confutare i motivi di appello, la Corte d'appello di Milano non si sarebbe occupata dei presupposti giuridici e fattuali della affermazione di responsabilità penale dell'imputato.

In realtà la Corte d'appello, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, dopo aver compiuto un'analisi approfondita dei motivi di appello, ha ribadito la sussistenza di tutti gli elementi necessari per confermare l'addebito di penale responsabilità dell'imputato.

La sentenza impugnata ha, anzitutto, richiamato integralmente la sentenza di primo grado, di cui ha recepito e condiviso criticamente l'impianto motivazionale, dando conto adeguatamente, in tal modo, delle ragioni del proprio convincimento e della conferma della configurabilità del reato ascritto al ricorrente.

Va, infatti, ricordato che nel giudizio di appello è consentita la motivazione per relationem, con riferimento alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui, come quello in esame, le censure formulate dall'appellante non contengano elementi di novità rispetto a quelle già condivisibilmente esaminate e disattese dalla sentenza richiamata (Sez. 2, n. 30838 del 19/03/2013, Autieri, Rv. 257056 - 01, nonché Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216664 - 01).

Nel caso in esame, i motivi di appello ripropongono la medesima prospettazione difensiva, incentrata sull'insussistenza dell'elemento soggettivo del reato contestato al ricorrente, senza presentare effettivi elementi di novità rispetto alla contestazione delle motivazioni addotte dal giudice di primo grado.

La Corte d'appello, dopo aver dato atto della ripetitività dei motivi d'appello rispetto a quanto sostenuto nel giudizio di primo grado, ha, comunque, evidenziato, con ampia e analitica motivazione, la sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato.

In particolare la Corte territoriale ha sottolineato sia la radicale inesistenza dei crediti d'imposta relativi a investimenti in aree svantaggiate ai sensi della L. n. 296 del 2006, ceduti dalla Multiservice Group Srl e dalla Sopel Srl alla Mondial Tempra Srl amministrata dal ricorrente, utilizzati in compensazione nella misura di Euro 43.463,00, a completo abbattimento dell'Ires dovuta, inesistenza desunta da una serie di elementi ritenuti in modo logico univocamente dimostrativi di tale circostanza (costituiti dalla assenza di potere rappresentativo della Sopel in capo a Rosario Marchese che stipulò entrambi gli atti di cessione; dalla veste di evasore totale della Multiservice Group, che aveva presentato dichiarazioni fiscali solo per gli anni 2009 e 2016 e aveva depositato il bilancio solamente per il 2009; dalla veste di evasore totale della Sopel; dalla mancata osservanza delle formalità necessarie per ottenere il beneficio fiscale ceduto alla società amministrata dal ricorrente; dalla assenza del necessario nulla osta alla cessione da parte della Agenzia delle Entrate); sia la consapevolezza da parte del ricorrente di tale inesistenza, desunta dalle caratteristiche della Sopel (sconosciuta al fisco, che non aveva mai presentato alcuna dichiarazione fiscale, né depositato alcun bilancio, e non aveva ottenuto alcun nulla osta alla cessione), oltre che dalla sproporzione del corrispettivo di tali cessioni (pari a Euro 240.000,00 a fronte del valore dei crediti ceduti, pari a Euro 1.625.065,00) e dalle anomalie presenti nell'utilizzo di tale corrispettivo (ceduto alla VR Servizi, sottoposto a custodia giudiziaria, e poi versato a due avvocati, B.B. e C.C., per una generica attività di consulenza fiscale e contabile); sia la mancanza di concludenza degli elementi allegati dall'imputato a sostegno della propria buona fede (per l'irrilevanza del certificato di regolarità contributiva, essendo i crediti ceduti stati utilizzati in compensazione del debito Ires; la mancanza di pertinenza dei documenti relativi a un credito d'imposta rilasciati dalla Agenzia delle Entrate di Caltanisetta, trattandosi di crediti diversi da quelli utilizzati; la possibilità di utilizzare anche in anni d'imposta successivi i crediti acquistati; l'irrilevanza dell'esposto presentato dall'imputato alla Procura della Repubblica di Milano nel 2018, dal quale, in realtà, emergono profili di macroscopica anomalia delle operazioni).

Si tratta di motivazione certamente idonea, al di là della ripetitività dei motivi d'appello e della conseguente sufficienza del richiamo critico alla motivazione della sentenza di primo grado, a dare conto della conferma della affermazione di responsabilità, per la ritenuta sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato contestato, che è stata ampiamente e logicamente illustrata, con la conseguenza che le censure sollevate con il primo motivo di ricorso, circa la violazione dell'art. 597 cod. proc. pen. e la carenza della motivazione, risultano infondate.

3. Il secondo e il terzo motivo di ricorso, mediante i quali il ricorrente lamenta, rispettivamente, l'erronea applicazione dell'art. 43 cod. pen., in relazione all'art. 3 D.Lgs. n. 74 del 2000, e la manifesta illogicità della motivazione, conseguente all'inosservanza della regola di giudizio del ragionevole dubbio, nella parte in cui si omette di considerare un'ipotesa alternativa concretamente sostenuta dalle prove acquisite, sono inammissibili.

In particolare, con il secondo, articolato, motivo di ricorso si denuncia la violazione dell'art. 43 cod. pen., sulla base del rilievo che la Corte d'appello avrebbe erroneamente desunto la sussistenza dell'elemento psicologico senza tenere conto di una serie di elementi idonei a escludere in radice il dolo del ricorrente, sottolineando, in particolare, il pagamento di una somma rilevante da parte del ricorrente medesimo per l'acquisto dei crediti ritenuti inesistenti, a dimostrazione della sua buona fede.

La sussistenza dell'elemento soggettivo è stata, però, come già evidenziato al par. 2, giustificata attraverso la considerazione di una pluralità di elementi, ritenuti, in modo non manifestamente illogico, dimostrativi sia della piena consapevolezza da parte del ricorrente della inesistenza dei crediti ceduti, sia della finalità di evasione sottesa al loro acquisto.

L'argomento, sostanzialmente riproposto con il ricorso per cassazione, della illogicità della affermazione della consapevolezza della inesistenza dei crediti d'imposta acquistati a fronte del pagamento della somma di Euro 240.000,00 quale corrispettivo di tale acquisto, è stato adeguatamente confutato dalla Corte d'appello, che, con una motivazione non manifestamente illogica, ha sottolineato che tale acquisto era strumentale al conseguimento di un risparmio di imposta che, nel corso degli anni, sarebbe stato sicuramente superiore all'esborso effettuato e che, per conseguire tale obbiettivo, il ricorrente necessitava di un supporto documentale (gli atti di cessione dei crediti inesistenti) apparentemente regolare e (almeno auspicabilmente, secondo una valutazione ex ante effettuata al momento della condotta fraudolenta) utilizzabile a fini fraudolenti.

La censura mossa con il secondo motivo di ricorso si risolve, dunque, in una mera rivalutazione del compendio probatorio, considerato in modo non manifestamente illogico dai giudici di merito, rivalutazione non consentita in sede di legittimità, in particolare attraverso la prospettazione di un'ipotesi alternativa, già disattesa in modo logico dalla Corte d'appello.

Anche l'affermazione, già contenuta nell'atto d'appello e sostanzialmente replicata con il ricorso per cassazione senza particolari elementi di novità, secondo cui sarebbe stato mosso all'imputato un addebito di colpa, fondato sull'essere venuto meno alla diligenza media dell'imprenditore, che sarebbe tenuto a operare adeguate e preventive verifiche sui crediti d'imposta primo del loro acquisto, è manifestamente infondata, sia perché, come evidenziato, riproduttiva di un profilo di censura già adeguatamente considerato e motivatamente disatteso dalla Corte d'appello; sia perché smentita dai plurimi elementi indicati dai giudici di merito a sostegno della affermazione della piena consapevolezza della inesistenza dei crediti acquistati e della finalità di evasione che aveva caratterizzato la condotta dell'imputato.

La Corte territoriale, infatti, dopo aver ricostruito il meccanismo e la procedura necessaria per utilizzare i crediti di imposta relativi a investimenti in aree svantaggiate, disciplinati dalla L. n. 296 del 2006, ha evidenziato la evidente inesistenza dei crediti utilizzati in compensazione, desumendola da una serie di macroscopiche anomalie, relative alla procedura di utilizzazione dei crediti in questione (assenza di una "prenotazione", da effettuare mediante il così detto modulo FAS, del credito di imposta da utilizzare; e mancanza del rilascio del "nulla osta" alla fruizione del beneficio); dalla veste del soggetto cedente (privo di poteri di rappresentare una delle società cedenti); dalla totale assenza di informazioni su una delle società cedenti (evasore totale e totalmente sconosciuta al Fisco).

Sulla base di tali elementi la Corte d'appello ha ribadito l'affermazione della sussistenza dell'elemento soggettivo in capo all'imputato, ed essa è stata censurata, anche a questo proposito, in modo non consentito, mediante la prospettazione di una lettura alternativa dei medesimi elementi già considerati e valutati in modo non manifestamente illogico dalla Corte d'appello.

La Corte territoriale, infatti, ha evidenziato gli elementi dimostrativi dell'esistenza di un meccanismo truffaldino al quale aveva preso parte anche il ricorrente, avvalendosi di professionisti, evidenziando che il ricorrente faceva pervenire a costoro moduli F24 con indicazione dei debiti di imposta e detti professionisti si procuravano dei crediti da utilizzare in compensazione, il tutto senza che alcun atto di cessione fosse stato stipulato, fino a quando, nei primi mesi del 2015, non era avvenuto un incontro in G con il presunto titolare delle società disposte a cedere i crediti, il quale aveva rassicurato il ricorrente circa la possibilità di ingannare l'Erario retrodatando la data degli atti di cessione, ottenendo la sua adesione al meccanismo truffaldino: si tratta, anche a questo proposito, di ricostruzione idonea a giustificare l'affermazione della sussistenza dell'elemento intenzionale in capo al ricorrente, fondata sulla analisi e sulla sottolineatura di una serie di elementi fattuali, dimostrativi del pieno inserimento del ricorrente nel sistema fraudolento, che è stata, nuovamente, censurata sul piano della lettura degli elementi di prova, dunque in modo non consentito in questa sede di legittimità.

Ne consegue, in definitiva, l'inammissibilità del secondo motivo di ricorso, in quanto affidato a censure non consentite nel giudizio di legittimità, oltre che chiaramente infondate.

4. Il terzo motivo di ricorso, mediante il quale si lamenta la violazione del criterio di giudizio del ragionevole dubbio, a causa della omessa considerazione di un'ipotesi alternativa concretamente sostenuta dalle prove acquisite, è inammissibile, in quanto si risolve in una mera lettura alternativa delle prove, non consentita in sede di legittimità, nel quale è esclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch'essa logica, dei dati processuali, o una diversa ricostruzione storica dei fatti, o un diverso giudizio di rilevanza, o comunque di attendibilità delle fonti di prova (Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rovinelli, Rv. 276970; Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, Cammarota, Rv. 262575; Sez. 3, n. 12226 del 22/01/2015, G.F.S., non massimata -, Sez. 3, n. 40350, del 05/06/2014, C.C. in proc. M.M., non massimata; Sez. 3, n. 13976 del 12/02/2014, P.G., non massimata; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099; Sez. 2, n. 7380 del 11/01/2007, Messina ed altro, Rv. 235716).

In ogni caso, inoltre, l'ipotesi alternativa prospettata dal ricorrente è stata adeguatamente considerata, e motivatamente confutata, dalla Corte d'appello, che ha ritenuto l'ipotesi priva di fondamento, ricostruendo un meccanismo truffaldino di cui l'imputato era parte integrante. Alla luce di tale ricostruzione fattuale, il giudice di secondo grado ha ritenuto smentita in fatto l'ipotesi alternativa avanzata dalla difesa (di un inganno di cui l'imputato sarebbe stato vittima), concludendo per l'addebito di responsabilità penale oltre ogni ragionevole dubbio.

Ne consegue la manifesta infondatezza, oltre che il contenuto non consentito, dei rilievi sollevati con il terzo motivo di ricorso.

5. Il quarto motivo di ricorso, mediante il quale è stato denunciato un vizio della motivazione, nella parte relativa alla omessa considerazione della applicabilità della causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131 bis cod. pen., è inammissibile, non essendo l'applicazione di tale causa di non punibilità stata oggetto di alcuna richiesta o istanza, né con l'atto d'impugnazione, né nel corso del giudizio di secondo grado.

La questione dell'applicabilità della causa di esclusione della punibilità prevista dall'art. 131 bis cod. pen. non può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di legittimità, ostandovi quanto stabilito dall'art. 606, terzo comma, cod. proc. pen., che comporta l'inammissibilità dei motivi di impugnazione con cui, come nel caso in esame, venga dedotta una violazione di legge che non sia stata eccepita nemmeno con l'atto di appello (cfr. Sez. 2, n. 17693 del 17/01/2018, Corbelli, Rv. 272821; Sez. 2, n. 53630 del 17/11/2016, Braidic, Rv. 268980; Sez. 5, n. 4184 del 20/11/2014, dep. 2015, Giannetti, Rv. 262180; Sez. 3, n. 21920 del 16/05/2012, Hajmohamed, Rv. 252773).

La disposizione, nella sua attuale formulazione, era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza impugnata, e quindi l'imputato avrebbe potuto chiederne l'applicazione, giacché sul giudice di merito non grava, in difetto di una specifica richiesta, alcun obbligo di pronunciare comunque su tale causa di esclusione della punibilità (Sez. 5, n. 4835 del 27/10/2021, dep. 2022, Polillo, Rv. 282773 - 01; expluribus Sez. 3, n. 19207 del 16/03/2017, Celentano, Rv. 269913 - 01; cfr. pure Sez. 2, n. 21465 del 20/03/2019, Semmah, Rv. 275782 - 01; Sez. 5, n. 57491 del 23/11/2017, Moio, Rv. 271877 - 01).

6. In conclusione il ricorso deve essere rigettato, a cagione della infondatezza del primo motivo di ricorso e della inammissibilità di quelli residui.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Conclusione

Così deciso il 17 gennaio 2024.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2024.