1. Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Tutti i motivi dedotti riguardano l'aggravante dell'art. 577, comma 1 n. 1, cod. pen., e si esamineranno congiuntamente nella loro concatenazione.
1.1. La disposizione in esame, nella forma vigente all'epoca del commesso reato, era la seguente: "Si applica la pena dell'ergastolo se il fatto preveduto dall'art. 575 è commesso: 1) omissis ... contro la persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente".
Con chiara evidenza, la norma richiedeva la contestuale sussistenza della relazione affettiva e della stabile convivenza, contrariamente al testo novellato con Legge 19 luglio 2019, n. 69 che, nell'art. 11, comma 1, lett. a), ha inteso tali requisiti in termini alternativi.
La censura difensiva e nel senso che l'aggravante in esame sia stata non contestata - rectius: non integralmente contestata - nell'imputazione di reato, che fa riferimento soltanto "all'aggravante di avere commesso il fatto in danno di persona ad esso legata da relazione affettiva", e per il resto non contiene una descrizione in fatto dell'ulteriore requisito della stabile convivenza. Da ciò deriverebbe la lesione del diritto di difesa per violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, alla stregua dei principi affermati nella pronuncia delle Sezioni Unite n. 24906 del 18/4/2019, Sorge.
Il costrutto difensivo è infondato, con riguardo al concreto dispiegarsi della presente vicenda processuale.
Nessuna lesione del diritto di difesa si è concretizzata nella specie, poiché fin dal primo grado di giudizio lo stesso imputato ha riconosciuto di avere intrattenuto con B.B.una relazione affettiva di carattere stabile, connotata dalla convivenza e dall'assunzione di obblighi di mutua solidarietà, tali da assimilarla ad una tipica convivenza di fatto.
Come ha messo in luce la sentenza impugnata, A.A. ha pienamente ammesso l'omicidio, ed ha descritto il rapporto con B.B.in termini di "fidanzamento" e di convivenza, descrivendo anche i luoghi dove la coppia aveva convissuto, dapprima nella frazione di S di L, quindi a V, e dal luglio 2019 in un box della ditta per cui A.A. lavorava; tali elementi, poi, sono stati confermati dalle prove dichiarative rese da terze persone e dai risultati delle indagini, ed infatti la perquisizione del box nella disponibilità dell'imputato aveva permesso di rinvenire effetti personali della B.B..
Da tali risultati istruttori non si può prescindere, avvalorandosi altrimenti una distorcente e formalistica concezione per cui - nonostante lo stesso imputato abbia riconosciuto la completa integrazione dell'aggravante, come all'epoca disegnata dalla legge - non potrebbe farsi luogo al suo accertamento
processuale per la incompletezza della sua contestazione.
In tale direzione si è da tempi risalenti attestata l'esegesi di legittimità, affermando - in tema di correlazione fra l'accusa e la sentenza - che la contestazione formale dell'accusa, contenuta nel capo di imputazione, deve ritenersi integrata dai contributi informativi dell'imputato, quando questi siano stati resi in modo da consentire l'esercizio della difesa (Sez. 2, n. 5877 del 01/03/1974, Chiarello, Rv. 127871; Sez. 2, n. 6697 del 20/02/1976, Pongelli, Rv. 133756).
In specie, è stata esclusa la violazione dell'obbligo di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza, quando l'accusa venga precisata o integrata con le risultanze degli interrogatori e degli altri atti acquisiti al processo, e in particolare quando il fatto ritenuto in sentenza, quantunque diverso da quello contestato, sia stato prospettato dallo stesso imputato come elemento a sua discolpa ovvero per farne derivare un'ipotesi di reato meno grave, atteso che, avendo in tal caso il medesimo imputato apprestato la necessaria difesa in relazione alla diversa prospettazione del fatto volontariamente offerta, non è dato riscontrare quella violazione del diritto alla difesa conseguente alla trasformazione o sostituzione dell'addebito che la norma intende sanzionare (Sez. 6, n. 20118 del 26/02/2010, Pg in proc. Faccani, Rv. 247330; Sez. 5, n. 50326 del 16/09/2014, Sommariva, Rv. 261420).
Risulta dunque confermato che la tematica della correlazione tra accusa e decisione è stata sempre affrontata, come si è accennato in estrema sintesi, in una prospettiva sostanzialistica imperniata sulla concreta possibilità per l'imputato di difendersi compiutamente sull'oggetto dell'addebito.
Nella specie si è verificata proprio tale situazione, ed in entrambi i gradi processuali la difesa ha ampiamente interloquito sul punto della convivenza, accettando il contraddittorio senza riserve di sorta, e palesando una prevedibilità del riconoscimento dell'aggravante in discorso - peraltro specificamente indicata nel nomen iuris mediante richiamo della disposizione di cui all'art. 577, comma 1 n. 1, cod. pen. - nei termini in cui all'epoca era normativamente disegnata come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, in modo da soddisfare la necessita di una congrua ed informata interlocuzione, discendente dai principi del fair trial di cui all'art. Ili Cost. e all'art. 6 CEDU.
Non smentisce tale impostazione il richiamo alla pronuncia delle Sezioni Unite Sorge (n. 24906 del 18/4/2019), che - com'e noto - si è occupata della ammissibilita di una contestazione in fatto di circostanze aggravanti costituite (anche) da componenti di natura valutativa (come quella ex art. 476, comma 2, cod. pen., di cui si occupava detta sentenza), escludendole dal novero di quelle virtualmente emergenti da una mera descrizione in fatto, in quanto esse necessitano della esplicita indicazione degli elementi costitutivi della fattispecie circo-stanziale.
Nel caso in esame, invece, si è al cospetto di una circostanza interamente dispiegata su elementi oggettivi - relazione affettiva e stabile convivenza - cosi da potersi ricavare dal mero richiamo delle situazioni evocate da tali locuzioni.
1.2. La seconda censura deduce erronea applicazione dell'aggravante in discorso, con riferimento alla necessita che la convivenza di fatto coincida con la nozione disciplinata dalla Legge n. 76 del 2016, al pari delle altre relazioni personali citate nell'art. 577 cod. pen., al primo comma n. 1 e al secondo comma, che si individuano mediante precisi riferimenti alle nozioni normative in tema di filiazione o di "unione civile" o di rapporto di coniugio. In tale prospettiva, secondo la difesa, rileva il disposto dell'art. 1, comma 36, L. 20/5/2016, n. 76, che definisce "conviventi di fatto" due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, per il cui accertamento è necessaria la dichiarazione anagrafica prevista dagli artt. 4 e 13 del DPR 30/5/1989, n. 223, requisiti nella specie assenti.
Tale censura non coglie la peculiarità della figura aggravata di omicidio in esame, intendendo ridurla ad una mera situazione formale, in spregio alla ratio della circostanza che risiede nella sanzione del maggiore disvalore insito nella lesione di una persona legata all'agente da prossimità affettiva e comunanza di vita. Invero, il bilanciamento di valori ed interessi che esprime la circostanza ex art. 577, comma 1 n. 1, cod. pen. risponde in pieno alla necessita di aggiornare l'impianto normativo penale alla mutata sensibilità dei consociati verso il gravissimo fenomeno della violenza domestica e di genere, costituente vera e propria emergenza sociale italiana. In tale prospettiva è stata inserita una serie di norme che attribuiscono il giusto riconoscimento alla gravita di crimini perpetrati in contesti familiari o di altre forme di prossimità di vita, ciò costituendo la ratio che ha indotto il legislatore ad estendere a tali diffuse situazioni nevralgiche di particolare esposizione a pericolo delle persone offese il trattamento sanzionatorio previsto per le più gravi ipotesi di omicidio, tra le quali è stato inserito anche l'omicidio in danno della persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente, secondo una rimodulazione imposta dalla recrudescenza di tali eventi e dall'acuito allarme sociale che ne deriva. Ne discende che deve essere respinto ogni tentativo di ridimensionare la portata della innovazione legislativa (all'attualità ancora più stringente, per essersi contemplate in via alternativa le due situazioni aggravanti), pretendendo di restringere la tutela rafforzata a relazioni connotate da un mero adempimento burocratico quale la dichiarazione anagrafica prevista dagli artt. 4 e 13 del DPR 30/5/1989, n. 223.
L'interpretazione caldeggiata dalla difesa, peraltro, è contrastata anche sotto il profilo sistematico: già con la modifica introdotta dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, che ha inserito nell'art. 609 ter cod. pen. l'aggravante di cui al n. 5 quater, si è dato riconoscimento alla situazione di colui che subisce violenza sessuale da persona legata da relazione affettiva, anche cessata, ed anche senza convivenza; a seguire, il D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 ha ampliato le facoltà riconosciute ai prossimi congiunti della persona offesa deceduta in conseguenza del reato, estendendole alla persona alla medesima legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente, come ora prevede l'art. 90, comma 3, cod. proc. pen.
Se ne ricava che i segni linguistici sono sganciati dai concetti normativi che contrassegnano le coppie di fatto, la cui regolamentazione normativa segue e non precede le definizioni concettuali. Resta valido sul tema il principio per cui, per il diritto penale, la stabile convivenza e la relazione affettiva sono situazioni di fatto preesistenti ad eventuali interventi legislativi emanati ad altri fini, e vanno accertate secondo criteri giurisprudenziali elaborati sulla base di situazioni reali e concrete, e non ingabbiate in categorie astratte e prestabilite. All'uopo, si è evocato un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra due persone, con legami di reciproca assistenza e protezione, intendendosi come "famiglia", agli effetti del diritto penale, ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo (Sez. 6, n. 21329 del 24/01/2007, Gatto, Rv. 236757). Invero, nell'ambito delle relazioni interpersonali non qualificate, ai fini penalistici, e ricorrente l'affermazione che i concetti di "famiglia" e di "convivenza" vanno intesi nell'accezione più ristretta, presupponente una comunità connotata da una stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché non necessariamente continua (Sez. 6, n. 9663 del 16/02/2022, P., Rv. 283120). Si aggiunge che la "relazione affettiva" tra autore del reato e persona offesa, pur se non intesa necessariamente soltanto come "stabile condivisione della vita comune", postula quantomeno la sussistenza, da verificarsi in concreto, di un legame connotato da un rapporto di fiducia, tale da ingenerare nella vittima aspettative di tutela e protezione (Sez. 5, n. 21641 del 02/03/2023, C., Rv. 284696), costituendo l'abuso o l'approfittamento di tale legame la ragione dell'aggravante in esame.
Nei motivi aggiunti, la tematica è stata rilanciata richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 98 del 14 maggio 2021, che ha ribadito la necessita di evitare l'interpretazione analogica in malam partem delle norme incriminatrici, rammentando il fondamentale canone interpretativo in materia penale, basato sull'art. 25 secondo comma, Cost. è rappresentato dal divieto di applicare la legge oltre i casi da essa espressamente stabiliti. Ma detta pronuncia - in tema di discrimine tra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori - è sfociata in una declaratoria di inammissibilità, in quanto il giudice rimettente non aveva spiegato le ragioni per le quali aveva ritenuto che, a fronte di una relazione affettiva durata qualche mese è caratterizzata da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro, la vittima potesse essere considerata, alla stregua del linguaggio comune, come persona già appartenente alla medesima "famiglia" dell'imputato, ovvero con lui "convivente". Era dunque ravvisabile l'assenza di ogni indice che consentisse di riferire la norma a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei significati letterali delle espressioni utilizzate dal legislatore, a differenza del caso in esame, ove le Corti di merito hanno concordemente ritenuto esistenti gli elementi della relazione affettiva e della stabile convivenza, cosi da applicare la disposizione aggravatrice.
1.3. Va aggiunto, sul punto, che non colgono nel segno le critiche fattuali e rivalutative dirette ad escludere la sussistenza di una stabile convivenza dalla brevità della medesima o dall'assenza di reciproca assistenza morale e materiale tra i partner. Invero, entrambe le considerazioni della difesa sono contrastate dai dati di fatto accertati dai giudici di merito, che hanno invece sottolineato il carattere di stabilita della relazione in un periodo ritenuto ragionevolmente significativo, e in tali termini concepito dalla stessa B.B., che aveva persino indicato l'abitazione dello A.A. come luogo di esecuzione degli arresti domiciliari. Risulta pertanto corrispondente a realtà l'affermazione che tra i due si fosse instaurata una relazione sentimentale oltre che di coabitazione, corredata da reciproche aspettative di assistenza: l'imputato si era prodigato nell'aiuto della compagna in tutte le sue vicissitudini familiari e di salute, accompagnandola dai medici, prendendola in carico dopo ricoveri ospedalieri ovvero nell'esecuzione degli arresti domiciliari, cercando di ripristinare le relazioni con il fratello, e dunque rispondendo a quei criteri che nella vita reale fondano una relazione stabile e caratterizzata da un intenso vincolo di carattere affettivo. Si deve concludere che nella specie non è ravvisabile un problema di indeterminatezza e di insufficiente tassatività della fattispecie penale, in quanto l'analisi dei dati emersi in sede istruttoria ha invece dato corpo alla piena identità tra la situazione di fatto e quella considerata dalla disposizione dell'art. 577, comma 1 n. 1, cod. pen.
2. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, da ciò conseguendo la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. Non si procede alla liquidazione delle competenze richieste dalla difesa della costituita parte civile con nota spese allegata alle conclusioni scritte, poiché "Nel giudizio di cassazione non va disposta la condanna dell'imputato al rimborso delle spese processuali in favore della parte civile che non sia intervenuta nella discussione in pubblica udienza, ma si sia limitata a formulare la richiesta di condanna mediante il deposito di una memoria in cancelleria con l'allegazione di nota spese" (Sez. 6, n. 28615 del 28/04/2022, Landi, Rv. 283608). Nella specie, infatti, il processo ha avuto trattazione orale, ma la difesa della parte civile non è comparsa limitandosi a depositare, in forma digitale, le proprie conclusioni scritte e la nota spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03, in quanto imposto dalla legge.
Conclusione
Così deciso il giorno 13 settembre 2023.
Depositata in cancelleria il 29 gennaio 2024.