Giu L'art. 216, u.c., L. Fall. prevede la pena accessoria dell'inabilitazione all'esercizio e all'incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, che ha una natura speciale rispetto alla pena accessoria di cui all'art. 32-bis c.p.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE - 21 novembre 2023 N. 46787
Massima
L'art. 216, u.c., L. Fall. prevede la pena accessoria dell'inabilitazione all'esercizio e all'incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, che ha una natura speciale rispetto alla pena accessoria di cui all'art. 32-bis cod. pen. Ciò nonostante la violazione del relativo divieto integra il delitto di cui all'articolo 389 cod. pen.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE - 21 novembre 2023 N. 46787

1. Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito precisate.

2. Il Tribunale di Rovigo ha erroneamente ritenuto insussistente il delitto di "Inosservanza di pene accessorie", di cui all'art. 389 c.p., nonostante A.A. fosse stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 alla pena accessoria dell'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per la durata di un anno e in questo lasso di tempo avesse continuato ad esercitare le funzioni ed i poteri connessi alla carica rivestita di socio accomandatario e legale rappresentante delle società "(Omissis) Sas di A.A. e C." e "(Omissis) Sas di A.A. e C.".

3. E' opportuno delineare la ratio della fattispecie contestata a partire dagli interventi normativi che l'hanno coinvolta.

3.1. Per garantire effettività alle pene accessorie, il cui rispetto è rimesso allo stesso condannato, il legislatore ha previsto l'autonoma figura delittuosa di cui all'art. 389 c.p. che in origine incriminava la trasgressione dei soli "obblighi" derivanti dall'interdizione perpetua dai pubblici uffici e dall'interdizione o sospensione da una professione o da un'arte.

La L. 24 novembre 1981, n. 689 ha esteso il delitto alla violazione di tutte le pene accessorie - di cui ha anche ampliato il catalogo - a prescindere che siano o meno disciplinate dal codice penale; ha previsto la trasgressione anche dei "divieti" e ha punito la condotta con la sanzione detentiva, anzichè con quella alternativa, così valorizzandone in modo significativo la gravità. Infatti, la finalità dell'art. 389 c.p. è quella di rafforzare il soddisfacimento della pretesa punitiva derivante dalla violazione delle pene accessorie in quanto volte ad evitare la permanenza dell'autore del reato nel contesto sociale, professionale o relazionale in cui il delitto è stato commesso e così irrobustire il contrasto a determinati ambiti delinquenziali in una logica non solo sanzionatoria, ma soprattutto deterrente.

Nella Relazione al progetto definitivo al Codice penale le pene accessorie sono considerate sanzioni che "per il loro intrinseco carattere mancano di un'efficienza tale, per cui possano riuscire, per sè medesime, sufficienti a realizzare gli scopi intimidatori ed afflittivi della repressione. Di qui la evidente necessità di combinarle sempre congiuntamente ad altre pene, rispetto alle quali esse sono complementari e accessorie".

La dottrina penalistica tradizionale, proprio in forza della menzionata Relazione e dei lavori preparatori al codice penale, ha ritenuto che le pene accessorie tendessero ad un obiettivo di prevenzione generale o di difesa sociale, oltre che ad una funzione afflittiva e rieducativa omogenea a quella tipica delle pene principali.

L'evoluzione normativa, che ne ha visto l'estensione in ambiti e contesti criminali diversi, impone di valorizzarne soprattutto la funzione di prevenzione speciale in quanto le pene accessorie sono volte ad evitare che l'autore reiteri la condotta criminosa, in ordine a singoli reati o gruppi di reati, impedendogli di ricadere nel delitto precludendogli il contatto con l'interesse offeso.

3.2. Le pene accessorie, elencate dall'art. 19 c.p., si caratterizzano per essere applicate solo in aggiunta ad una pena principale e si sostanziano o in interdizioni oppure nella privazione di certi diritti o di certe capacità o, infine, in forme che rendono maggiormente afflittiva la pena principale.

Esse non costituiscono un numero chiuso in quanto sono numerose quelle previste in diversi settori dell'ordinamento (legge fallimentare, testo unico sugli stupefacenti, testo unico ambientale, disciplina tributaria, eccetera) e stante la loro efficacia, proprio in chiave di prevenzione speciale, ne sono state introdotte altre, tra cui, ad esempio, quelle per i condannati di delitti contro la personalità individuale con la L. n. 172 del 2012 (in materia di prostituzione e pornografia minorile, istigazione alla pedofilia, perdita del diritto agli alimenti ed esclusione dalla successione della persona offesa) con ampliamento della sfera di applicazione.

La maggioranza delle pene accessorie ha contenuto interdittivo e comporta il divieto di svolgere determinate attività, in termini assoluti o in determinati luoghi o contesti, di rivestire specifici uffici, di esercitare facoltà o diritti, di imporre la cessazione di taluni rapporti.

3.3. Anche l'art. 32-bis c.p., applicato a A.A. con sentenza irrevocabile, è stato introdotto con la L. 24 novembre 1982, n. 689 per una più efficace repressione della criminalità economica ed imprenditoriale, con un'ulteriore estensione della sfera dei destinatari (dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari) avvenuta con la L. 28 dicembre 2005, n. 262.

Questa pena accessoria comporta, per l'autore, la perdita temporanea della capacità di esercitare uffici direttivi (amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale, dirigente preposto a redigere i documenti contabili) o di rappresentanza (institoria e procuratoria) delle persone giuridiche e delle imprese. Essa consegue automaticamente dalla condanna alla reclusione non inferiore a sei mesi per delitti commessi con abuso di poteri o violazione dei doveri inerenti all'ufficio e la sua durata si determina ex art. 37 c.p..

La disposizione trova un precedente nel previgente art. 2641 c.c. (abrogato dalla L. n. 689 del 1982, art. 148), sostanzialmente disapplicato dalla giurisprudenza anche per la sua collocazione, che prevedeva la sanzione interdittiva tra le disposizioni di chiusura per i reati societari, ma era considerata applicabile anche ai reati comuni.

La ratio dell'art. 32-bis c.p. è costituita, da un lato, dalla necessità di colpire più severamente i reati commessi utilizzando una posizione giuridica qualificata da specifici poteri o doveri, dall'altro lato, dalla necessità di allontanare il condannato dalle mansioni nell'esercizio delle quali ha commesso il delitto, in considerazione della natura criminogena derivante dalla posizione ricoperta.

Poichè il contenuto di questa pena accessoria è quello di interdire l'esercizio di uffici direttivi o di rappresentanza delle persone giuridiche e delle imprese, ne consegue che l'eventuale violazione del divieto, per l'intero periodo di sua applicazione, produce due effetti: sotto il profilo civilistico la nullità degli atti posti comunque in essere, perchè contrari a norme imperative ai sensi dell'art. 1418 c.c., comma 1; sotto il profilo penalistico la commissione del delitto di cui all'art. 389 c.p..

3.4. Alla luce di questo quadro costituisce un' interpretazione contra legem, oltre che illegittimamente abrogatrice dell'art. 389 c.p., quella apoditticamente proposta dal Tribunale di Rovereto nella parte in cui stabilisce che la pena accessoria non sia "una pena in senso proprio" così mostrando di non confrontarsi con l'art. 20 c.p. che non solo la denomina pena, ma stabilisce che essa consegua "di diritto alla condanna, come effetti penali di essa", nel senso che non è necessaria un'espressa dichiarazione nella sentenza per la sua applicazione.

Infatti, l'elemento oggettivo dell'art. 389 c.p. è costituito solo dalla trasgressione agli obblighi o ai divieti inerenti alla pena accessoria, intesi come esercizio di attività inibite, il cui rispetto è affidato al condannato.

Inoltre, la sentenza continua nella sua interpretazione abrogatrice lì dove arbitrariamente stabilisce che la sanzione, collegata alla violazione della pena accessoria dell'incapacità di esercitare gli uffici indicati dall'art. 32-bis c.p., sia soltanto l'invalidità civilistica degli atti compiuti dal condannato durante il periodo di interdizione e non anche la sanzione penale prevista dall'art. 389 c.p..

Infine, la pronuncia impugnata, sempre con asserzioni lapidarie e non argomentate, sostiene che l'art. 32-bis c.p. non disponga alcun obbligo o divieto a carico del condannato tanto da rendere inapplicabile l'art. 389 c.p. che fa riferimento ad obblighi e divieti tra i quali ovviamente non può che essere inclusa quella che l'art. 32-bis c.p. definisce "interdizione", lemma che testualmente vuol dire proibizione, divieto.

A ciò si aggiunge, come correttamente sostenuto nella requisitoria del Procuratore generale, che anche l'art. 216, u.c., legge fallimentare prevede la pena accessoria dell'inabilitazione all'esercizio e all'incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, che ha una natura speciale rispetto alla pena accessoria di cui all'art. 32-bis c.p., ciononostante non si è mai dubitato che la violazione del relativo divieto integri il delitto di cui all'art. 389 c.p. (Sez. 6, n. 9514 del 15/12/2020, dep. 2021, Pieri, Rv.281610, richiamata dal ricorso).

4. Le questioni poste con la memoria dal difensore di A.A. non sono valutabili in quanto richiedono accertamenti di fatto estranei alla sede di legittimità.

5. Per gli argomenti esposti il ricorso deve essere accolto con l'effetto di annullare la sentenza con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Rovereto, in diversa persona fisica.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Rovereto, in diversa persona fisica.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2023.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2023