1. Premesso che il contenuto del ricorso a firma dell'avvocato Bacchelli coincide sostanzialmente con quello di due motivi (secondo e terzo) del ricorso a firma dell'avvocato Orrù e che dunque i ricorsi saranno congiuntamente trattati, essi, seppur per parte versati in fatto, risultano fondati nei limiti e per le ragioni di seguito indicate.
2. Fondate appaiono, in particolare, le censure relative alla non configurabilità del delitto di tentata truffa aggravata (art. 56; art. 640, comma 2, n. 2).
2.1. Sulla base della dettagliata descrizione della vicenda fattuale ad opera del giudice di secondo grado non può escludersi che la ricorrente fosse animata da un intento decettivo, come indicato da plurimi elementi. Tra essi è possibile annoverare: l'atteggiamento elusivo della ricorrente di fronte alle richieste di chiarimento avanzate da B.B.; la richiesta intermedia - di 8.000 Euro a B.B. con il pretesto di pagare il compenso del chirurgo consulente che, invece, è successivamente risultato di gran lunga inferiore (2.440 Euro, e che fu poi comunque liquidato dalla stessa B.B., come peraltro da iniziali accordi); la telefonata alla psichiatra cui A.A. aveva indirizzato B.B. e che, sempre secondo la ricostruzione dei giudici di merito, mirava a condizionarne la diagnosi nel senso dell'affermazione di una incapacità di intendere e di volere; la richiesta di un compenso finale che (a prescindere dalle prassi del settore e al di là dei rilievi che saranno successivamente svolti a proposito dell'altro capo di imputazione) risulta oggettivamente sproporzionato - chiosano i giudici di merito, poco meno di 9.000 Euro al mese - oltre che con ogni probabilità non dovuto (considerato che, secondo l'accordo verbale di cui parlano i ricorrenti, B.B. avrebbe dovuto pagare alla ricorrente il 10% del risarcimento ricevuto dall'assicurazione grazie alla sua opera ma che tale risarcimento non venne erogato).
A prescindere, tuttavia, da ogni considerazione sulla sufficienza (o meno) di tali elementi ad integrare il delitto di truffa, anche solo tentata, il capo di imputazione, che condiziona lo svolgimento del processo ed orienta l'esercizio dei diritti di difesa, si incentrava su accuse specifiche e diverse.
Gli addebiti consistevano, cioè, nell'aver tentato di costringere B.B., dopo la morte del marito a seguito di una operazione chirurgica, a proporre una causa civile - piuttosto che adire la via penale, come questa desiderava - e, dopo che le fu revocato il mandato, nell'aver tentato di costringere la cliente a pagare somme di denaro non dovute e appunto sproporzionate per eccesso rispetto all'attività svolta.
Ebbene, la vicenda storica per come fotografata in tale contestazione e per come in parte ricostruita dai giudici di merito, è segnata da forme di più o meno esplicite e sicuramente ripetute di pressione psichica nei confronti della parte civile, che concretano un comportamento discutibile sul piano deontologico ed etico - vieppiù considerato che B.B. stava attraversando un momento molto delicato della sua vita -, forse anche suscettibili di trovare risposta sul piano civilistico.
Esse appaiono, tuttavia, penalmente irrilevanti.
Nel fatto difettano gli elementi costitutivi dell'estorsione (per cui A.A. era stata condannata in primo grado), non essendo ravvisabile la necessaria "costrizione mediante violenza o minaccia". Mancano però anche i requisiti della truffa, quantomeno sotto il profilo degli "artifizi o raggiri" che, già sulla base dell'insegnamento tradizionale, devono consistere, rispettivamente, nella trasfigurazione della realtà esterna e in quello che la risalente dottrina definiva "subdolo ravvolgimento dell'altrui psiche": laddove le condotte contestate manifestano un'esplicita finalizzazione induttiva, piuttosto che ingannatoria (così come, a fortiori, non sono ravvisabili gli estremi della circostanza aggravante, la quale richiede l'aver ingenerato il timore di un pericolo "immaginario" e che si riferisce tradizionalmente a ben diverse manifestazioni criminologiche).
2.2. Per tale ragione, deve concludersi che il reato di tentata truffa aggravata non sussista, con la conseguenza che la sentenza impugnata va annullata in relazione al capo a) di imputazione. L'annullamento, non residuando Spa zio di deliberazione, va disposto senza rinvio.
L'accoglimento dei ricorsi sul punto del difetto di responsabilità per la tentata truffa aggravata comporta l'assorbimento dell'esame del primo motivo di ricorso dell'avvocato Orrù, relativo all'asserita compressione dei diritti difensivi conseguente alla ri-qualificazione del fatto a seguito del giudizio abbreviato (invero, comunque insussistente, dal momento che il fatto storico è rimasto lo stesso), come anche dei rilievi contenuti nel quarto motivo del medesimo ricorso a proposito del calcolo della pena per la continuazione.
3.1. Venendo alle deduzioni difensive concernenti la condanna dell'imputata per esercizio abusivo di una professione (art. 348 c.p.), al di là dell'apprezzamento degli elementi fattuali allegati nei ricorsi, invero equivoci e comunque sottratti alla cognizione del giudice di legittimità, si conviene con i rilievi della ricorrente là dove si evidenzia che la mera spendita del titolo di avvocato da parte di chi non lo possieda, come nel caso di A.A., non concreta la fattispecie in oggetto.
Questo collegio ritiene, infatti, che a tal fine - nel rispetto del principio di extrema ratio penalistica - debba piuttosto richiedersi la realizzazione di un'attività svolta in forma professionale, in modo continuativo, sistematico ed organizzato (in tal senso, Sez. 6, n. 32952 del 25/05/2017, Favata, Rv. 270853, in una fattispecie concreta di occasionale redazione di denuncia, ancorchè scritta su carta intestata).
Nel caso di specie, tuttavia, A.A. non si è limitata ad usare la qualifica di avvocato, posto che dalla sentenza, come pure dai medesimi ricorsi presentati si evince che la stessa ha svolto continuativamente, per nove mesi, una consulenza a favore di B.B. che mirava a conseguire il risarcimento in sede giudiziaria civile.
Se è così, non erra la difesa di A.A. quando evidenzia come non tutte le attività stragiudiziali siano dalla legge riservate agli avvocati, assistendosi peraltro - potrebbe aggiungersi - ad una sorta di flessibilizzazione degli originari comparti delle professioni, nella specie legali, e alla nascita di figure un tempo inesistenti.
Sbaglia però quando dimentica che le attività destinate a sfociare in un contenzioso giudiziario sono riservate ai soli avvocati.
E' vero, infatti, che l'a L. 14/01 del 2014, n. 4, art. 1, nel disciplinare la "professione non organizzata in ordini o collegi", precisa (comma 2) che per tale "si intende l'attività economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il concorso di questo". Lo stesso comma prevede, tuttavia - immediatamente di seguito e per quanto qui rileva - l'espressa "esclusione delle attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi o elenchi ai sensi dell'art. 2229 del codice civile".
Ora, premesso che nella riserva dell'art. 2229 c.c. rientra l'attività forense, la L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 2, comma 6, nel disciplinarne l'esercizio, sancisce che "fuori dei casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla legge per gli esercenti altre professioni regolamentate, l'attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all'attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati".
Ebbene, dalla lettura della sentenza impugnata risulta appunto come A.A. avesse ad esempio incardinato presso la Camera di Commercio una procedura specificamente definita di "mediazione", per legge obbligatoriamente prodromica e dunque "connessa" all'attività giurisdizionale. Nè tale dato è stato smentito, tramite contrarie e specifiche allegazioni, dalla difesa.
Risultando dunque l'attività stragiudiziale esercitata dalla ricorrente, in difetto dell'apposito titolo abilitativo, connessa a quella giudiziaria civile ed essendosi tale esercizio prolungato per un periodo apprezzabile di tempo, deve concludersi che la Corte di appello di Cagliari ha ritenuto in maniera corretta e con motivazione non illogica che la condotta di A.A. integrasse il delitto di cui all'art. 348 c.p..
3.2. Nel caso di specie e con le precisazioni svolte, va, dunque, confermato l'insegnamento di questa Corte di legittimità, per cui integra il reato di esercizio abusivo di una professione (art. 348 c.p.) il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorchè lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato (Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011, dep. 2012, Cani, Rv. 251819).
Tale insegnamento è stato d'altronde richiamato, in tempi più recenti e con riferimento ad una vicenda analoga a quella oggetto del presente giudizio, in Sez. 2, n. 46865 del 26/09/2019, Merenda, non mass., sentenza che, nel ribadire la ratio decidendi delle Sezioni Unite, evidenzia come le connotazioni di abitualità nello svolgimento di attività pur di per sè non esclusivamente riservate ad una professione, siano comunque suscettibili di ingenerare affidamento nei terzi, mediante l'accreditamento di un apparente legittimo patrocinio, conforme ai fini di tutela degli interessi del fruitore, presidiati dai presupposti di onorabilità, competenza ed etica professionale propri dello specifico ordinamento.
3.3. Per le ragioni esposte, i motivi dei ricorsi tesi ad escludere la configurabilità, in capo all'imputata, del delitto ex art. 348 c.p. devono essere rigettati.
4. Ferma dunque la responsabilità di A.A. per il reato di esercizio abusivo della professione, è invece fondato il quarto motivo del ricorso presentato dall'avvocato Orrù, relativo alla quantificazione della pena.
Sul punto, va ricordato che la L. 11 gennaio 2018, n. 3 ha sostituito, nella fattispecie in oggetto, la pena della "reclusione fino a sei mesi o con la multa da Euro 103 a Euro 516" con la "reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da Euro 10.000 a Euro 50.000".
Tale legge non era però ancora vigente al momento del fatto commesso, e ciò - per le ragioni indicate nel ricorso - a prescindere dal momento in cui debba ritenersi perfezionata la consumazione del reato - e cioè alla data della revoca del mandato da parte di B.B., nel 2015, oppure al momento dell'inoltro della richiesta di pagamento tramite avvocato da parte di A.A., due anni e mezzo dopo, quando era comunque ancora pendente la vacatio legis.
Di conseguenza, la modifica legislativa non avrebbe potuto essere applicata, se non incorrendo in un'inammissibile violazione del principio di irretroattività della legge penale.
5. Dovendo annullarsi sul punto la sentenza, con rinvio ai giudici di merito limitatamente alla nuova determinazione della pena - e conseguente passaggio in giudicato dell'affermazione di responsabilità dell'imputata per il delitto di esercizio abusivo della professione -, risultano assorbiti altresì il quinto e il sesto motivo del ricorso a firma dell'avvocato Orrù, in cui sono dedotti erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione in rapporto alla scelta operata dai giudici di secondo grado, rispettivamente, di discostarsi dal minimo edittale nella commisurazione della pena e di non concedere le circostanze attenuanti generiche.
6. E' infine fondato e va, dunque, accolto il settimo motivo di ricorso dell'avvocato Orrù, là dove deduce l'omessa motivazione del provvedimento impugnato quanto alla richiesta dedotta in appello - di concedere all'imputata il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. Su di esso il giudice del rinvio, dopo aver rideterminato la pena, sarà dunque chiamato a pronunciarsi.
7. Alla condanna per il delitto di esercizio abusivo segue la liquidazione delle stesse, nella misura richiesta dalla parte civile.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in relazione al capo a) perchè il fatto non sussiste. Annulla la medesima sentenza in relazione al capo b) limitatamente al trattamento sanzionatorio e alla non menzione della condanna e rinvia, per nuovo giudizio su tali punti, ad altra sezione della Corte di appello di Cagliari. Visto l'art. 624 c.p.p., dichiara la irrevocabilità della sentenza in ordine all'affermazione della penale responsabilità dell'imputata per il capo b). Rigetta il ricorso nel resto. Condanna, inoltre, l'imputata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile B.B. che liquida in complessivi Euro 2.174,65, oltre accessori di legge.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 15 marzo 2023.
Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2023