Giu furto in abitazione: lo studio legale rientra nella nozione di "privata dimora"
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE - 11 aprile 2023 N. 15216
Massima
È riconosciuta la sussistenza del furto in abitazione nel caso di accesso a studi legali o comunque a studi professionali, in quanto lo studio legale rientra nella nozione di "privata dimora" e si caratterizza sia per lo ius excludendi alios sia per l'accesso non indiscriminato del pubblico sia infine per la potenziale presenza di persone anche nell'orario di chiusura, proprio perché il titolare è libero di accedervi in qualunque momento.

Fonti:

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE - 11 aprile 2023 N. 15216

Il ricorso è inammissibile.

1. Il primo motivo è manifestamente infondato.

Il caso in esame è analogo ad altro deciso da questa Sezione con una sentenza che è stata citata dal giudice di primo grado nella propria motivazione (Sez. 5, n. 34475 del 21/06/2018, Tako, Rv. 273633) e nella quale la Corte, precisando che lo studio legale rientra nella nozione di "privata dimora", ha messo in evidenza proprio le caratteristiche sottolineate dal ricorrente, per evidenziare che lo studio legale si caratterizza sia per lo ius excludendi alios sia per l'accesso non indiscriminato del pubblico sia infine per la potenziale presenza di persone anche nell'orario di chiusura (nel caso scrutinato dalla Corte in quell'occasione, notturno), proprio perchè il titolare è libero di accedervi in qualunque momento.

Analoga decisione, questa volta citata dalla Corte di appello nella sentenza impugnata, è stata presa da diversa Sezione (Sez. 4, n. 38412 del 27/10/2021, non massimata), ancora una volta con specifico riferimento ad uno studio legale, e molte altre sono le decisioni recenti di questa Corte, che hanno riconosciuto la sussistenza del furto in abitazione in casi di accesso a studi legali (Sez. 5, n. 45088 del 23/09/2022, Testa; Sez. 5, n. 24438 del 06/02/2019, Delli Carri) o comunque a studi professionali (Sez. 4, n. 596 del 20/12/2022, dep. 2023, Elia; Sez. 5, n. 46062 del 08/09/2022, Napoli).

Le due motivazioni conformi, di primo e secondo grado, si saldano tra loro (Sez. 5, n. 14022 del 12/01/2016, Genitore, Rv. 266617; Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997, dep. 05/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145), e forniscono una risposta chiara, completa e corretta al quesito in ordine all'esatta qualificazione giuridica del fatto, sicchè non sussiste il denunciato error iuris.

Del resto l'interpretazione citata, correttamente seguita dai giudici di merito nel caso in esame, è perfettamente conforme alle linee direttrici fissate dalle Sezioni Unite nella sentenza che il ricorrente richiama (Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D'Amico, Rv. 270076). Sentenza che effettivamente, con l'avallo della giurisprudenza costituzionale che ha approfondito la tutela del domicilio garantita dalla Cost., art. 14 (in particolare, sent. n. 149 del 2008), accedendo ad una nozione ristretta e letterale della locuzione "privata dimora" contenuto nella norma incriminatrice e tuttavia ricordando come la medesima norma si riferisca anche alle "pertinenze" della "privata dimora", ha ritenuto preferibile l'orientamento più restrittivo e rigoroso tra i due che si contrapponevano.

Nel procedere a tale operazione, tuttavia, le Sezioni Unite hanno definito "indiscutibile" (pag. 9 della motivazione) che in uno studio professionale o in qualsivoglia altro luogo di lavoro si compiano anche "atti della vita privata". Ciò premesso, hanno ritenuto che ciò che realmente distingue il luogo di lavoro dalla privata dimora (o dalle pertinenze di esse) cui si riferisce l'art. 624-bis c.p. è la possibilità che tali atti della vita privata vengano compiuti "in modo riservato e precludendo l'accesso a terzi".

Esattamente quanto accade in uno studio legale, soprattutto negli orari in cui il pubblico non vi può accedere liberamente, come nella fattispecie in esame, secondo la stessa prospettazione del ricorrente.

2. Inammissibile, in quanto manifestamente infondato, è pure il secondo motivo.

Va ricordato che la disposizione invocata (art. 62 n. 4 c.p.) prevede che, nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, sia cagionato alla persona offesa un "danno patrimoniale di speciale tenuità" (ovvero, ma non è questo il caso, che di speciale tenuità siano il lucro perseguito e contemporaneamente, da un punto di vista del danno criminale, l'evento dannoso o pericoloso procurato: Sez. U, n. 24990 del 30/01/2020, Dabo, in motivazione). Dunque, certo un danno di natura "patrimoniale" - che tuttavia va inteso come "il complesso dei danni patrimoniali oggettivamente cagionati alla persona offesa dal reato come conseguenza diretta del fatto illecito e perciò ad esso riconducibili, la cui consistenza va apprezzata in termini oggettivi e nella globalità degli effetti" (Cass. Sez. U, n. 35535 del 12/07/2007, Ruggiero, Rv. 236914), e dunque comprensivo, nel caso di specie, anche dei danni cagionati dalla violenza esercitata sulla porta di ingresso dello studio - ma che rileva solo in quanto sia non già "modesto", o di "particolare tenuità" (per richiamare altra formula usata dal legislatore, questa volta nell'art. 131-bis c.p.), bensì di tenuità "speciale"; cioè davvero minima.

Dunque, come è stato chiarito dalla giurisprudenza costante, viene in rilievo solo un danno "lievissimo, ossia di valore economico pressochè irrisorio, avendo riguardo non solo al valore in sè della cosa sottratta, ma anche agli ulteriori effetti pregiudizievoli che la persona offesa abbia subito in conseguenza del reato, senza che rilevi, invece, la capacità del soggetto passivo di sopportare il danno economico derivante dal reato" (Sez. 2, n. 5049 del 22/12/2020, dep. 2021, Di Giorgio, Rv. 280615, ex multis).

Nel caso di specie, è sufficiente considerare che la sottrazione ha avuto ad oggetto un personal computer, cioè un bene che, anche se non nuovo di fabbrica, non può definirsi certo di valore "irrisorio"; inoltre, si trattava del computer in uso ad uno studio legale, e dunque di un bene dotato di un valore ulteriore (anche patrimoniale) rappresentato dal complesso dei dati e delle informazioni professionali in esso custoditi.

Sono evidenti, dunque, la correttezza dell'interpretazione seguita dalla Corte di appello e la manifesta infondatezza del motivo di ricorso.

3. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro tremila alla Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 15 marzo 2023.

Depositato in Cancelleria il 11 aprile 2023