1. Il primo motivo non soltanto è inammissibile in ragione della novità della devoluta censura mai precedentemente sollevata innanzi alla Corte di appello, ma è comunque manifestamente infondato.
Il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3, risulta essere stato accertato proprio muovendo dalle annotazioni delle fatture attive risultanti dalla contabilità della ditta nella titolarità dell'imputato, dalla cui disamina è emerso che gli importi ivi figuranti riportavano importi sensibilmente inferiori a quelli indicati nelle corrispondenti fatture rinvenute, non essendo stati trovati in suo possesso i documenti contabili originariamente emessi, presso i clienti che ne erano stati i destinatari. Siffatto accertamento, indipendentemente dalla sua menzione nel capo di imputazione, non ha determinato alcun mutamento del fatto contestato, ricorrente nel solo caso in cui la fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge subisca una radicale trasformazione nei suoi tratti essenziali, tanto da realizzare un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisce un pregiudizio reale dei diritti della difesa (Sez. 6, n. 36003 del 14/6/2004, Rv. 229756), onde deve ritenersi pienamente integrato il reato di cui al capo A), secondo la formulazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3, in vigore al tempus commissi delicti, senza alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza. Ed, invero, la condotta tenuta dal prevenuto presenta tutti gli elementi costitutivi richiesti dalla norma, costituiti dall'indicazione, nelle dichiarazioni dei redditi e sul valore aggiunte relative alle annualità in contestazione, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, realizzata attraverso la falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e con l'utilizzo di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l'accertamento, secondo quanto previsto dalla disposizione vigente anteriormente alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 3.
2. Nè maggior fondamento, passando alla disamina del secondo motivo, rivestono le contestazioni relative alla configurabilità del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, che il ricorrente fonda, invocando la violazione del principio di specialità, sul fatto che il mezzo utilizzato ai fini dell'evasione di imposta nella redazione delle dichiarazioni annuali fossero le fatture emesse, semmai rientranti nel diverso delitto previsto dall'art. 2, seppure neppure per quest'ultimo fossero ravvisabili, secondo la difesa, gli elementi costitutivi della fattispecie criminosa.
Del tutto correttamente la Corte lombarda evidenzia come la condotta contestata, in quanto costituita dall'indicazione nelle dichiarazioni annuali di imposta di elementi attivi fittizi, non fosse sussumibile nel reato di cui all'art. 2 cit. che postula, diversamente dall'art. 3, l'indicazione di elementi passivi fittizi, dato questo che supera il concetto di operazione inesistente, quand'anche intesa in senso parziale, precludendo la configurabilità dell'illecito in tutte le ipotesi in cui si tratti di indicazioni diverse dai costi non sostenuti dal dichiarante. E poichè nel caso di specie l'annotazione asseritamente fittizia concerneva la diversa voce dei ricavi, ovverosia l'indicazione di introiti minori rispetto a quelli attestati dalle fatture emesse dallo stesso Ali ed accertati, per effetto del controllo incrociato presso i destinatari, come effettivi, legittimamente sono stati ravvisati i presupposti dell'incriminazione contestata. Non vi è nessun elemento nè letterale nè logico che consenta di escludere la tipicità della condotta allorquando vengano utilizzati quali elementi attivi fittizi fatture artatamente falsificate, le quali rientrano a pieno titolo nella locuzione, secondo la formulazione della norma vigente all'epoca del commesso delitto, di "mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento" della finalità di evasione delle imposte perseguita dall'agente, senza alcuna compromissione del principio di specialità reciproca tra il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, e quello di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici: invero, accanto ad un nucleo comune costituito dalla presentazione di una dichiarazione infedele, deve ritenersi che il discrimen tra le due figure criminose non risieda soltanto nel fatto che il reato ex art. 2 postuli l'utilizzo di fatture o documenti analoghi relativi ad operazioni inesistenti (Sez. 3, Sentenza n. 6360 del 25/10/2018, Capobianco, Rv. 275698; Sez. 3, Sentenza n. 10916 del 12/11/2019, Bracco, Rv. 279859), ma altresì che tale utilizzo concerna gli elementi passivi della dichiarazione di imposta (corrispondenti cioè ai costi sostenuti dal dichiarante), mentre il reato ex art. 3 postula l'impiego "di mezzi fraudolenti", stando alla previgente formulazione, ovvero di "documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti", secondo il testo corrente, in ogni caso idonei alla realizzazione della finalità decettiva nei confronti degli organi accertatori, purchè incidenti sugli elementi attivi (corrispondenti, quindi, ai ricavi asseritamente conseguiti dal dichiarante) della dichiarazione di imposta così da far figurare un ammontare inferiore a quello effettivgovvero sugli elementi passivi (corrispondenti, quindi, ai costi sostenuti dal dichiarante).
E se è ben vero che alla particolare idoneità probatoria delle fatture corrisponde una maggiore capacità decettiva delle falsità commesse utilizzando tali documenti, così come affermato dalla sentenza n. 10916/2019 citata, ciò non toglie che la falsificazione delle fatture eseguita successivamente alla loro emissione con relativa annotazione sulle scritture contabili di un importo sensibilmente inferiore a quello effettivo, quale è risultato dal controllo incrociato presso i destinatari, nonchè da tre documenti rinvenuti fortunosamente nei file di un computer in uso all'azienda, si compendi comunque in un'attività falsificatoria che, incidendo sugli elementi attivi della contabilità poi riportati nelle dichiarazioni di imposta presentate dall'imputato, integra il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3.
3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
La clausola restrittiva contenuta nel D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10, secondo cui la condotta di occultamento o distruzione delle scritture contabili o dei documenti, di cui è obbligatoria la conservazione, deve essere tale da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari, è volta da un canto a circoscrivere la condotta tipica rapportando la suddetta impossibilità di ricostruzione alla sottrazione da parte del contribuente infedele delle scritture o dei documenti necessari all'accertamento e, dall'altro, a delineare il bene giuridico tutelato, ovverosia la tra Spa renza fiscale, intesa nella sua più ampia accezione di interesse al corretto esercizio della funzione pubblica di accertamento tributario. Ciò non si traduce nell'impossibilità in termini assoluti di procedere alla ricostruzione della gestione economica del contribuente per l'anno di imposta interessato, i cui elementi ben possono essere reperiti, attraverso gli strumenti di indagine a disposizione della Guardia di Finanza, anche aliunde (attraverso controlli incrociati presso i soggetti cui si riferiscono le medesime operazioni o presso i pubblici registri o facendo ricorso alla contabilità in nero), ma si riverbera ciò nondimeno sulla configurabilità del reato in ragione del rilievo che riveste, in concreto, l'offensività della condotta. Spettando al giudice accertare, in base a una valutazione comparativa della documentazione esistente e di quella mancante, se la condotta fraudolenta del contribuente sia idonea a mettere in pericolo la funzione probatoria dei cespiti imponibili che la legge assegna alla documentazione e alle scritture obbligatorie, ne deriva che il delitto debba ritenersi integrato tutte le volte in cui la documentazione o le scritture mancanti perchè occultate o distrutte non consentano o rendano più difficoltosa la ricostruzione dei redditi o del volume di affari, indipendentemente dalla circostanza che l'ufficio accertatore sia in grado di raggiungere comunque il risultato per altra via (Sez. 3, n. 20748 del 16/03/2016 - dep. 19/05/2016, Capobianco, Rv. 267028; Sez. 3, n. 41683 del 02/03/2018 - dep. 26/09/2018, Vitali, Rv. 274862) e, per converso, che debba ritenersi insussistente quando il risultato economico delle operazioni prive della documentazione obbligatoria possa essere ugualmente accertato in base ad altra documentazione conservata dall'imprenditore interessato e senza necessità di reperire "aliunde" elementi di prova.
Consegue a tale interpretazione normativa che la ricostruzione dei redditi e del volume di affari presidiata dalla norma debba intendersi quella effettuabile agevolmente e comunque nell'immediatezza dagli organi inquirenti sulla base della documentazione in possesso del contribuente e non già facendo ricorso ad indagini ulteriori o controlli incrociati presso terzi, così come accaduto nella fattispecie, adempimenti questi che in quanto richiedenti un'apposita attività investigativa, sono da ritenersi funzionali al superamento della finalità di evasione perseguita dall'imputato, risultando perciò pienamente integrata la fattispecie delittuosa prevista e punita dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10.
4. Il quarto ed il quinto motivo, da esaminarsi congiuntamente attesa l'intrinseca connessione delle dispiegate doglianze, incorrono anch'essi nella censura di inammissibilità in ragione della mancanza di specificità.
Il ricorrente si limita invero a censurare l'applicabilità del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12 bis, rilevandone la vigenza in epoca successiva al tempus commissi delicti e sostenendo, a fronte della continuità normativa affermata dalla Corte distrettuale rispetto alle previgenti disposizioni in materia, la diversa portata delle nuove disposizioni, che escludono l'operatività della confisca per le somme che il contribuente si impegna a versare all'Erario, rispetto alle previsioni dell'art. 322 ter c.p., e della L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143.
Dal raffronto tra le suddette disposizioni emerge, tuttavia, che la misura ablativa in esame, anche nella forma per equivalente, deve essere sempre disposta ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12 bis, con riguardo a tutti i delitti di cui al decreto medesimo, ivi compreso, quindi, quello di cui all'art. 3, oggetto della sentenza impugnata, senza che, al riguardo, si ponga alcuna questione di diritto intertemporale ai sensi dell'art. 2 c.p., attesa l'identità della lettera dell'art. 12 bis, de quo con quella dell'art. 322 ter c.p., comma 1, richiamato nell'art. 1, comma 143 citato, che prevede l'applicabilità della confisca, fra i reati tributari espressamente menzionati, a quello di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, con conseguente continuità normativa, alla luce della pressochè integrale sovrapponibilità, delle disposizioni succedutesi nel tempo (Sez. 3, Sentenza n. 50338 del 22/09/2016, Pm in proc. Lombardo, Rv. 268386, nonchè Sez. 3, n. 35226 del 16/06/2016, dep. 22/08/2016, D'Agapito, non massimata). L'argomentazione difensiva che si incentra sulla previsione dell'art. 12 bis, comma 2, introdotta ex novo rispetto alla normativa previgente, seppur maggiormente favorevole al reo, attiene all'ambito di operatività della misura di sicurezza la quale, oltre a non presentare alcuna attinenza con la fattispecie de qua, non risultando che l'imputato avesse concluso alcun accordo con l'Erario ai fini di un successiva regolarizzazione della sua posizione, non incide certamente sulla sua applicabilità riferita al reato in contestazione.
6. Il sesto motivo è inammissibile.
Sulla scorta del costante orientamento di questa Corte deve, infatti, ribadirsi che la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell'art. 62 bis c.p., è oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal giudice di merito con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, e quindi anche sui soli elementi ritenuti ostativi alla concessione del beneficio la cui configurabilità preclude la disamina degli altri parametri dell'art. 133 c.p., di talchè la stessa motivazione, purchè congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato. Di natura meramente contestativa e perciò generica sono le censure devolute in ordine al diniego del suddetto beneficio, la cui applicabilità è stata esclusa dalla Corte territoriale valorizzando nel coerente esercizio del suo potere discrezionale (cfr. ex multis Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899) quali elementi ostativi, e perciò prevalenti rispetto ad ogni altro fattore, la reiterazione nel tempo delle condotte in contestazione, tale da evidenziare la pervicace inclinazione dell'imputato alla trasgressione degli adempimenti tributari a suo carico, unitamente all'intensità del dolo tenuto conto della gravità delle accertate evasioni. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa non trova applicazione il disposto di cui all'art. 62 bis c.p., comma 2, secondo il quale in tanto è fatto divieto al giudice di fare riferimento al criterio dell'entità dell'elemento soggettivo contemplato dall'art. 133 c.p., comma 1, in quanto si verta in tema di recidiva ex art. 99 c.p., comma 4, per i reati previsti dall'art. 407 c.p.p., all'evidenza non ricorrente nel caso in esame. Al contrario, nella fattispecie non soltanto vale il principio già affermato da questa Corte, secondo il quale, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicchè anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (Sez. 2, Sentenza n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163; Sez. 2, Sentenza n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549), ma in ogni caso deve rilevarsi come i giudici territoriali si siano fatti carico di confutare espressamente i pretesi elementi positivi addotti dalla difesa con motivazione che le argomentazioni spese con il presente ricorso non riescono a ricondurre nell'alveo della illogicità manifesta, la quale soltanto può costituire oggetto di sindacato ad opera di questa Corte (ex multis Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269).
Il ricorso deve, in conclusione, essere dichiarato inammissibile, seguendo a tale esito l'onere delle spese del procedimento, nonchè quello del versamento, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente liquidata come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000 in favore della Cassa delle Ammende.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 27 settembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2022