Giu PRINCIPIO DI LEGALITÀ, MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA E CONCETTO DI "CONVIVENZA"
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - 11 ottobre 2022 N. 38336
Massima
Alla luce di una esegesi rispettosa del principio costituzionale di legalità, ai fini dell'applicazione della norma incriminatrice dell'art. 572 cod. pen., di "convivenza" si può parlare solamente laddove risulti acclarata l'esistenza di una relazione affettiva qualificata dalla continuità e connotata da elementi oggettivi di stabilità in quanto, lungi dall'essere confuso con la mera coabitazione, il concetto di convivenza deve essere espressione di una relazione personale caratterizzata da una reale condivisione e comunanza materiale e spirituale di vita.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - 11 ottobre 2022 N. 38336

1. Ritiene la Corte che il ricorso vada accolto, sia pur nei limiti e con gli effetti di seguito precisati.

2. Il primo motivo del ricorso è fondato.

Nella giurisprudenza di legittimità sono state finora offerte differenti soluzioni nella lettura della disposizione incriminatrice prevista dall'art. 572 c.p..

Per un verso, si è sostenuto che il reato di maltrattamenti possa configurarsi in una situazione caratterizzata dalla accertata esistenza di relazione sentimentale nella quale si sia instaurato un vincolo di solidarietà personale tra i "partner" (in questo senso, tra le molte, Sez. 6, n. 37077 del 03/11/2020, M., Rv. 280431; Sez. 6, Sentenza n. 37628 del 25/06/2019, C., Rv. 276697; Sez. 6, n. 43701 del 12/06/2019, C., Rv. 277987).

Per altro verso - con un indirizzo più pertinente al caso di specie - si è affermato che occorre valorizzare l'espresso riferimento, contenuto nell'art. 572 c.p. (nella sua versione modificata dall'art. 4 della L. 1 ottobre 2012, n. 172), alla figura del convivente, parificata a quella del familiare, come persona offesa di tale delitto: prendendo atto come con la formula "maltratta una persona della famiglia, o comunque convivente", il legislatore abbia inteso far riferimento a condotte che vedono come persona offesa il componente di una famiglia intesa come comunità qualificata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale; ovvero il soggetto che ad esso componente sia parificabile in ragione di una accertata relazione di "convivenza", che, lungi dall'essere riconoscibile nella presenza non continuativa di una persona nell'abitazione di un'altra, è solo quella che si crea quando la coabitazione della coppia sia caratterizzata da una duratura consuetudine di vita comune nello stesso luogo (così Sez. 2, n. 10222 del 23/01/2019, C., Rv. 275617; conf., più di recente, Sez. 6, n. 46097 del 01/12/2021, D., non mass.; Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, B., non mass.).

E' indispensabile, cioè, rispettare la lettera della norma incriminatrice sostanziale in argomento e non modificarne la portata operativa in termini tali da formulare opzioni applicative fondate su soluzioni che rispondono ad una logica di interpretazione analogica in malam partem, non consentita in materia penale. In tale contesto è significativa la presa di posizione della Corte costituzionale che, nell'esaminare una specifica questione processuale avente ad oggetto l'art. 521 c.p.p., ha ammonito dal rischio che l'esercizio del relativo potere da parte del giudice possa determinare una violazione del principio di tassatività sancito dall'art. 25 Cost., che impone che "in materia penale il possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo della sua legittima interpretazione": e ciò la Consulta ha fatto con riferimento al rapporto tra le due norme incriminatrici previste dagli artt. 572 e 612-bis c.p., sottolineando come "il divieto di analogia in malam partem impon(ga) di chiarire se il rapporto affettivo dipanatosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro possa già considerarsi, alla stregua dell'ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di ‘convivenzà...(e se)... davvero possa sostenersi che la sussistenza di una (tale) relazione consenta di qualificare quest'ultima come persona appartenente alla medesima "famiglia" dell'imputato (...). In difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art. 572 c.p. in casi siffatti - in luogo dell'art. 612-bis, comma 2, c.p., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona "legata da relazione affettiva" all'agente - apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice" (Corte Cost., sent. n. 98 del 2021).

In buona sostanza, alla luce di una esegesi rispettosa del principio costituzionale di legalità, ai fini della applicazione della norma incriminatrice dell'art. 572 c.p., di "convivenza" si può parlare solamente laddove risulti acclarata l'esistenza di una relazione affettiva qualificata dalla continuità e connotata da elementi oggettivi di stabilità: lungi dall'essere confuso con la mera coabitazione, il concetto di convivenza deve essere espressione di una relazione personale caratterizzata da una reale condivisione e comunanza materiale e spirituale di vita.

Seguendo questa impostazione la motivazione della sentenza impugnata si presenta palesemente incompleta ed incongrua, essendosi la Corte di appello limitata ad affermare la sussistenza del requisito del reato in argomento, pur in assenza di prova di "un progetto di vita comune (ovvero) di una organizzazione stabile della quotidianità" tra il A.A. e la B.B., per il sol fatto che la relazione sentimentale tra i due, iniziata nel gennaio del 2020, ma interrottasi per alcuni mesi e ripresa nel luglio del 2020, fosse "sfociata in una convivenza", durata circa tre settimane, "senza previsione di durata" e dunque espressione "non di mera occasionalità".

3. Anche il secondo motivo del ricorso risulta fondato, in quanto la motivazione della sentenza gravata risulta gravemente deficitaria in ordine alla doglianza, contenuta nell'appello, con la quale la difesa aveva posto in discussione la esistenza del requisito della abitualità della condotta, che rappresenta elemento qualificante il delitto di maltrattamenti in famiglia.

Ed infatti, la Corte territoriale, pur sostenendo che il A.A. si fosse reso protagonista "di reiterate condotte di intimidazione verbale e violenza fisica ai danni della compagna (...) idonee a ingenerare un clima di paura e di sopraffazione", ha genericamente parlato di iniziative "frequenti" dell'imputato: finendo però per menzionare, oltre all'episodio del (Omissis) (all'esito del quale il prevenuto era stato tratto in arresto per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato commessi all'interno del sert di (Omissis)), solamente un altro precedente caso del giugno del 2020, quando peraltro non vi era alcun rapporto di convivenza tra l'agente e la sua vittima.

In altri termini, non è stato adeguatamente chiarito se, anche in relazione alla limitata estensione dell'arco temporale entro il quale si erano manifestate quelle azioni violente, le condotte illecite dell'odierno ricorrente fossero state poste in essere in maniera continuativa o con cadenza ravvicinata, tanto da integrare gli estremi di quella abitualità che caratterizza il reato in esame (come sostenuto, tra le altre, da Sez. 6, n. 21087 del 10/05/2022, C., Rv. 283271).

4. Il terzo motivo del ricorso è manifestamente infondato.

Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte di cassazione il principio secondo il quale ai fini della consumazione del delitto di furto è sufficiente che la cosa sottratta sia passata, anche per breve tempo, sotto l'autonoma disponibilità dell'agente (così, tra le tante, Sez. 4, n. 13505 del 04/03/2020, Shehi, Rv. 279134).

Di tale criterio interpretativo la Corte di appello di Bologna ha fatto corretta applicazione, sottolineando come l'odierno imputato si fosse impossessato di numerosi gioielli della persona offesa, sottratti nell'abitazione di quest'ultima, così privata della disponibilità degli stessi: e ciò senza che fossero rilevanti la circostanza che la donna avesse poi accompagnato il A.A. con la propria vettura presso il locale sert, cercando durante il tragitto di convincere l'uomo a restituirle i monili, in quanto è sicuro che ella avesse oramai perso il possesso di quei beni; nè il fatto che in seguito il prevenuto - che aveva provato a far credere alla compagna che non avrebbe venduto quei gioielli, a conferma che l'azione fosse finalizzata a trarne un ingiusto profitto - avesse consegnato i monili alla pattuglia della polizia, che era sopraggiunta presso i locali del sert solo quanto la B.B. aveva avuto la possibilità di sollecitarne telefonicamente l'intervento.

5. Anche il quarto motivo del ricorso è manifestamente infondato.

il ricorrente ha preteso che, in questa sede di legittimità, si proceda ad una rinnovata valutazione delle modalità mediante le quali i giudici di merito avevano esercitato il potere discrezionale loro concesso dall'ordinamento ai fini della determinazione della pena finale da infliggere all'imputato. Esercizio che deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del giudice in ordine all'esistenza dei presupposti di applicazione delle relative norme di riferimento.

Nella specie del tutto legittimamente la Corte di appello ha ritenuto di negare al A.A. una riduzione della pena inflitta dal giudice di primo grado con riferimento al reato del capo d'imputazione B), avendo - con motivazione completa e congrua - chiarito come l'aumento per la continuazione, comunque rispettoso dei canoni dettati dall'art. 81 c.p., si giustificasse in ragione della oggettiva gravità dei fatti, caratterizzata da una condotta delittuosa posta in essere da soggetto con una palese indole violenta e priva di autocontrollo, nonchè della sua pericolosità sociale, come comprovata dall'esistenza di un precedente penale per omicidio doloso.

6. La sentenza impugnata va, dunque, annullata limitatamente al reato del capo A) con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Bologna che, nel nuovo giudizio su tale capo, si atterrà ai principi di diritto innanzi esposti (se del caso rideterminando la pena in relazione al reato del capo B).

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al capo A) con rinvio per nuovo giudizio su tale capo e per l'eventuale rideterminazione della pena, ad altra sezione della Corte di appello di Bologna.

Dichiara inammissibile nel resto il ricorso e definitivo l'accertamento di responsabilità sul capo B).

Conclusione

Così deciso in Roma, il 28 settembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2022