Motivi della decisione
1. In via preliminare il Collegio ritiene necessario rilevare d'ufficio la questione concernente la qualificazione giuridica delle condotte contestate ai capi a) e d), cui si riferiscono i motivi di ricorso.
Giova premettere che i fatti di cui all'imputazione provvisoria sono emersi nell'ambito del procedimento scaturito dalla denuncia sporta dall'odierno ricorrente avente ad oggetto i maltrattamenti della ex compagna S.V.C. ai danni del figlio minore L.. Nell'ambito di tale procedimento è emersa una diversa piattaforma indiziaria da cui è scaturita la contestazione provvisoria a carico del ricorrente del reato di maltrattamenti in danno della ex compagna e del figlio minore nonchè del reato di calunnia.
In particolare, quanto al reato di maltrattamenti ai danni del figlio minore, sono state contestate una serie di condotte sostanzialmente riconducibili a tre categorie:
a) condotte volte ad impedire un sereno rapporto del minore con la madre, i nonni e, persino, con le maestre, consistite, tra l'altro, nell'ostacolarne il diritto di visita disciplinato dal Tribunale, tanto da non mandare a scuola il minore quando doveva essere prelevato dalla madre, nel denigrare la figura materna, nell'indurre il minore a dare continue informazioni sugli spostamenti materni;
b) condotte di eccessivo accudimento del minore, sottoposto a continue "controvisite" mediche rispetto a quelle cui veniva sottoposto su iniziativa della madre;
c) condotte attinenti al rapporto tra l'indagato e il figlio. In tale categoria vengono ricompresi imprecisati comportamenti di "esasperazione" del rapporto con il figlio che avrebbe assunto il soprannome del padre ((OMISSIS)) e riferito di voler svolgere la stessa attività paterna - di sopravalutazione della condizione clinica del minore (un ritardo nello sviluppo fisico), di assecondamento dello stesso allorquando raccontava fatti inverosimili (quali l'essere stato colpito in testa con un bollitore dalla madre, l'avere subito violenza fisica da una maestra o l'aver avuto un litigio con una compagna di classe) e di sottoposizione a continue registrazioni delle conversazioni e delle telefonate del minore.
Le medesime condotte, consistite nell'ostacolare i rapporti tra il minore e la madre e nel controllare, anche tramite il minore, gli spostamenti della donna e le visite che questa riceveva in casa, sono state qualificate anche come forme di maltrattamento ai danni della donna (capo d), unitamente al fatto di avere sporto denuncia nei suoi confronti per il medesimo reato pur sapendola innocente (condotta già qualificata come calunnia al capo e), e come ulteriori imprecisati maltrattamenti alla presenza del minore.
1.1 Ad avviso del Collegio, tuttavia, le condotte contestate al R., come descritte nell'imputazione provvisoria e ricostruite nell'ordinanza impugnata, non sono riconducibili al paradigma dell'art. 572 c.p. per il seguente ordine di ragioni.
Quanto a quelle ritenute in danno del figlio minore, va, innanzitutto ribadito che nel reato di maltrattamenti di cui all'art. 572 c.p. l'oggetto giuridico non è costituito solo dall'interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell'incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari (cfr. Sez. 6, n. 37019 del 27/05/2003, Caruso, Rv. 226794). Secondo la costante lezione ermeneutica di questa Corte, infatti, il reato è integrato dalla condotta di chi infligge abitualmente vessazioni e sofferenze, fisiche o morali, a un'altra persona, che ne rimane succube, imponendole un regime di vita persecutorio e umiliante (Sez. 6, n. 4935 del 23/1/2019, Rv. 274617; Sez. 6, n. 3570 del 01/02/1999, Valente, Rv. 213516; Sez. 6, n. 3965 del 17/10/1994, Fiorillo, Rv. 199476).
Questa Corte ha affrontato in un unico precedente, valorizzato sia nell'ordinanza genetica che in quella impugnata, la questione relativa alla configurabilità del reato in esame in relazione a comportamenti iperprotettivi di un genitore verso il figlio. Si è, infatti, affermato che integra il delitto di maltrattamenti in famiglia il genitore che tenga nei confronti del figlio minore comportamenti di carattere iperprotettivo, tali da incidere sullo sviluppo psicofisico dello stesso, a prescindere dal fatto che il minore abbia o meno percepito tali comportamenti come un maltrattamento o vi abbia acconsentito (Sez. 6, n. 36503 del 23/09/2011, Rv. 250845). Va, tuttavia, considerato che nella fattispecie esaminata dalla Corte la madre, in concorso con il nonno, aveva posto in essere una serie di condotte consistite in atteggiamenti iperprotettivi, qualificati in termini di "eccesso di accudienza" (con l'imposizione di atti riservati all'età infantile e l'esclusione del minore da attività didattiche inerenti la motricità) e in deprivazioni sociali (in quanto gli erano stati impediti i rapporti con i coetanei) e psicologiche (attuate attraverso la rimozione della figura paterna) che sono state complessivamente valutate come idonee a ritardare gravemente sia lo sviluppo psicologico relazionale (con i coetanei e la figura paterna), sia l'acquisizione di abilità materiali e fisiche, anche elementari (come la corretta deambulazione).
Ad avviso del Collegio tale precedente è stato erroneamente ritenuto analogo al caso in esame, tanto da ritenere integrata la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza del reato di maltrattamenti in relazione alle specifiche e differenti condotte contestate al ricorrente che, come ricostruite dai Giudici di merito, non appaiono integrare l'elemento oggettivo del reato, come costantemente interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte, trattandosi, da un lato, di condotte già contestate al capo c dell'imputazione provvisoria (violazioni relative all'esercizio del diritto di visita) e, dall'altro, di condotte in parte indeterminate, ora ricostruite in relazione ad effetti comportamentali prodotti sul minore (quale, ad esempio, l'immedesimazione nella figura paterna) o alla valutazione delle sue condizioni cliniche (l'averne esagerato la portata), senza alcuna considerazione in ordine alla loro eziologia ed alla specifica condotta del ricorrente, e, in altri casi, desunte dal presupposto, peraltro non dimostrato attraverso una specifica valutazione clinica, della non credibilità delle dichiarazioni rese dal minore cui, invece, il R. avrebbe prestato credito.
Tali condotte, pur valutate unitamente agli ulteriori comportamenti (le registrazioni delle conversazioni e la sottoposizione a "controvisite mediche"), sebbene rilevanti ai fini della valutazione relativa al corretto esercizio della responsabilità genitoriale ed alle correlate determinazioni riservate al giudice civile, come ricostruite dall'ordinanza impugnata, non appaiono superare la soglia minima di offensività, rappresentata dall'inflizione abituale di sofferenze fisiche o psicologiche idonee ad incidere sullo sviluppo del minore ed a lederne l'integrità, che, anche a prescindere dalla soglia di sensibilità della vittima (cfr. in tal senso Sez. 6, n. 36503 del 23/09/2011), consenta di qualificarle come maltrattamenti.
1.2 Quanto, invece, ai maltrattamenti in danno della C., rileva il Collegio che la cessazione della convivenza con la donna costituisce un fattore ostativo alla configurabilità del reato, dovendosi, al riguardo, ribadire l'indirizzo ermeneutico secondo il quale non è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia, bensì l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (art. 612-bis c.p.) in presenza di condotte illecite poste in essere da parte di uno dei conviventi "more uxorio" ai danni dell'altro dopo la cessazione della convivenza (Sez. 6, n. 9663 del 16/02/2022, Rv. 283120; Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, Rv. 282398; Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, Rv. 282254).
Va, infatti, considerato che, muovendo dall'esegesi letterale dell'art. 572 c.p., la nozione di "persona comunque convivente" inserita dal legislatore con la novella del 2012, deve essere intesa nell'accezione più ristretta, con riferimento alla sole relazioni fondate su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorchè non necessariamente continua. E' stato condivisibilmente affermato da questa Corte che, con la formula "maltratta una persona della famiglia, o comunque convivente", il legislatore ha inteso fare riferimento a condotte che vedono come persona offesa il componente di una famiglia intesa come comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza d'affetti che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorchè non necessariamente continua (Sez. 6, n. 9663 del 16/02/2022, Rv. 283120).
Il Collegio è consapevole dell'esistenza di un diverso orientamento ermeneutico che ritiene, invece, configurabile il reato anche in caso di cessazione della convivenza more uxorio quando tra i soggetti permanga un vincolo assimilabile a quello familiare, in ragione di una mantenuta consuetudine di vita comune o dell'esercizio condiviso della responsabilità genitoriale ex art. 337-ter c.c. (si veda, tra le altre, Sez. 6, n. 7259 del 26/11/2021, dep. 2022, Rv. 283047).
Si tratta, tuttavia, di un orientamento che non appare condivisibile in quanto, ampliando la nozione di persona convivente anche alle ipotesi in cui sia ormai cessata ogni relazione, non solo affettiva, ma anche di coabitazione fisica tra le parti, appare espressione di una non consentita interpretazione analogica in malam partem della norma penale.
Va, in proposito, rammentato che la stessa Corte costituzionale, nell'esaminare una questione di legittimità costituzionale dell'art. 521 c.p.p. in relazione alla riqualificazione, prospettata dal giudice rimettente, della condotta di atti persecutori in quella di maltrattamenti in relazione ad un rapporto connotato da una relazione affettiva durata qualche mese e connotata da saltuarie permanenze di un partner nell'abitazione dell'altro, ha sottolineato la necessità che detta operazione di qualificazione giuridica dei fatti sia rispettosa del canone ermeneutico del divieto di analogia a sfavore del reo, che non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. Sulla base di tale divieto di interpretazione analogica in malam partem della fattispecie incriminatrice, la Corte costituzionale ha, pertanto, sollecitato il giudice rimettente a valutare se possa sostenersi che la sussistenza di una siffatta relazione consenta di qualificare la persona offesa come persona appartenente alla medesima "famiglia" dell'imputato, dovendosi, in caso contrario, qualificare l'applicazione dell'art. 572 c.p. quale frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice.
Va, infine, anche precisato che tale accezione "restrittiva" della nozione di "persona della famiglia o comunque convivente", non appare in contrasto con l'interpretazione estensiva della nozione di "prossimo congiunto" recentemente adottata dalle Sezioni Unite di questa Corte in relazione all'art. 384 c.p., trattandosi, in tale ultimo caso, di un'operazione in bonam partem che ha comportato l'adozione di una soluzione più favorevole per l'imputato (Sez. U, n. 10381 del 26/11/2020, dep. 2021, Fialova, Rv. 280574 in cui la Corte ha affermato che l'art. 384, comma 1, c.p., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi abbia commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente "more uxorio" da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore).
1.3 Alla luce delle considerazioni sopra esposte, ritiene il Collegio che le condotte provvisoriamente contestate al ricorrente ai capi a) e d) non sono sussumibili nel paradigma del delitto di maltrattamenti. Ne consegue che, ritenuti assorbiti i motivi articolati in ricorso, l'ordinanza impugnata va annullata senza rinvio, limitatamente alle fattispecie di cui ai capi a) e d) e va, pertanto, dichiarata cessata l'efficacia della misura degli arresti domiciliari alle stesse riferita.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata limitatamente ai reati di maltrattamenti (capi a e d) e dichiara cessata l'efficacia della misura degli arresti domiciliari agli stessi riferita. Manda alla cancelleria per l'immediata comunicazione al Procuratore Generale in Sede per quanto di competenza ai sensi dell'art. 626 c.p.p. Così deciso in Roma, il 14 luglio 2022.
Conclusione
Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2022