RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte d'Assise d'appello di Firenze ha confermato la condanna di H.V. per il reato di cui all'art. 600 c.p. aggravato ai sensi dell'art. 602-ter medesimo codice, commi 5 e 6, commesso ai danni della figlia minore. In parziale riforma della pronunzia di primo grado, la Corte territoriale ha invece riconosciuto all'imputato le attenuanti generiche con giudizio di equivalenza sulle contestate aggravanti ed ha conseguentemente provveduto a rimodulare la pena irrogatagli in prime cure.
2. Avverso la sentenza ricorrono il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Firenze e l'imputato.
2.1 Il ricorso del pubblico ministero articola tre motivi. Con i primi due vengono dedotti erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito alla concessione delle attenuanti generiche, riconosciute all'imputato in ragione "della particolare condizione subculturale" in cui verserebbe. Valutazione che il ricorrente ritiene in conflitto con le risultanze processuali che attesterebbero il risalente e stabile inserimento dello H. in Italia, dove usufruisce di un alloggio popolare e di sostegno economico da parte dei servizi sociali. Non di meno l'argomento utilizzato dalla Corte sarebbe comunque inidoneo a sostenere la statuizione censurata alla luce del complessivo disvalore del fatto e della personalità dell'imputato. Con il terzo motivo viene denunziata nuovamente l'erronea applicazione della legge penale in merito al disposto bilanciamento tra le attenuanti riconosciute e le aggravanti contestate in violazione del disposto di cui all'art. 602-ter c.p., comma 10.
2.2 Il ricorso proposto nell'interesse dell'imputato articola invece quattro motivi.
2.2.1 Con il primo vengono dedotti erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito alla configurabilità del reato contestato ed alla valutazione del compendio probatorio di riferimento. In tal senso la Corte territoriale non avrebbe anzitutto specificato quale delle due fattispecie alternativamente previste dall'art. 600 c.p., l'una di mera condotta e l'altra con evento, ha ritenuto effettivamente integrata. Non di meno osserva il ricorrente come il minimo comune denominatore tra le due ipotesi è costituito dall'asservimento indirizzato verso lo sfruttamento della vittima. Sfruttamento che la sentenza ha ritenuto di individuare nel vantaggio economico che l'imputato avrebbe tratto dalla cessione della figlia minore al "patriarca" della famiglia cui apparteneva il soggetto a cui era stata promessa in sposa sulla base di un accordo a cui la persona offesa è rimasta estranea. Individuando il vantaggio conseguito dall'imputato nel c.d. "prezzo della sposa", i giudici del merito non avrebbero però tenuto conto di come egli non abbia agito nel nome di una mera "tradizione" della comunità rom, ma abbia posto in essere comportamenti conformi a quelli stabiliti da un vero e proprio "ordinamento giuridico" in cui detta comunità si riconosce. In tale ottica, il citato "prezzo della sposa" corrisponderebbe ad un antico e consolidato istituto giuridico che attribuisce al medesimo non già la natura di corrispettivo di una compravendita, bensì la funzione di risarcire la famiglia della sposa per la perdita di un proprio componente e di garantire l'agiatezza della famiglia dello sposo. Parimenti la Corte fiorentina non avrebbe tenuto conto nella sua motivazione del rituale relativo al fidanzamento e delle conseguenze della rottura di quest'ultimo.
2.2.2 Analoghi vizi vengono dedotti con il secondo motivo in ordine alla sussistenza dell'elemento psicologico del reato ed in particolare in merito alla consapevolezza da parte dell'imputato del "processo di reificazione" della figlia realizzato attraverso il proprio comportamento. In proposito il ricorso sottolinea come entrambe le sentenze di merito abbiano riconosciuto la sincerità dell'affetto nutrito dall' H. per la figlia e come i giudici dell'appello gli abbiano accordato le attenuanti generiche riconoscendo i limiti del suo sostrato culturale, che però illogicamente è stato apprezzato ad intermittenza e senza dunque considerare come tali riferimenti culturali lo abbiano portato ad agire nella convinzione di comportarsi in conformità a quello che egli considera il proprio ordinamento giudico primario.
2.2.3 Con il terzo motivo vengono denunziati vizi di motivazione in merito alla ritenuta attendibilità della persona offesa, senza considerare i giudizi espressi sulla medesima dall'operatore della comunità in cui era stata ricoverata successivamente alla denunzia dei fatti per cui è processo e le accuse, inconsistenti e calunniose, dalla stessa avanzate nei confronti del personale della suddetta comunità dopo essere fuggita dalla medesima. Illogico sarebbe poi il riferimento operato alle valutazioni positive espresse nei confronti della minore all'esito del percorso seguito in comunità, posto che ad essere valutata è la sua attendibilità al momento in cui denunziato i fatti contestati al padre.
2.2.4 Ulteriori vizi di motivazione vengono dedotti con il quarto ed ultimo motivo in merito alla denegata riqualificazione dei fatti contestati nel reato previsto dall'art. 558-bis c.p., in quanto disposizione più favorevole sopravvenuta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso dell'imputato è infondato ed a tratti inammissibile e deve pertanto essere rigettato.
2. Infondate sono anzitutto le censure sviluppate nella prima parte del primo motivo in merito alla presunta omessa specificazione della qualificazione giuridica dei fatti contestati all' H..
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, infatti, la sentenza ha confermato la responsabilità dell'imputato in riferimento alla fattispecie descritta nel capo d'imputazione e cioè quella di cui alla prima parte dell'art. 600 c.p., comma 1, giacché il fatto contestato e ritenuto è quello di chi esercita su di un essere umano un dominio equivalente a quello che la titolarità del diritto dominicale consente di esercitare su di una cosa. La norma richiede peraltro che i poteri esercitati sull'altrui persona "corrispondano" a quelli del diritto di proprietà, formula idonea ad evocare non solo la condizione di schiavitù di diritto, ma altresì quelle situazioni nelle quali di fatto venga esercitata su di un altro essere umano una signoria così pervasiva da risultare equivalente nel suo contenuto alle forme di manifestazione del diritto di proprietà.
La condotta tipizzata implica dunque la "reificazione" della vittima, comportandone di per sé lo sfruttamento, come ripetutamente chiarito da questa Corte (ex multis Sez. 5, n. 10426 del 09/01/2015, O., Rv. 262632). Non è dunque esatto, come sostenuto dal ricorrente, che la sentenza abbia individuato nel vantaggio economico tratto dall'imputato dalla cessione della figlia minore lo sfruttamento cui quest'ultima sarebbe stata sottoposta. Più semplicemente, rimanendo fedele alla menzionata impostazione qualificatoria, i giudici del merito si sono limitati a riconoscere nella cessione della vittima quella reificazione dell'essere umano che ne comporta di per sé lo sfruttamento e della quale la percezione di un guadagno rappresenta soltanto un evidente sintomo.
3. E' invece inammissibile il quarto motivo, con il quale il ricorrente lamenta vizi di motivazione sull'invocata applicazione dell'art. 558-bis c.p., in quanto norma più favorevole sopravvenuta rispetto a quella di cui all'art. 600 c.p..
3.1 Il ricorso sembra muovere dall'assunto per cui l'introduzione nel codice penale del reato di "Costrizione o induzione al matrimonio" ad opera la L. 19 luglio 2019, n. 69, art. 7, (c.d. "Codice Rosso") configuri un'ipotesi di successione di leggi penali incriminatrici in riferimento al fatto già punito in precedenza ai sensi dell'art. 600 c.p., da risolversi in favore della fattispecie di nuovo conio in quanto speciale e per l'appunto più favorevole rispetto a quella di riduzione in schiavitù prevista dalla disposizione da ultima citata.
3.2 La stessa contraddittoria prospettazione della doglianza nel ricorso rivela un primo profilo della sua manifesta infondatezza e genericità. Infatti viene sostenuto riprendendo le argomentazioni svolte con il secondo motivo che si confuteranno successivamente - che erroneamente la Corte avrebbe qualificato la somma ricevuta dall'imputato in occasione della stipulazione dell'accordo matrimoniale ad oggetto la figlia come il pagamento del prezzo per la sua cessione, piuttosto che la simbolica "dote" versata dalla famiglia dello sposo in ossequio alle tradizioni della comunità di appartenenza. Il che si traduce nella negazione da parte del ricorrente della stessa configurabilità del reato di riduzione in schiavitù contestato, talché mal si comprende a che titolo viene evocato un fenomeno successorio in riferimento ad un fatto ritenuto a priori non riconducibile al paradigma tipico della norma incriminatrice anteriore, ma soltanto e comunque a quello della disposizione entrata in vigore, addirittura, solo successivamente alla sua consumazione. In altri termini, il ricorso eccepisce dapprima l'irrilevanza penale del fatto - non avendo prospettato una diversa ed eventualmente meno grave qualificazione del medesimo in riferimento ad una fattispecie incriminatrice preesistente alla sua commissione - salvo poi sostenere che lo stesso sarebbe tipico ai sensi dell'art. 558-bis c.p., non ancora vigente all'epoca della sua realizzazione.
3.3 Ma anche a prescindere da tale insanabile aporia - che peraltro già viziava il motivo aggiunto d'appello formulato sul punto - manifestamente infondata è quella che si risolve nella prospettazione di un rapporto di specialità diacronica tra le due norme incriminatrici evocate, tale da configurare per l'appunto un'ipotesi di successione di leggi penali nel tempo.
In tal senso il ricorrente si affida implicitamente al criterio della doppia incriminabilità in concreto, senza considerare come, secondo il consolidato insegnamento delle Sezioni Unite, perché trovi applicazione la disciplina di quello che nel frattempo è divenuto l'art. 2 c.p., comma 4, occorre anzitutto - e come già accennato - che la fattispecie prevista dalla legge successiva fosse punibile anche in base alla legge precedente, rientrasse cioè nell'ambito della previsione di questa. Se il fatto, astrattamente considerato, continua a rientrare nell'ambito normativo di entrambe le disposizioni, il fatto rimane punibile nei limiti dell'effettivo atteggiarsi del fenomeno successorio, mentre, ai fini dell'individuazione di quella applicabile al caso concreto, deve farsi ricorso al criterio del confronto strutturale tra fattispecie incriminatici (o doppia incriminabilità in astratto), che presuppone la ricerca dell'area di coincidenza tra le fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel tempo, senza che sia necessario rinvenire conferme della continuità attraverso criteri valutativi, come quelli relativi ai beni tutelati e alle modalità di offesa, assai spesso incapaci di condurre ad approdi interpretativi sicuri (Sez. U, Sentenza n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, Rv. 224607).
Il criterio strutturale - che è poi quello eletto dal Supremo Collegio anche per la soluzione dei conflitti di tipo sincronico tra norme incriminatrici - si fonda dunque sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, al fine di apprezzare l'implicita valutazione di correlazione tra le norme, effettuata dal legislatore (ex multis e da ultima Sez. U, Sentenza n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 269668). Comparazione che, nel caso di specie, non può che avere esito negativo, non registrandosi alcuna coincidenza tra le fattispecie a confronto. Ed infatti i fatti tipizzati dalle due norme incriminatrici non presentano alcun elemento di contatto, posto che violenza e minaccia non sono tratti costitutivi del delitto di riduzione di schiavitù, configurabile perfino quando il soggetto passivo non sia consapevole del suo stato, bensì di quello di riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa (altrimenti detto di riduzione o mantenimento in servitù). Ne', del resto, prima dell'avvento dell'art. 558-bis c.p. è stato mai ipotizzato che il "matrimonio forzato e/o precoce" (sintetizzando quella che in realtà è la più composita tipologia di fatti ora incriminati dalla disposizione citata) integrasse di per sé il reato di cui all'art. 600 c.p., comma 1, ritenuto nel caso di specie.
4. Superate le preliminari censure del ricorrente, devono essere a questo punto affrontate congiuntamente quelle proposte nel prosieguo del primo e nel secondo motivo di ricorso, accomunate dalla valorizzazione, seppure su piani diversi, della asserita matrice culturale del comportamento tenuto dall'imputato.
4.1 La tematica evocata dal ricorrente è quella dei c.d. "reati culturali", formula con la quale viene tradotto in termini giuridici il conflitto che si determina tra ordinamenti di tipo consuetudinario tradizionale e ordinamenti di tipo statuale in presenza di un comportamento tenuto da un soggetto che si riconosce in un gruppo culturale minoritario che accetta tale comportamento come normale ovvero lo approva o addirittura lo incoraggia in quanto lo considera conforme alle consuetudini ed alle tradizioni religiose o sociali costituenti la cifra identitaria del gruppo medesimo, ma che, invece, è considerato illecito dall'ordinamento giuridico - indubbiamente espressione della cultura dominante - vigente nel luogo in cui il suddetto comportamento viene tenuto. Semplificando, il problema può definirsi quello della rilevanza di un conflitto normativo determinato dall'antinomia tra la norma penale ed una regola di matrice culturale ai fini dell'affermazione della responsabilità di colui che ha violato la prima per conformarsi alla seconda.
4.2 Non è dubbio che il "fattore culturale" sia in grado di percorrere trasversalmente la struttura del reato, potendo intersecare tanto il profilo della tipicità del fatto e della sua offensività, come quello dell'antigiuridicità, ma altresì quelli della colpevolezza e della commisurazione del trattamento sanzionatorio, quantomeno nella prospettiva della personalizzazione del giudizio di colpevolezza, della funzione rieducativa e risocializzante della pena e di una approccio sostanziale al principio di uguaglianza.
In proposito la giurisprudenza di questa Corte ha espresso orientamenti apparentemente non del tutto omogenei, ma che in realtà rivelano - con inevitabili oscillamenti condizionati dall'eterogeneità delle fattispecie concrete e del "punto di attacco" prescelto dal ricorrente - una evoluzione nell'approccio alla complessa tematica.
In molti casi la rilevanza del "fattore culturale" è stata radicalmente esclusa a qualunque livello, manifestandosi così la preoccupazione di parte della giurisprudenza che l'indefettibile ed uniforme applicazione nei confronti di tutti i possibili destinatari delle norme penali possa subire cedimenti in favore della valorizzazione della specificità culturale dell'autore di fatti normotipo e che pertanto venga vanificato il potenziale intimidatorio e di orientamento comportamentale delle medesime.
In tal senso alcune pronunzie hanno affermato l'irrilevanza del carattere consuetudinario di alcuni comportamenti nell'ambito di culture minoritarie, sottolineando come la consuetudine può assumere efficacia scriminante solo in quanto venga richiamata da una legge, secondo il principio di gerarchia delle fonti di cui all'art. 8 disp. prel. (Sez. 3, n. 2841 del 26/10/2006, dep. 2007, Djordjevic, Rv. 236023) ovvero si sono appellate ad una lettura rigorosamente formale del principio di eguaglianza e di pari dignità sociale, ritenuto uno sbarramento invalicabile contro l'introduzione di diritto o di fatto nella società civile di consuetudini, prassi o costumi con esso assolutamente incompatibili (Sez. 6, n. 55 del 08/11/2002, dep. 2003, Khouider, Rv. 223192). In altri casi si è più esplicitamente affermato l'obbligo per chi si inserisca volontariamente in un contesto culturale diverso da quello originario di conformare i propri valori a quelli dell'ordinamento "ospitante", verificando preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che lo regolano (Sez. 1, n. 24084 del 31/3/2017, Sigh, non massimata; Sez. 5, n. 37638 del 15/6/2012, L.V., non massimata).
4.3 A fronte di un indirizzo che in apparenza propugna posizioni più decisamente "assimilazioniste", rivendicando la incondizionata preminenza delle norme statuali sulla specificità culturale di cui l'agente è portatore e che, in ipotesi, ha ispirato la sua condotta, si registrano nella produzione della Corte anche pronunzie che hanno invece riconosciuto rilevanza a tale specificità. Così, ad esempio, Sez. 6, n. 43636 del 22/06/2011, S., Rv. 251044, in tema di esercizio abusivo della professione medica, ha ritenuto scusabile l'ignorantia legis caduta sulla norma extrapenale integratrice anche in ragione del fattore culturale, mentre Sez. 1, n. 51059 del 4/12/2013, Hamed, non massimata, ha valorizzato il movente culturale-religioso al fine di escludere la configurabilità dell'aggravante dei futili motivi in relazione ad un caso di tentato omicidio.
4.4 In realtà, come accennato, la Corte ha nel tempo consolidato un diverso approccio al tema, sfuggendo all'alternativa che, con estrema semplificazione, viene identificata in quella tra assimilazionismo e relativismo multiculturale. In tal senso si è osservato come l'interferenza del movente culturale sugli elementi strutturali del reato deve essere valutata nell'ottica "dell'attento bilanciamento tra il diritto pure inviolabile, del soggetto agente a non rinnegare le proprie tradizioni culturali, religiose, sociali ed i valori offesi o posti in pericolo dalla sua condotta" (così Sez. 3, n. 29613 del 29/1/2018, Q., non massimata).
Viene dunque sostanzialmente riconosciuto che dal regime di pluralismo confessionale e culturale delineato dalla nostra Costituzione agli artt. 2 e 8 (Corte Cost. n. 63 del 2016, Corte Cost. n. 440 del 1995 e Corte Cost. n. 203 del 1989), così come da numerose fonti sovranazionali - tra cui gli artt. 8, 9 e 14 CEDU, la Convenzione ONU di Parigi del 20 ottobre 2005 sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali, ratificata dall'Italia con la L. 19 febbraio 2007, n. 19 e l'art. 22 della Carta di Nizza - discende il diritto del singolo alla tutela della propria identità culturale e religiosa, ma al contempo viene ribadito che, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza costituzionale, tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri, in quanto la tutela deve essere sempre "sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro" (Corte Cost. n. 264 del 2012), perché altrimenti si verificherebbe una "illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe "tiranno" nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona" (Corte Cost. n. 85 del 2013, Corte Cost. n. 58 del 2018 e Corte Cost. n. 33 del 2021). Ed è dunque prevalentemente in tale ottica che questa Corte ha escluso la configurabilità di una "scriminante culturale" in tutti quei casi in cui l'esercizio del diritto dell'agente a rimanere fedele alle regole sociali del proprio gruppo identitario di riferimento si traduce nella negazione dei beni e dei diritti fondamentali configurati dall'ordinamento costituzionale presidiati dalle norme penali violate (Sez. 6, n. 55 del 08/11/2002, dep. 2003, Khouider, Rv. 223192; Sez. 6, n. 46300 del 26/11/2008, F.A., Rv. 242229; Sez. 3, Sentenza n. 14960 del 29/01/2015, E. H., Rv. 263122; Sez. 5, n. 37638 del 15/6/2012, L.V., non massimata; Sez. 3, n. 8986 del 12/12/2019, dep. 2020, H., Rv. 278414; Sez. 3, n. 7590 del 20/11/2019, dep. 2020, N., Rv. 278600; Sez. 6, Sentenza n. 14043 del 16/01/2020, N., Rv. 278842).
Orientamento questo che, oltre ad essere in linea con i principi affermati dal giudice delle leggi ed anche dalla Corte EDU (cfr. Sahin c. Turchia del 10/11/2005; Eweida e altri c. Regno Unito del 15/1/2013), è conforme allo stesso art. 2 della citata Convenzione di Parigi del 2005, per cui la protezione del diritto alla diversità culturale stabilito dalla stessa non può essere invocata per violare i diritti umani e le libertà fondamentali come consacrati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo o garantiti dal diritto internazionale o per limitarne la portata.
4.5 L'esclusione dell'incidenza del "fattore culturale" sulla rilevanza penale della condotta lesiva di beni fondamentali, nelle sue oggettive connotazioni considerata, non impedisce in astratto che lo stesso fattore possa assumere invece rilevanza in riferimento ad altri elementi strutturali del reato ovvero alla determinazione del trattamento sanzionatorio, sia con riferimento alla commisurazione della pena all'interno della cornice edittale, che al riconoscimento delle attenuanti generiche ovvero di altre attenuanti comuni o speciali ove configurabili. Ed in proposito la già citata sentenza Q. della Terza Sezione ha condivisibilmente osservato come a tal fine sia necessario valutare la natura della regola culturale in adesione alla quale la condotta è stata posta in essere - se cioè di matrice religiosa, consuetudinaria o positiva (prevista cioè dall'ordinamento giuridico di eventuale originaria appartenenza) - nonché il suo carattere vincolante per l'agente, ma altresì il livello di integrazione di quest'ultimo nel contesto sociale dominante.
5. Alla luce delle qui condivise coordinate esegetiche illustrate, le censure del ricorrente ispirate alla specificità culturale dell'imputato si rivelano dunque infondate ed in parte generiche.
5.1 In conformità a quanto ritenuto da questa Corte in casi analoghi a quello di cui si tratta (Sez. 5, n. 23052 del 05/05/2016, Pg in proc. M., Rv. 267014; Sez. 5, n. 18072 del 15/4/2010, S., Rv. 247149) il titolo di reato contestato esclude qualsivoglia possibilità di attribuire valenza scriminante alla supposta volontà dell' H. di aderire alle regole ed alle consuetudini della comunità Rom, atteso che il bene giuridico tutelato dall'art. 600 c.p. è la libertà individuale intesa come status libertatis. Ossia, non una forma particolare di manifestazione della libertà individuale, bensì il complesso delle manifestazioni che si riassumono in tale stato e la cui negazione comporta l'annientamento della stessa personalità dell'individuo. E' dunque fuori discussione che la condotta dell'imputato (come già detto indubitabilmente tipica) abbia infranto quelli che sono i confini invalicabili di tutela della persona umana come delineati dall'ordinamento costituzionale e dalle fonti sovranazionali, quel nucleo irrinunciabile dei diritti fondamentali che traccia un limite alla tolleranza nei confronti dei comportamenti culturalmente motivati ed allo stesso esercizio, in tali forme, del diritto all'identità culturale.
Né ha qualche pregio in senso contrario il riferimento operato dal ricorrente a Corte EDU M. e altri c. Italia e Bulgaria del 31/7/2012. Nell'occasione il giudice sovranazionale, lungi dal riconoscere alle tradizioni Romaniche valore scriminante a prescindere, si è limitato infatti ad evidenziare le peculiarità della fattispecie portata alla sua attenzione, rilevando come in quel caso la presunta vittima - anch'essa minorenne, ma prossima alla maggiore età - avesse prestato il proprio consenso alle nozze "combinate" dalle famiglie degli sposi e non risultasse che tale consenso fosse stato in qualche modo forzato od estorto.
5.2 Sostanzialmente inammissibili sono invece le censure avanzate dal ricorrente con riguardo alla affermata sussistenza dell'elemento soggettivo del reato. I giudici del merito non hanno negato che l'imputato possa aver agito aderendo a modelli comportamentali quantomeno tollerati nella sua cultura di riferimento, ma ha altresì evidenziato come egli fosse perfettamente consapevole dell'illiceità della sua condotta secondo l'ordinamento giuridico italiano, argomentando dalla sua risalente presenza nel territorio italiano (dove peraltro già in precedenza ha commesso dei reati) e dal contenuto delle conversazioni intercettate tra lo stesso ed il fratello, che rivelano il tentativo di concordare una versione di "comodo" per gli inquirenti e che tradisce, per l'appunto, la consapevolezza dell'illiceità del trattamento riservato alla propria figlia secondo l'ordinamento giuridico italiano. Motivazione con la quale comunque il ricorrente non si è sostanzialmente confrontato e la cui tenuta logica non è seriamente scalfita dall'obiezione per cui l'imputato avrebbe nutrito sincero affetto nei confronti della figlia. Né alcuna contraddizione è ravvisabile nel riconoscimento da parte della Corte delle attenuanti generiche in ragione della "particolare condizione sub-culturale" dell'imputato. In tal senso il giudice dell'appello, facendo corretta applicazione dei principi illustrati in precedenza, ha infatti semplicemente individuato l'ambito in cui può assumere una qualche rilevanza nel caso di specie il condizionamento culturale dell'imputato e cioè quello della commisurazione del trattamento sanzionatorio, escludendo per contro - come detto in maniera corretta - che il "movente culturale" possa aver inciso sulla configurabilità del dolo del reato.
6. Inammissibile è infine anche il terzo motivo di ricorso. Le doglianze del ricorrente sulla ritenuta attendibilità della vittima del reato in realtà si riducono alla prospettazione soggettivamente orientata del significato probatorio di risultanze processuali - peraltro solo sommariamente indicate - che si traducono nella indebita sollecitazione di questa Corte ad un nuovo apprezzamento del merito della decisione. In realtà il giudice dell'appello ha giustificato la propria valutazione in riferimento ai plurimi riscontri che il racconto della minore ha trovato negli altri elementi che compongono la piattaforma cognitiva - motivazione questa ancora una volta ignorata dal ricorso - ed ha fornito una spiegazione tutt'altro che illogica dei comportamenti dalla stessa tenuti nella fase iniziale del suo collocamento in comunità.
7. Venendo al ricorso del Procuratore Generale, inammissibili sono i primi due motivi, con il quale parimenti vengono avanzate solo doglianze che attengono al merito della decisione assunta dalla Corte territoriale in ordine al riconoscimento delle attenuanti generiche e che non possono trovare cittadinanza nel giudizio di legittimità in presenza di una motivazione sul punto non manifestamente illogica.
Coglie invece nel segno il terzo motivo di ricorso. Nei confronti dell'imputato sono state infatti fondatamente riconosciute le aggravanti di cui all'art. 602-ter c.p., commi 5 e 6 (per essere la vittima infrasedicenne e l' H. suo ascendente). Si tratta di aggravanti ad effetto speciale c.d. "privilegiate" in quanto, ai sensi dell'ultimo comma dell'articolo citato, le stesse sono sottratte al giudizio di bilanciamento, con la conseguenza che nella determinazione del trattamento sanzionatorio il relativo aumento di pena deve essere comunque calcolato sulla base stabilita dal giudice per il reato e solo successivamente può procedersi alla diminuzione connessa alle eventuali attenuanti concorrenti con le medesime diverse da quelle previste dagli artt. 98 e 114 c.p.. Ne consegue che la scelta operata dalla Corte territoriale di dichiarare ex art. 69 c.p., le attenuanti generiche riconosciute nel giudizio d'appello equivalenti alle suddette aggravanti viola il disposto del citato ultimo comma dell'art. 603-ter e sul punto, pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d'Assise d'appello di Firenze per nuovo esame.
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso del Procuratore Generale, annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo esame su detto punto ad altra sezione della Corte d'Assise d'appello di Firenze. Dichiara inammissibile nel resto detto ricorso. Rigetta il ricorso dell'imputato e lo condanna al pagamento delle spese processuali.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.