Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Brescia confermava la pronuncia di primo grado del 27 marzo 2019 con la quale il Tribunale di Bergamo aveva condannato V.G. in relazione al reato di cui all’art. 380 c.p. (capo 1), per avere, in […] nell’(omissis) , rendendosi infedele ai suoi doveri professionali, redatto un ricorso per cassazione, pur non essendo iscritto all’albo dei difensori abilitati dinanzi alle giurisdizioni superiori, consegnandone copia alla propria cliente C.M.L. ; e per avere successivamente richiesto ad un collega di Torino di presentare l’istanza di trasmissione del fascicolo alla Corte adita: con ciò arrecando un nocumento agli interessi della parte, essendosi in seguito disinteressato degli ulteriori adempimenti processuali, quali il deposito delle memorie di udienza e la discussione della causa dinanzi alla Corte di cassazione; nonché in relazione al reato di cui all’art. 494 c.p. (capo 2), per avere, sempre nell’ottobre del 2013, per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio o per recare ad altri un danno, indotto in errore la persona offesa Ce.Ma.Lu. , sostituendosi all’avv. B. mediante l’indicazione, nell’intestazione del ricorso da lui redatto, delle generalità del sostituto e inserendo la nomina a difensore dello stesso avv. B. con elezione di domicilio.
2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il V. , con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale ha dedotto i seguenti cinque motivi.
2.1. Violazione di legge, in relazione all’art. 380 c.p., per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto sussistente il reato di infedele patrocinio, benché fosse risultato che la C. , seguita da altro difensore, era stata già destinataria di due sentenze sfavorevoli dei primi gradi del giudizio di merito, quindi non vi è prova che egli abbia arrecato nocumento alla propria cliente; che in seguito il V. aveva provveduto ad adempiere agli obblighi assunti in ragione del mandato conferitogli fino al momento delle revoca; e che l’obbligazione assunta dall’imputato era di mezzo e non di risultato, sicché era irrilevante che il ricorso da lui redatto fosse stato poi dichiarato inammissibile dalla Cassazione.
2.2. Violazione di legge, in relazione all’art. 494 c.p., per avere la Corte distrettuale erroneamente confermato la condanna di primo grado in relazione al reato di sostituzione di persona, nonostante non vi fosse stata alcuna induzione in errore della C. che aveva accettato di essere difesa dall’avv. B. , come propostogli dal V. che le aveva più volte rappresentato di non essere un avvocato cassazionista.
2.3. Violazione di legge, in relazione all’art. 591 c.p.p., per avere la Corte di merito valorizzato a fini di prova un documento prodotto dalla difesa della parte civile, benché quest’ultima fosse parte non appellante e non avesse formulato alcuna richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
2.4. Violazione di legge, in relazione all’art. 133 c.p., per avere la Corte di appello omesso di pronunciarsi sullo specifico motivo dell’impugnazione con il quale la difesa si era doluta non solamente della mancata concessione delle attenuanti generiche, ma più in generale della mancata osservanza della norma generale dettata dal predetto art. 133.
2.5. Violazione di legge, in relazione all’art. 157 c.p., per avere la Corte territoriale omesso di dichiarare la intervenuta estinzione dei reati, da considerarsi commessi il 1 marzo 2013, data in cui era stata raccolta la firma della C. in calce al mandato alle liti.
3. Il procedimento è stato trattato nell’odierna udienza in camera di consiglio con le forme e con le modalità di cui al D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, commi 8 e 9, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176.
Considerato in diritto
1. Ritiene la Corte che il ricorso vada accolto, sia pur nei limiti e con gli effetti di seguito precisati.
2. In via preliminare va esaminato il secondo motivo del ricorso e, a mente dell’art. 129 c.p.p., comma 1, va rilevato come difettino nel caso di specie gli elementi costitutivi oggettivi della fattispecie incriminatrice contestata nel capo 2), dalla quale il ricorrente deve essere mandato assolto con la formula del perché il fatto non sussiste.
Come noto, l’art. 494 c.p. - nel sanzionare la condotta di chi "al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici" - prevede un reato plurioffensivo destinato a tutelare sia l’interesse alla fede pubblica, nel caso di condotte fraudolente basate sulla falsificazione dei dati essenziali della persona (identità, nome, stato o qualità giuridiche) che ledono la fiducia nella riferibilità ad un determinato soggetto di caratteri rilevanti nei rapporti sociali e economici; sia l’interesse patrimoniale di un privato nella cui sfera giuridica l’atto posto in essere è destinato a produrre effetti giuridici. Tale fattispecie è, dunque, sussidiaria rispetto ad altre ipotesi di falso, come si desume anche dalla clausola "se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica" prevista nell’art. 494: è, tuttavia, necessario per la sua configurabilità che l’induzione in errore abbia riguardato specificamente l’identità del soggetto attivo, intesa sotto il profilo fisico o anagrafico, ovvero relativo al possesso di uno status o di qualità giuridicamente rilevanti.
Alla luce di tali considerazioni appare evidente come i giudici di merito siano incorsi in una ipotesi di errata qualificazione giuridica dei fatti accertati, dovuta ad inosservanza della norma di diritto penale sostanziale contestata, sub specie di difettosa corrispondenza della vicenda sottostante alla previsione normativa.
Partendo dalla descrizione del fatto oggetto di formale addebito, va detto che è stato contestato al V. , iscritto all’albo degli avvocati ma non all’albo speciale della Corte di cassazione, di avere indotto in errore la propria cliente C. "sostituendosi all’avv. B. " mediante l’indicazione,
nell’intestazione del ricorso, delle generalità del sostituito e inserendo anche la nomina dell’avv. B. come difensore e domiciliatario. E però dalla emergenze processuali risulta pacificamente accertato che il V. , che della C. era il difensore in una serie di altre cause civili, aveva chiarito alla propria cliente che non era un "avvocato cassazionista" e che, dunque, non avrebbe potuto firmare il ricorso nè assisterla nel giudizio dinanzi alla Corte di cassazione: egli trasse in inganno la C. riferendole di aver chiesto e ottenuto la disponibilità del B. a sottoscrivere il ricorso e ad assisterla in quel giudizio, nonché di essere stato incaricato dallo stesso B. di raccogliere la firma della C. in calce al mandato difensivo, laddove è sicuro che il B. , che peraltro è professionista impegnato nel settore penale, non aveva mai dato all’imputato alcuna disponibilità a seguire quella specifica causa civile.
La condotta fraudolenta posta in essere dal V. , perciò, è stata finalizzata a far credere alla C. che il B. avesse accettato l’incarico e fosse così diventato il relativo difensore (in questo senso si è espressa la Corte di appello che, a pag. 6 della sentenza impugnata, ha sostenuto la sussistenza del reato in argomento in quanto "la C. era stata indotta in errore circa il fatto che il proprio difensore fosse l’avv. B.T. "): ma nè con la sottoposizione alla cliente della bozza dell’atto di impugnazione e neppure con la richiesta di sottoscrizione della procura alla liti (atti nei quali non vi era menzione della posizione del V. ) venne attuata alcuna specifica iniziativa di sostituzione di persona mediante la falsa attribuzione a se stesso di una qualità che, in relazione a quella vicenda, potesse avere rilevanza ai fini giuridici.
I fatti avrebbero potuto integrare gli estremi di altri reati che non sono stati contestati, quali quelli della truffa ai danni della C. e del falso in atto pubblico o in certificazione con rifermento alla apposizione della falsa firma del B. di autentica della sottoscrizione del mandato alle liti (v., al riguardo, Sez. 1, n. 839 del 09/10/1964, De Angelis, Rv. 099327).
3. Riconosciuta la fondatezza del secondo motivo del ricorso, va conseguentemente eliminata la pena inflitta per la continuazione in relazione al reato del capo 2).
Per il resto il ricorso va rigettato.
4. Inammissibile è il primo motivo del ricorso perché nella sostanza presentato per fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge, dato che l’imputato ha formulato una serie di doglianze che, al di là del dato enunciativo, si risolvono in non consentite censure in fatto all’apparato argomentativo su cui fonda la sentenza gravata, prospettando una diversa e alternativa lettura delle acquisite emergenze processuali, cosa che non è consentita in sede di legittimità.
Ed infatti, formalmente il ricorrente ha indicato, come motivo della sua impugnazione una violazione di legge, tuttavia mettendo in discussione la ricostruzione della vicenda operata dai giudici di merito, con una motivazione nella quale non è ravvisabile alcun vizio di manifesta illogicità.
5. Infondate sono le ulteriori doglianze difensive relative ad asserite violazioni di legge.
È certo che, da un lato, il V. si fosse reso infedele ai suoi doveri professionali, tenuto conto che, pur riconoscendo di non poter sottoscrivere il ricorso per cassazione e di non poterla rappresentare direttamente dinanzi alla Suprema Corte, egli si era impegnato con la C. ad assisterla e a svolgere una funzione di tramite con un avvocato cassazionista, il B. , senza però poi chiedere la relativa disponibilità a tale professionista, e arrivando a falsificare le firme di quel collega tanto in calce al ricorso quanto per l’autentica della sottoscrizione del mandato alle liti; e che, da altro lato, con tale comportamento dolosamente irrispettoso dei propri doveri professionali, egli avesse recato nocumento agli interessi della parte difesa, la quale solo pochi giorni prima della data fissata nell’udienza aveva scoperto che il B. non era stato affatto interessato nè aveva altrimenti dato la disponibilità a difenderla, vedendosi costretta a cercare un altro avvocato cassazionista, poi concretamente non reperito per le ristrettezze economiche in cui si trovava. La C. , dunque, indipendentemente dall’esito dei primi due gradi di merito, si era trovata nell’impossibilità di essere adeguatamente patrocinata nel giudizio di legittimità, cioè di interloquire efficacemente con la Cassazione mediante la presentazione di adeguate memorie; aveva precipitosamente trasmesso propri scritti difensivi, che erano stati giudicati non ammissibili perché non sottoscritti da un professionista abilitato; e si era vista così dichiarare la inammissibilità del ricorso predisposto dal V. , professionista all’epoca non abilitato a difendere dinanzi alle magistrature superiori, che significativamente aveva predisposto un atto di impugnazione in gran parte privo dei requisiti basilari per poter superare il vaglio preliminare di ammissibilità.
Il nocumento subito dalla C. era consistito perciò in una perdita di "chance processuali", dovuta non al fatto che il ricorso fosse stato poi dichiarato inammissibile, ma al fatto che il suo difensore, l’avv. V. , le aveva fatto credere di aver fatto da tramite con un avvocato cassazionista, l’avv. B. , mai realmente officiato: la donna si era trovata conseguentemente nelle condizioni di non essere difesa, nel miglior modo possibile, in quel grado finale del giudizio.
La decisione dei giudici di merito risulta, dunque, in linea con i risultati dell’esegesi offerta da questa Corte di cassazione, in base ai quali si è affermato che, ai fini della integrazione del delitto di patrocinio o consulenza infedele di cui all’art. 380 c.p., è necessario che si verifichi un nocumento agli interessi della parte, che, quale conseguenza della violazione dei doveri professionali, rappresenta l’evento del reato, inteso non necessariamente in senso civilistico quale danno patrimoniale, ma anche nel senso di mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, anche solo di ordine morale, che avrebbero potuto conseguire al corretto e leale esercizio del patrocinio legale (Sez. 5, n. 22978 del 03/02/2017, Strammiello, Rv. 270200).
5. Manifestamente infondato è il terzo motivo del ricorso.
E ciò non solo perché nulla osta a che, in un giudizio di secondo grado instaurato sulla base dell’appello proposto dal solo Pubblico Ministero, la parte civile possa partecipare al procedimento e formulare anche richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, in ragione della stretta dipendenza esistete tra la responsabilità penale e quella civile dell’imputato; ma anche perché è espressione di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale nel giudizio di appello per l’acquisizione di una prova documentale è necessaria la formale adozione di una ordinanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (in questo senso, tra le tante, Sez. 3, n. 34949 del 03/11/2020, S., Rv. 280504).
6. Manifestamente infondato è anche il quarto motivo del ricorso.
Il ricorrente ha preteso che in questa sede si proceda ad una rinnovata valutazione delle modalità mediante le quali il giudice di merito aveva esercitato il potere discrezionale a lui concesso dall’ordinamento ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche: esercizio che deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del giudice in ordine all’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo.
Nella specie, del tutto legittimamente la Corte di merito aveva ritenuto ostativo al riconoscimento delle attenuanti generiche fa oggettiva gravità dei fatti accertati e l’assenza di una comportamento processuale realmente collaborativo, essendosi lo stesso limitati, durante la fase delle indagini, a sostenere una propria linea difensiva che era risultata smentita dalle emergenze procedimentali: trattandosi di parametri considerati dall’art. 133 c.p., applicabile anche ai fini dell’art. 62-bis c.p., non potendo essere valorizzato il solo dato del formale stato di incensuratezza.
7. Del tutto privo di pregio è il quinto e ultimo motivo del ricorso.
I giudici di merito hanno correttamente chiarito come il reato di infedele patrocinio doveva considerarsi consumato dal V. non alla data del 1 marzo 2013 in cui era stata raccolta la firma della cliente in calce al mandato difensivo - così come genericamente sostenuto nell’atto di impugnazione - bensì nel momento in cui alla prevenuta era stato cagionato il nocumento che ha rappresentato l’evento-elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 380 c.p.: dunque, ad ottobre del 2017, quando la Corte di cassazione aveva dichiarato inammissibile il ricorso che l’odierno imputato aveva predisposto e aveva presentato falsificando la sottoscrizione di altro difensore.
Ne consegue che, alla data odierna, il termine massimo di prescrizione di tale reato non è ancora scaduto.
8. Vanno, dunque, confermate le statuizioni riguardanti la responsabilità civile dell’imputato nei confronti della parte civile C.M.L. , sia pur limitatamente alle conseguenze derivanti dalla commissione del reato di patrocinio infedele.
L’imputato va, altresì, condannato alla rifusione delle spese di difesa nel grado in favore della costituita parte civile che, in ragione dell’attività effettivamente svolta, si stima di poter liquidare come di seguito precisato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in relazione al reato di cui al capo 2) perché il fatto non sussiste ed elimina il relativo aumento per la continuazione di mesi due di reclusione ed Euro 200 di multa.
Rigetta il ricorso nel resto rideterminando per il reato di cui al capo 1) la pena in anni uno di reclusione di Euro 600,00 di multa.
Condanna, inoltre, il ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile C.M.L. che liquida in complessivi Euro 3.510,00, oltre accessori di legge.