Giu L’obbligo della dichiarazione al passaggio della dogana di denaro, titoli e valori, discende direttamente dalla legge
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE - ORDINANZA 14 novembre 2024 N. 29409
Massima
L’obbligo della dichiarazione al passaggio della dogana di denaro, titoli e valori, discende direttamente dalla legge (dall’art. 3 del d.lgs. n. 195/2008), sicché la stessa prospettazione del ricorrente circa il fatto che gli agenti della dogana lo avevano avvisato dell’obbligo di dichiarare la disponibilità di solo “denaro contante” non è motivo che di per sé può giustificare l’omessa dichiarazione.

Casus Decisus
Il Tribunale di Como rigettava il ricorso proposto da Loris M. ex art. 6 d.lgs. n. 150/11 contro il Ministero dell’Economia e delle Finanze avverso il decreto dirigenziale n. 435686 del 21.6.2019 con il quale era stata inflitta, nei confronti del M., la sanzione di € 20.923.989,00 per violazione dell’obbligo di cui all’art. 3 d.lgs. n. 195/2008. Il procedimento prendeva l’avvio dai fatti occorsi il 24.11.2017, allorché Loris M., fermato sul treno EC17, nella tratta Chiasso – Como per un controllo doganale, veniva avvisato dell’obbligo di dichiarare il possesso di danaro contante, come definito dall’art. 3 del d.lgs. n. 195/2008; alla domanda da parte degli operanti se detenesse danaro contante, titoli o valori mobiliari pari o superiori ad € 10.000,00, il M. rispondeva in termini negativi. Gli agenti, ritenendo scarsamente attendibile detta dichiarazione, sottoponevano il M. a verifica e reperivano un titolo di credito obbligazionario, recante numero di serie 212.627, emesso dal Regno di Romania nel 1929, con scadenza all’1.2.1959, con accluse 32 cedole semestrali; a tale titolo erano allegati anche un rapporto di perizia di autenticità redatto in lingua rumena, datato 22.5.2017 ed un rapporto di valutazione del 30.6.2017 che stabiliva il valore attuale del titolo pari a dollari USA 79.585.625 per un controvalore di € 69.756.565,00; oltre a tali documenti, nella valigia del M. veniva reperito anche un contratto di compravendita redatto in lingua rumena in data 14.6.2017, relativo al titolo di credito de quo, del quale il M. risultava acquirente, unitamente al contratto di apertura di conto corrente bancario del 7.11.2017 presso la Banca R. di L.. Gli operanti procedevano al sequestro penale del titolo di credito ex art. 354 c.p.p. ed alla redazione del relativo verbale di accertamento. Loris M. proponeva appello avverso la suddetta sentenza. La Corte d’Appello di Milano rigettava l’appello. Il giudice del gravame, richiamato il contenuto dell’art. 3 del d.lgs. n. 195 del 2008, evidenziava come la suddetta norma fosse stata espressamente richiamata in sede di verbale di accertamento e sequestro ex art. 354 c.p.p. allorché gli operanti chiedevano al M. se avesse da dichiarare valori ai sensi di detta normativa. Tale domanda, come formulata, non era stata oggetto di contestazione da parte dell’appellante con apposita querela di falso. Significativo era, invece, che lo stesso, in tale occasione, proprio in quanto compulsato con il richiamo normativo de quo, non avesse ritenuto di informarsi in maniera specifica quanto all’ampiezza dell’obbligo dichiarativo. La Corte d’Appello richiamava i seguenti arresti di legittimità: “in tema di illeciti amministrativi, la responsabilità dell'autore dell'infrazione non è esclusa dal mero stato di ignoranza circa la sussistenza dei relativi presupposti, ma occorre che tale stato sia incolpevole, cioè non superabile dall'interessato con l'uso dell'ordinaria diligenza”. (v. Cass. civ. n. 6018/2019; v. ex multis, anche Cass. civ. n. 720/2018). Secondo la Corte, il M. non aveva minimamente offerto la prova dell’ignoranza non colpevole circa l’estensione dell’obbligo dichiarativo; tanto più considerato il fatto che lo stesso viaggiava con al seguito perizia di autenticità, rapporto di valutazione del 30.6.2017 e contratto di compravendita dal quale risultava la di lui veste di acquirente rispetto al titolo obbligazionario in questione. Il provvedimento sanzionatorio impugnato richiamava gli estremi normativi e la tipologia di infrazione riscontrata a carico del M., oltre che il parere n. 435686 del 5.6.2019 emesso dalla Commissione Consultiva per le infrazioni valutarie e antiriciclaggio. In detto parere erano riportate tutte le attività svolte ed esposte nei processi verbali di accertamento del 28.12.2018 e del 23.1.2019 elevati dall’Ufficio Dogane di Como - S.O.T. di Chiasso; l’attività svolta dal Pubblico Ministero e, infine, la motivazione in diritto, con richiamo all’art. 3 del D. lgs. n. 195/2008 ed all’art. 1 dello stesso d.lgs., rilevante al fine dell’indicazione del perimetro dell’obbligo dichiarativo: ne erano esclusi solo vaglia postali o cambiari, ovvero assegni postali, bancari o circolari, tratti su o emessi da banche o Poste italiane s.p.a. con l'indicazione del nome del beneficiario e la clausola di non trasferibilità. Detto parere motivava anche in ordine alla cogenza di tale obbligo, a prescindere da rapporti debitori o creditori in essere o in fieri, concludendo, quindi, per l’affermazione del mancato rispetto dell’obbligo da parte del M. rispetto alla disponibilità del titolo obbligazionario in questione. Infine, quanto alla dedotta irrilevanza dei titoli in esame non aventi rilevanza reddituale e non equiparabili al denaro contante, la Corte d’Appello richiamava l’orientamento di questa Corte secondo cui «resta, pertanto, del tutto irrilevante, al fine di configurare una causa di esenzione, la circostanza che il trasferimento, avendo ad oggetto titoli in realtà privi di valore economico, non era idoneo a dare luogo ad un effettivo movimento di capitali da uno Stato ad un altro. L'infrazione valutaria in esame, infatti, come giustamente evidenziato dal pubblico ministero, richiede, sotto il profilo oggettivo, soltanto che i titoli, sempre che abbiano un valore nominale superiore alla soglia indicata dall'art. 3 cit., abbiano l'astratta idoneità alla successiva costituzione di rapporti obbligatori, com'è stato ravvisato persino in titoli mancanti della data, del luogo di emissione o della firma di girata ovvero in assegni postdatati o con data falsa, privi di copertura o non onorabili dalla banca trattaria (cfr. Cass. n. 5242 del 2008, in motiv. Cass. n. 8476 del 1998; Cass. n. 11337 del 1997; Cass. n. 6291 del 1978)». Una tale interpretazione era ricavabile dal dettato normativo in esame, che non subordinava tale obbligo dichiarativo a specifici requisiti di negoziabilità del titolo de quo. Del resto, una palese non negoziabilità andava esclusa a maggior ragione nel caso di specie, proprio a fronte del corredo documentale nella disponibilità del M.: ed, invero, la perizia, il rapporto valutativo, il contratto di compravendita - documenti reperiti in occasione del controllo del 24.11.2017 - deponevano nel senso della negoziabilità del titolo, quanto meno prima facie; tanto era sufficiente ad integrare perfettamente l’obbligo dichiarativo previsto per legge, già cristallizzato in astratto, sulla base della mera interpretazione letterale. Loris M. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di tre motivi. Il Ministero dell’economia e delle Finanze ha resistito con controricorso

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE - ORDINANZA 14 novembre 2024 N. 29409 ORILIA LORENZO

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: Nullità della sentenza o del procedimento (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) in relazione all’art. 132 c.p.c., per evidente anomalia motivazionale. Il ricorrente premette che, in tema di illeciti amministrativi, la responsabilità dell’autore dell’infrazione non è esclusa dal mero stato di ignoranza circa la sussistenza dei relativi presupposti, ma occorre che tale stato sia incolpevole, cioè non superabile dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza (arg.: Cass. Civ., n° 6018/2019).

Nella specie si dovrebbe propendere per la carenza del presupposto soggettivo; assenza che risulterebbe chiaramente evincibile e dimostrata dal verbale di contestazione allegato al decreto, laddove gli operatori doganali hanno avvisato il M. dell’obbligo imposto dalla legge di dichiarare la disponibilità di solo “denaro contante” (senza però precisare l’inciso “e/o di titoli mobiliari ad esso equipollenti”).

Ciò conclamerebbe un errore procedimentale determinante delle autorità competenti e, quindi, un comportamento relazionale incolpevole del ricorrente, tale da provocare l’incosciente od involontaria omissione della dichiarazione del possesso dei valori mobiliari all’Ufficio doganale di confine, con conseguente illegittimità dell’irrogata sanzione. Il motivo è infondato.

La Corte d’Appello ha rigettato la medesima censura qui riproposta evidenziando come l’art. 3 del d. lgs. n. 195 del 2008 sia stato espressamente richiamato in sede di verbale di accertamento e sequestro ex art. 354 c.p.p., allorché gli operanti chiedevano al M. se avesse da dichiarare valori ai sensi di detta normativa. Nella sentenza impugnata si aggiunge che tale domanda, come formulata, non è stata oggetto di contestazione da parte dell’odierno appellante con apposita querela di falso. Inoltre, il ricorrente, in tale occasione, proprio in quanto compulsato con il richiamo normativo de quo, non ha ritenuto di informarsi in maniera specifica quanto all’ampiezza dell’obbligo dichiarativo.

Ciò precisato la Corte d’Appello ha richiamato il seguente principio di diritto: “in tema di illeciti amministrativi, la responsabilità dell'autore dell'infrazione non è esclusa dal mero stato di ignoranza circa la sussistenza dei relativi presupposti, ma occorre che tale stato sia incolpevole, cioè non superabile dall'interessato con l'uso dell'ordinaria diligenza”. (v. Cass. civ. n. 6018/2019; v. ex multis, anche Cass. civ. n. 720/2018). A tal proposito, secondo il giudice del gravame, il M. non ha minimamente offerto la prova dell’ignoranza non colpevole circa l’estensione dell’obbligo dichiarativo; tanto più se si considera che lo stesso viaggiava con al seguito una perizia di autenticità, rapporto di valutazione del 30.6.2017 e contratto di compravendita dal quale risultava la di lui veste di acquirente rispetto al titolo obbligazionario in questione.

La motivazione della Corte d’Appello è corretta in diritto circa l’assenza delle condizioni per riconoscere un errore scusabile in capo al ricorrente e non sindacabile sotto il profilo dell’accertamento di fatto. Invero, l’obbligo della dichiarazione al passaggio della dogana di denaro, titoli e valori, discende direttamente dalla legge (dall’art. 3 del d.lgs. n. 195/2008), sicché la stessa prospettazione del ricorrente circa il fatto che gli agenti della dogana lo avevano avvisato dell’obbligo di dichiarare la disponibilità di solo “denaro contante” non è motivo che di per sé può giustificare l’omessa dichiarazione.

Peraltro, la Corte d’Appello ha anche smentito in fatto la ricostruzione del ricorrente evidenziando che il verbale conteneva il richiamo alla norma di legge.

In proposito può richiamarsi il seguente principio di diritto: in tema di elemento soggettivo dell'illecito amministrativo, l'errore scusabile sul fatto determinato dall'interpretazione di norme giuridiche in tanto può assumere rilievo, soprattutto per chi versa in condizioni soggettive d'inferiorità, in quanto non attinga la sola interpretazione giuridica del precetto, ma verta sui presupposti della violazione, e sia stato determinato da un elemento positivo, estraneo all'autore, che sia idoneo ad ingenerare in quest'ultimo l'incolpevole opinione di liceità del proprio agire. Il relativo accertamento rientra nei poteri del giudice di merito, la cui valutazione è sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che, in riferimento ad una sanzione amministrativa irrogata per l'omessa presa in carico di rifiuti nel registro di cui all'art. 12 del d.lgs. n. 22 del 1997, aveva escluso la scusabilità dell'errore addotto dall'autore della violazione, trattandosi di una società esercente la propria specifica attività nel settore: Sez. 2, Sentenza n. 20866 del 29/09/2009, Rv. 609451 - 01).

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: Nullità della sentenza o del procedimento (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) in relazione all’art. 132 c.p.c., per evidente anomalia motivazionale. Secondo parte ricorrente il titolo per cui si discute dovrebbe ritenersi pagabile in riferimento al suo valore nominale che, per come esplicitamente indicato nel documento, risulta pari al valore espresso in moneta americana di 100 dollari. Pertanto, anche a voler considerare per vere le asserzioni espresse a fondamento della sentenza nella parte in cui ritengono “potenzialmente liquidabile” il titolo portato di cui si discute, la Corte avrebbe dovuto tenere conto dell’importo nominale ivi espresso; requisito oggettivo su cui invece non fornisce alcuna motivazione, pur richiamando, a fondamento della decisione impugnata (pag. 9), una sentenza di codesta Suprema Corte di legittimità (Cass. Civ., n° 5242/2008) nella quale si legge testualmente: «L’infrazione valutaria in esame, infatti, … richiede, sotto il profilo soggettivo, soltanto che i titoli, sempre che abbiano un valore nominale superiore alla soglia di cui all’art. 3 cit., abbiano l’astratta idoneità alla successiva costituzione di rapporti obbligatori…». I provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6 e, nel processo civile, dall’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c..

Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure “perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile”) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, (arg.: Cass. civ., n. 2258/2018; conf.: Cass. civ., n. 23240/2017).

Questo motivo di ricorso, che allega una lacuna motivazionale della sentenza impugnata, è inammissibile.

Le Sezioni Unite hanno chiarito che dopo la riforma dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., operata dalla legge 134/2012, il sindacato sulla motivazione da parte della cassazione è consentito solo quando l'anomalia motivazionale si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; in tale prospettiva detta anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione (cfr. Cass. Sez. un. 8053/2014);

Nel caso di specie, la grave anomalia motivazionale non esiste, perché la Corte d’Appello ha adeguatamente esposto le ragioni del proprio convincimento. In particolare, a pag. 9, dopo aver richiamato i precedenti di questa Corte, ha osservato che l'infrazione valutaria in esame, come giustamente evidenziato dal pubblico ministero, richiede, sotto il profilo oggettivo, soltanto che i titoli, sempre che abbiano un valore nominale superiore alla soglia indicata dall'art. 3 cit., abbiano l'astratta idoneità alla successiva costituzione di rapporti obbligatori, com'è stato ravvisato persino in titoli mancanti della data, del luogo di emissione o della firma di girata ovvero in assegni postdatati o con data falsa, privi di copertura o non onorabili dalla banca trattaria (cfr. Cass. n. 5242 del 2008, in motiv.; Cass. n. 8476 del 1998; Cass. n. 11337 del 1997; Cass. n. 6291 del 1978).

Secondo la Corte di merito, d’altra parte, la non negoziabilità del titolo andava esclusa, a fronte del corredo documentale nella disponibilità del M.: ed, invero, la perizia, il rapporto valutativo, il contratto di compravendita - documenti reperiti in occasione del controllo del 24.11.2017 - deponevano tutti nel senso della negoziabilità del titolo. D’altra parte, come evidenziato dalla Corte d’Appello nella specie si tratta di titoli pagabili al portatore senza alcuna indicazione del nome del beneficiario o di una clausola di non trasferibilità.

Quanto al loro valore è chiaro il riferimento del giudice del gravame al fatto che il ricorrente è stato trovato in possesso oltre che dei titoli anche del relativo contratto di compravendita e – particolare tutt’altro che secondario - di una perizia e un rapporto valutativo che, peraltro, sono risultati autentici a seguito di rogatoria internazionale del pubblico ministero. In definitiva il vizio di carenza assoluta di motivazione lamentato dal ricorrente non ricorre nella fattispecie. Come hanno evidenziato le Sezioni Unite, la riformulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione (tra le varie, Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629830).

Scendendo più nel dettaglio sull’analisi del vizio di motivazione apparente, la costante giurisprudenza di legittimità, anche a sezioni unite, ritiene che il vizio ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. tra le tante, Sez. U, ordinanza n. 2767/2023 e altre pronunce ivi richiamate). Nella specie, il vizio non si ravvisa: infatti, la motivazione della sentenza impugnata, come sinteticamente riportata, contiene una chiara ed effettiva esposizione delle ragioni alla base della decisione, nel senso che le argomentazioni sviluppate consentono di ricostruire il percorso logico -giuridico alla base del decisum.

3. Il terzo motivo di ricorso è solo un auspicio di revisione della condanna alle spese in caso di accoglimento del ricorso e di conseguenza è inammissibile come conseguenza del rigetto dei precedenti motivi. Il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo tenuto conto del valore della lite corrispondente all’entità della sanzione irrogata.

6. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nei confronti della parte controricorrente che liquida in euro 20.000, più spese prenotate a debito; ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, I. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto;

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione