Con il primo motivo – falsa applicazione di norme di diritto con riferimento all’art. 1367 c.c. e violazione degli artt. 1325, 1326, 1406 1418, comma 2, 1423 c.c. sulla ritenuta validità ed efficacia del contratto di leasing tra Antonio T. e Unicredit Leasing SpA, nonostante il contratto iniziale e quello di cessione difettassero della firma e quindi della manifestazione di volontà di chi risultava averli conclusi – il ricorrente lamenta che la corte territoriale, pur avendo correttamente individuato la fattispecie (cessione di contratto) e le norme applicabili (artt. 1325, 1406 e 1418 c.c.), ne avrebbe tratto conseguenze aberranti essendo la cessione del contratto un negozio plurilaterale in cui si determina la sostituzione soggettiva tra cedente e cessionario che necessariamente presuppone la validità del contratto ceduto; avrebbe erroneamente invocato il principio di conservazione del contratto, non potendo determinarsi la convalida di un contratto nullo; in disparte ogni questione circa la ritenuta e affermata nullità del contratto de quo da parte del giudice di appello (questione sulla quale è scesa la scure del giudicato interno), il motivo è inammissibile perché non è correlato alla ratio decidendi. La corte del gravame non ha affatto inteso convalidare un contratto nullo violando le norme sulla cessione del contratto ma ha svolto un autonomo accertamento circa la valutazione complessiva dei comportamenti delle parti giungendo alla conclusione dell’avvenuta stipula di un autonomo contratto di leasing tra Unicredit e il T., a prescindere dalla nullità del contratto di leasing concluso tra la concedente ed il M. e del successivo contratto di cessione; il ricorrente, per censurare la valutazione della corte del merito e la qualificazione del contratto intercorso tra esso T. e Unicredit quale leasing, avrebbe dovuto prospettare la violazione delle norme di ermeneutica contrattuale dimostrando che la suddetta qualificazione era impedita dalla violazione, da parte della corte, di specifici criteri di interpretazione del negozio; in assenza, il motivo si risolve in un inammissibile sindacato sul potere riservato al giudice del merito di ricostruire la volontà negoziale delle parti; con
il secondo motivo di ricorso, si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti in relazione ad uno dei fatti costitutivi della domanda di annullamento per dolo del contratto di leasing ai sensi dell’art. 1439 c.c., atteso che la Unicredit Leasing SpA aveva agito per il tramite di un agente procuratore autorizzato a stipulare in nome e per conto di Unicredit con conoscenza dei raggiri orditi dai correi in danno del T.; In disparte i non marginali profili di inammissibilità della censura per difetto di autosufficienza (in quanto, in relazione agli artifici e raggiri del terzo asseritamente noti alla banca, e dunque tali da determinare l’annullamento del contratto di leasing per dolo ai sensi dell’art. 1439, secondo comma c.c., il ricorrente non adempie all’onere di prospettare dove e come la doglianza sia stata svolta nel giudizio di merito né localizza i documenti che dovrebbero sostenere la censura nel presente giudizio di legittimità) il motivo va comunque rigettato per manifesta infondatezza, volta che la corte del merito non ha affatto omesso di pronunciarsi sulla asserita esistenza di condotte truffaldine di terzi, ma le ha ritenute irrilevanti ai fini della domanda di annullamento del contratto per dolo ai sensi dell’art. 1439 c.c. per mancanza di prova della conoscenza delle stesse da parte di Unicredit. Si legge infatti a p. 15 della sentenza :”…da nessun elemento probatorio esistente in atti è possibile evincere un “concorso” di Unicredit, anche solo a livello tacitamente istigatorio, nelle condotte illecite la cui perpetrazione in danno del T. (omissis) è seriamente desumibile; quanto a ciò dovendosi sottolineare come nessun comportamento decettivo concernente l’oggetto del negozio e il complessivo assetto pattizio risulti attribuibile a quest’ultima e come, anche a voler ritenere che i terzi (omissis) si siano resi responsabili di condotte truffaldine funzionali a fargli perfezionare il contratto, esse, atteso che della loro conoscenza in capo ad Unicredit non vi è prova in atti, siano a mente dell’art. 1439, secondo comma c.c., inidonee a determinare effetti invalidativi sullo stesso”;
con il terzo motivo di ricorso – violazione dell’art. 112 per omessa pronuncia sul quinto motivo di appello e sulla domanda volta ad accertare il concorso colposo di Unicredit Leasing nella perdita del bene concesso in leasing ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c. – il ricorrente lamenta che la corte del merito abbia omesso di pronunciarsi sul motivo con cui aveva impugnato la sentenza di primo grado quanto al mancato accoglimento dell’exceptio doli generalis funzionale ad una pronuncia che, ai sensi dell’art. 1227 c.c., riducesse il danno costituito dalla perdita del veicolo, che aveva esposto il T. al pagamento della penale contrattuale; il motivo è da rigettare in quanto, con la sentenza, si è condivisibilmente ritenuto non configurabile alcun “concorso” di Unicredit nelle condotte illecite poste in essere ai danni del T., considerato che, con detta affermazione, la corte intendeva evidentemente riferirsi a qualunque tipo di “concorso” di colpa della banca – non senza considerare, ancora, l’esistenza di una seconda ratio decidendi della pronuncia impugnata, secondo cui “se è seriamente ipotizzabile un carattere di significativa negligenza di Unicredit nel momento perfezionativo del contratto di leasing, ciò doveva considerarsi ininfluente nel presente giudizio concernente il rapporto intercorso tra l’appellata ed il T. il quale, ove si fosse ritenuto e si ritenesse parte lesa di comportamenti penalmente o civilmente rilevanti posti in essere da altri oltre che dal succitato comodatario del veicolo in parola, avrebbe potuto e potrebbe, nel caso ne sussistessero ancora le condizioni, esercitare le pertinenti azioni”; in proposito, va data continuità al principio di diritto già affermato da questa Corte, secondo cui “ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un'espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logico-giuridica della pronuncia” (Cass., 1, n. 10696 del 10/5/2007; Cass., 2, n. 20311 del 4/10/2011; Cass., 1, n. 21612 del 20/9/2013; Cass., 1, n. 24155 del 13/10/2017); conclusivamente il ricorso va rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in € 5.800,00 (di cui € 200 per esborsi) più accessori e spese generali al 15%. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione