Giu L'accertamento dell'acquisto a titolo originario della servitù a favore del dante causa a titolo derivativo, per il principio di ambulatorietà della servitù, esclude di accertare l'esistenza di un rapporto diretto tra avente causa e fondo acquistato
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE - ORDINANZA 19 settembre 2024 N. 25225
Massima
“L'accessione del possesso della servitù, ai sensi dell'art. 1146, secondo comma, cod. civ., si verifica, a favore del successore a titolo particolare nella proprietà del fondo dominante, anche in difetto di espressa menzione della servitù nel titolo traslativo della proprietà del fondo dominante e anche in mancanza di un diritto di servitù già costituito a favore del dante causa” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20287 del 23/07/2008, Rv. 604846; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18909 del 05/11/2012, Rv. 624155).

L'accertamento dell'acquisto a titolo originario della servitù a favore del dante causa che trasmetta a titolo derivativo il proprio fondo, per il principio di ambulatorietà della servitù, esclude la necessità di accertare l'esistenza di un rapporto diretto tra l'avente causa e il fondo acquistato (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 11243 del 26/04/2024, Rv. 670752):

Casus Decisus
Con atto di citazione ritualmente notificato T. S.r.l. evocava in giudizio C.R. S.r.l. innanzi il Tribunale di Milano, invocando la sua condanna ad arretrare il fabbricato di sua proprietà, oggetto di sopraelevazione, sino al rispetto delle distanze legali. Resisteva alla domanda C.R. S.r.l., invocando in via riconvenzionale l’accertamento dell’acquisto per usucapione del diritto di servitù di veduta, e dunque di mantenere le aperture aggettanti sulla proprietà della società attrice. Con sentenza n. 4391/2019 il Tribunale di Milano rigettava la domanda principale, qualificando la sopraelevazione come intervento di recupero di un sottotetto, e ritenendola dunque esentata dal rispetto delle distanze, e ritenendo comunque inapplicabile l’art. 873 c.c., trattandosi di edifici costruiti in aderenza; accoglieva invece in parte la domanda riconvenzionale, dichiarando l’intervenuta usucapione della servitù di veduta, rigettandola nel resto. Con la sentenza impugnata, n. 1618/2021, la Corte di Appello di Milano rigettava tanto l’appello principale che quello incidentale proposti, rispettivamente, da T. S.r.l. (il primo) e da C.R. S.r.l. (il secondo) avverso la decisione di prime cure, confermandola. La Corte distrettuale riteneva, in particolare, che l’altezza media ponderale di mt. 2,40 prescritta dalla normativa regionale costituisse non già un limite massimo, ma un limite minimo, che nella specie era stato rispettato, posto che il valore minimo riscontrato era pari a mt. 2,65. Propone ricorso per la cassazione di detta pronuncia T. S.r.l., affidandosi a tre motivi. Resiste con controricorso C.R. S.r.l. In prossimità dell’adunanza camerale, ambo le parti hanno depositato memoria.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE - ORDINANZA 19 settembre 2024 N. 25225 MOCCI MAURO

Con il primo motivo, la società ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 63 della legge Regione Lombardia n. 12 del 2005, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente qualificato l’intervento realizzato da C.R. S.r.l. come recupero del sottotetto, in assenza dei requisiti dimensionali massimi previsti dalla normativa regionale. L’opera, pertanto, avrebbe dovuto essere ritenuta nuova costruzione, e come tale assoggettata al rispetto delle distanze legali dal fabbricato della ricorrente.

La censura è infondata.

La prescrizione dell’art. 63 della legge Regione Lombardia n. 12 del 2005, riprodotta testualmente a pag. 9 della sentenza impugnata, impone che il recupero abitativo dei sottotetti sia consentito a condizione che venga rispettata l’altezza media ponderale di mt. 2,40, ridotta a mt. 2,10 per i comuni posti ad oltre 600 metri sul livello del mare. Trattasi, evidentemente, di previsione collegata alla ratio della norma, che, appunto, è il recupero dei sottotetti a fini abitativi; non è dunque possibile ipotizzare che il dato numerico indicato dalla disposizione in esame rappresenti un limite massimo, poiché in tal caso sarebbe autorizzato anche il recupero, a fini abitativi, di vani aventi altezza anche inferiore alla statura di una persona, il che costituirebbe un cortocircuito logico rispetto alle finalità che la norma in esame si prefigge.

Deve dunque convenirsi con quanto ravvisato dal giudice di merito, ovverosia che il limite di mt. 2,40 previsto dalla norma regionale costituisca una quota minima, da rispettare affinché l’intervento di recupero a fini abitativi del sottotetto possa comunque assicurarne la vivibilità.

Poiché il giudice di merito ha accertato che, nel caso concreto, il valore minimo riscontrato in loco è superiore al predetto limite (essendo pari a mt. 2,65) il requisito di abitabilità e vivibilità degli ambienti è stato rispettato.

Con il secondo motivo, la parte ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 2967 e 1158 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ravvisato i presupposti per il riconoscimento, in favore di C.R. S.r.l., dell’acquisto per usucapione del diritto di veduta sul fondo della società ricorrente. Ad avviso di quest’ultima, infatti, non sarebbe stata dimostrata, dopo il 1939, l’esistenza delle aperture mediante le quali il diritto di veduta sarebbe esercitato.

La censura è inammissibile.

La Corte di Appello ha condiviso la valutazione del Tribunale, secondo cui le aperture di cui si discute, pur avendo subito alcune modifiche negli anni, erano esistenti sin dal 1939, onde l’usucapione si è maturata a far data dal 1959. Applicando quindi l’istituto dell’accessione nel possesso, previsto dall’art. 1146 c.c., il giudice di merito ha ravvisato l’usucapione del diritto di servitù in favore di C.R. S.r.l., considerando irrilevante il fatto che quest’ultima avesse acquistato l’immobile solo nel 2004 (cfr. pag. 10 della sentenza impugnata).

La statuizione è conforme all’insegnamento di questa Corte, secondo cui “L'accessione del possesso della servitù, ai sensi dell'art. 1146, secondo comma, cod. civ., si verifica, a favore del successore a titolo particolare nella proprietà del fondo dominante, anche in difetto di espressa menzione della servitù nel titolo traslativo della proprietà del fondo dominante e anche in mancanza di un diritto di servitù già costituito a favore del dante causa” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20287 del 23/07/2008, Rv. 604846; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18909 del 05/11/2012, Rv. 624155).

Peraltro, questa Corte ha anche affermato che l'accertamento dell'acquisto a titolo originario della servitù a favore del dante causa che trasmetta a titolo derivativo il proprio fondo, per il principio di ambulatorietà della servitù, esclude la necessità di accertare l'esistenza di un rapporto diretto tra l'avente causa e il fondo acquistato (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 11243 del 26/04/2024, Rv. 670752): pertanto, una volta accertato che l’usucapione del diritto in re aliena si era realizzata prima dell’acquisto del bene da parte di C.R. S.r.l., non è necessario alcun accertamento in relazione alla condotta di quest’ultima successiva al detto acquisto.

La società ricorrente sostiene che sarebbe stata fornita soltanto la prova dell’esistenza delle aperture nel 1939, ma non anche quella della loro permanenza nel tempo, ma in tal modo finisce per contrapporre, alla ricostruzione del fatto e delle prove prescelta dal giudice di merito, una lettura alternativa del compendio istruttorio, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un'istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790).

Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui “L'esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330).

Nel caso di specie, inoltre, la motivazione della sentenza impugnata non risulta viziata da apparenza, né appare manifestamente illogica, ed è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830, nonché, in motivazione, Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639). Con il terzo motivo, la società ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 115 c.p.c. e violazione o falsa applicazione dell’art. 2967 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente qualificato le aperture esistenti nell’immobile di C.R. S.r.l. come vedute, laddove esse presenterebbero le caratteristiche di luci. La censura è inammissibile. 

La Corte di Appello ha rigettato il motivo di gravame concernente la qualificazione delle aperture come luci, anziché come vedute, ritenendolo privo di argomentazione, in assenza di critica, da parte dell’appellante, alle ragioni che avevano portato il Tribunale a configurare l’esistenza di vedute. Con la censura in esame, T. S.r.l. afferma che, in realtà, il motivo di appello conteneva una critica puntuale della decisione di prime cure, in punto di qualificazione delle aperture di cui si discute, ed evidenzia che, in particolare, queste ultime sarebbero state parzialmente chiuse con inferriata, e dunque non avrebbero consentito l’esercizio della inspectio e prospectio.

Questo elemento, secondo la società ricorrente, avrebbe valenza interruttiva del decorso del termine di usucapione del diritto di servitù di veduta. La doglianza non si misura adeguatamente con la ratio della decisione, poiché il ricorrente non riporta il motivo di appello che la Corte distrettuale aveva ritenuto inammissibile, ma si limita a far riferimento ad alcune fotografie prodotte in atti, senza tuttavia specificare in quale data esse sarebbero state scattate, né indicare da quale elemento si ricaverebbe la prova che esse rappresenterebbero proprio le aperture di cui si discute.

Allo stesso modo, la deduzione circa il fatto che le aperture predette sarebbero state chiuse è formulata in modo generico, senza alcuna indicazione della data in cui ciò sarebbe accaduto, né indicazione dell’elemento di prova che confermerebbe tale circostanza. Peraltro, una volta riconosciuta l’usucapione del diritto di veduta a far data dal 1959, l’eventuale prova dell’intervenuta modifica delle caratteristiche dell’apertura non sarebbe sufficiente a dimostrare il venir meno del diritto in re aliena, essendo necessario, a tal fine, il compimento del termine prescritto per l’estinzione del diritto per non uso.

Anche questa censura, dunque, cela in realtà una istanza di riesame del fatto e delle risultanze istruttorie, e dunque soggiace alle medesime considerazioni già esposte in occasione dello scrutinio del secondo motivo. In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. Stante il tenore della pronuncia, va dato atto –ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002– della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 3.500 per compensi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, iva, cassa avvocati, ed agli esborsi, liquidati in € 200 con accessori tutti come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda