Con il primo motivo, le ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 112 c.p.c., 2697, 1292, 1293 e 1296 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente confermato la condanna del R. al risarcimento del danno già disposta dal Tribunale, senza tenere conto che le odierne ricorrenti avevano spiegato una domanda di condanna generica. La censura è fondata. La Corte di Appello ha affermato che “Rimane non provato il richiesto risarcimento dei danni in misura superiore a quella di € 10.000 liquidata a titolo di provvisionale con la sentenza di primo grado” (cfr. Corte di Cassazione - copia non ufficiale 4 pag. 7 della sentenza) ma non ha considerato che le M. non avevano impugnato la decisione di prime cure dolendosi del quantum loro riconosciuto, ma avevano ribadito la richiesta, già formulata in prime cure, di condanna generica del R. al risarcimento del danno, da liquidarsi in successivo giudizio. La statuizione assunta dalla Corte di Appello, con la quale è stata ritenuta non conseguita la prova di un danno superiore ad € 10.000, è dunque stata assunta in ultrapetizione, poiché non era stata mai proposta, né in primo né in secondo grado, una domanda di condanna specifica del R. al risarcimento del danno, ma soltanto una domanda di condanna generica, ai sensi dell’art. 278 c.p.c. Sussiste l’interesse delle odierne ricorrenti all’impugnazione, dovendosi dare continuità al principio secondo cui “In tema di condanna al risarcimento del danno, qualora il giudice, per quanto adito unicamente con una domanda di condanna generica, non si sia limitato a statuire esclusivamente sulla potenzialità dannosa del fatto addebitato al soggetto condannato e sul nesso eziologico in astratto, ma abbia accertato e statuito sull'esistenza in concreto di detto danno, e questa statuizione sul punto non risulti impugnata per ultrapetizione, il giudicato si forma anche in merito all'accertata esistenza del danno” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 26021 del 05/12/2011, Rv. 620638).
Con il secondo motivo, le ricorrenti si dolgono della violazione e falsa applicazione degli artt. 2233 c.c., 2, 4 e 5 del D.M. n. 55 del 2018, in relazione all’art. 360, primo comma n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe liquidato le spese del doppio grado di giudizio in misura inferiore al minimo previsto per lo scaglione di valore applicabile alla controversia. La censura è assorbita dall’accoglimento del primo motivo, poiché il giudice del rinvio dovrà rideterminare le spese dell’intero giudizio (cfr. Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 1407 del 22/01/2020, Rv. 656866; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15868 del 28/07/2015, Rv. 636370). Passando ai motivi del ricorso incidentale, spiegato dal R., con il primo di essi si lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697, 2899, 2700, 2702, 2729 c.c., 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente attribuito al certificato di collaudo del 22.4.1987 valore di prova del fatto che, a quella data, il fabbricato delle M. era stato ultimato. Con il secondo motivo, viene invece contestata la violazione o falsa applicazione degli artt. 873 c.c., 9 del D.M. n. 1444 del 1968 e 11 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Altamura, perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente ritenuto legittima la costruzione, da parte delle M., di una parete finestrata in aderenza al confine con la proprietà R., ancorché ciò non fosse consentito dalle norme locali.
Le due censure, suscettibili di esame congiunto, sono infondate.
La Corte di Appello ha affermato che la normativa di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 non è derogabile dalle disposizioni regolamentari locali e va interpretata nel senso che la distanza minima di 10 metri dalla parete finestrata va sempre rispettata, a condizione che vi sia anche una sola parete dotata di aperture, essendo peraltro indifferente che essa appartenga all’edificio preesistente, o a quello realizzato successivamente, e fermo restando che l’obbligo di rispetto di detta distanza si applica all’intera lunghezza della parete stessa.
Il giudice di seconde cure ha poi ritenuto provato che le M. avevano ultimato il loro edificio nel 1978, quanto al primo piano, e nel 1987, quanto al secondo e terzo piano, e dunque avevano usucapito il diritto di mantenere lo stabile nella sua attuale collocazione, essendo a tal fine sufficiente la dimostrazione dell’esistenza del piano terreno oltre vent’anni prima della data in cui il R. aveva conseguito il suo titolo autorizzativo (12.7.2004) ed iniziato a costruire il proprio immobile. Di conseguenza, la Corte territoriale ha ravvisato l’acquisto del diritto, in capo alle M., di mantenere la parete finestrata del loro edificio nella sua attuale collocazione, a fronte del decorso di oltre vent’anni dalla realizzazione della fabbrica, sia pure quanto al solo primo piano fuori terra.
Trattasi di apprezzamento del fatto e delle prove, coerente con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui deve ritenersi "costruzione" qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell'opera stessa, dai suoi caratteri e dalla sua destinazione (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21173 del 08/08/2019, Rv. 655195 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4277 del 22/02/2011, Rv. 617015). La nozione di costruzione, infatti, è unica, agli effetti dell'art. 873 c.c., e non può subire deroghe da parte delle norme secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, in quanto il rinvio ivi contenuto ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore (Cass Sez. 2, Sentenza n. 144 del 08/01/2016, Rv. 638534; conf. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 23843 del 02/10/2018, Rv. 650629).
A tale complessiva ricostruzione, la parte odierna ricorrente contrappone una lettura alternativa del compendio istruttorio, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un'istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. Corte di Cassazione - copia non ufficiale 7 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790).
Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui “L'esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330).
Nel caso di specie, infine, la motivazione della sentenza impugnata non risulta viziata da apparenza, né appare manifestamente illogica, ed è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830, nonché, in motivazione, Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639). Nemmeno si configura la violazione o falsa applicazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, né il travisamento della prova, perché la Corte di Appello non ha dato rilievo –come erroneamente lamentano le odierne ricorrenti– al certificato di collaudo del 1987, ai fini della prova Corte di Cassazione - copia non ufficiale 8 della preesistenza, ma al rogito per atto notar Patella del 23.10.1978, poiché detto atto comprovava l’esistenza, a quella data, del piano terreno dell’edificio di cui è causa. Sotto altro profilo, va rilevato che la decisione impugnata non si pone in contrasto con il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui “L'art. 9, n. 2, del D. M. n. 1444 del 1968 non impone di rispettare in ogni caso una distanza minima dal confine, ma va interpretato, in applicazione del principio di prevenzione, nel senso che tra una parete finestrata e l'edificio antistante va mantenuta la distanza di mt. 10, con obbligo del prevenuto di arretrare la propria costruzione fino ad una distanza di mt. 5 dal confine, se il preveniente, nel realizzare tale parete finestrata, abbia a sua volta osservato una distanza di almeno mt. 5 dal confine.
Ove, invece, il preveniente abbia posto una parete finestrata ad una distanza inferiore a detto limite, il vicino non sarà tenuto ad arretrare la propria costruzione fino alla distanza di mt. 10 dalla parete stessa, ma potrà imporre al preveniente di chiudere le aperture e costruire (con parete non finestrata) rispettando la metà della distanza legale dal confine, ed eventualmente procedere all'interpello di cui all'art. 875, comma 2, c.c., qualora ne ricorrano i presupposti” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 4848 del 19/02/2019, Rv. 652583; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3340 del 07/03/2002, Rv. 552893). Nel caso di specie le M., che avevano costruito a confine con la proprietà Rufino, non possono dunque essere costrette a chiudere le aperture praticate nella parete del loro edificio prospiciente la proprietà R., poiché, essendo trascorso oltre un ventennio dalla realizzazione del piano terreno del loro stabile, il diritto di veduta a carico del fondo Rufino si è consolidato grazie all’usucapione.
Con il terzo motivo, il ricorrente incidentale lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ricostruito lo stato degli immobili delle parti, senza dare rilievo alla C.T.U. redatta dall’ing. Franco ed apprezzando le prove in modo ritenuto non convincente. La censura è inammissibile. In primo luogo, non sussiste alcun profilo di omesso esame, poiché la relazione dell’ing. Franco è stata considerata dal giudice di merito, che la richiama a pag. 5 della sentenza impugnata. Inoltre, il fatto di cui si lamenta l’omesso esame, in realtà, non è tale, dovendosi ribadire che l’omesso esame denunziabile in sede di legittimità deve riguardare un fatto storico considerato nella sua oggettiva esistenza, “… dovendosi intendere per "fatto" non una "questione" o un "punto" della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17761 del 08/09/2016, Rv. 641174; cfr. anche Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 2805 del 05/02/2011, Rv. 616733).
Non sono quindi “fatti” nel senso indicato dall’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, ed infine neppure le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio.
Nel caso specifico, in realtà, la censura attinge, sotto l’apparente profilo del vizio di omesso esame –che tuttavia, come visto, tale non è– la valutazione delle risultanze istruttorie condotta dal giudice di merito, onde anche per essa valgono le considerazioni già esposte in relazione alla prima censura. In definitiva, va accolto il primo motivo del ricorso principale, con assorbimento del secondo, mentre va rigettato il ricorso incidentale. La sentenza impugnata va di conseguenza cassata, in relazione alla censura accolta, e la causa rinviata alla Corte di Appello di Bari, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità. Stante il tenore della pronuncia, va dato atto –ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002– della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale e dichiara assorbito il secondo. Rigetta il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Bari, in differente composizione. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, addì 12 settembre 2024.