1. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione degli artt. 112 e 99 c.p.c. in relazione agli artt. 1176 e 1418 c.c., per aver la Corte territoriale rigettato la domanda di danni collegandola “al solo esito positivo del ricorso in cassazione dell’avv. R. e non alla perdita di possibilità di ottenere un esito diverso” e cioè alla “chance di ottenere una valutazione sulla nullità per indeterminatezza del contratto del 31.12.1972” non presa in considerazione dal giudice di legittimità in assenza di apposito motivo di ricorso.
2. – Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione degli artt. 112 e 99 c.p.c. in relazione agli artt. 1176 e 1418 c.c., per aver la Corte territoriale contraddittoriamente affermato “che era possibile una formulazione di un motivo sulla nullità del contratto” del 31.12.1972, sia pure “con stretti margini”, senza, però, “trarne le logiche conseguenze” e cioè la perdita da parte di esso B. di “ogni possibilità, se pur non assoluta, di vedere riformata una sentenza” dall’esito particolarmente pregiudizievole sul piano patrimoniale.
3. – Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione degli artt. 112 e 99 c.p.c. in relazione agli artt. 1176 e 1418 c.c., per aver la Corte territoriale ritenuto erroneamente che la sentenza della Corte d’appello impugnata dall’avv. R. con ricorso per cassazione “avesse operato un ragionamento logico non censurabile, pur in presenza di evidenti elementi di incertezza”, non essendo sostenibile che la denominazione di un’azienda agricola potesse “individuare in maniera corretta e precisa dei terreni”, potendo la stessa svolgere l’attività anche su beni di proprietà di terzi e il luogo di ubicazione rivestendo piuttosto l’indicazione della sede legale.
4. – Con il quarto mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione degli artt. 112 e 99 c.p.c. in relazione agli artt. 1176 e 1418 c.c., per aver la Corte territoriale contraddittoriamente affermato “l’incensurabilità in Cassazione della valutazione di merito”, giacché era comunque possibile formulare un motivo sul vizio di motivazione e non l’averlo proposto da parte dell’avv. R. ha comportato per esso B. la perdita di “ogni chance di vedere riformata la sentenza di appello”.
5. – Con il quinto mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione degli artt. 112 e 99 c.p.c. in relazione agli artt. 1176, 2236 e 1418 c.c., per aver la Corte territoriale erroneamente escluso la colpa grave del professionista legale nell’aver omesso un motivo di ricorso per cassazione “possibile e aver dedotto motivi infondati e inammissibili”, in quanto l’avv. R. ben avrebbe potuto proporre, in relazione alla questione della nullità del contratto del 31.12.1972 per indeterminatezza, un motivo diretto a censurare la “logicità della motivazione su una questione di merito” e tale attività “non era esorbitante rispetto alla normale diligenza di un avvocato”.
6. – Con il sesto mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione degli artt. 112 e 99 c.p.c. in relazione all’art. 2236 c.c., per aver la Corte territoriale contraddittoriamente ritenuto che l’aver l’avv. R. avvisato esso Corte di Cassazione - copia non ufficiale 8 di 18 B. “dell’alta alea del giudizio” potesse esonerarlo da responsabilità per aver predisposto erroneamente il ricorso per cassazione, dovendosi al contrario reputare che il legale, “consapevole degli stretti margini di successo”, non avrebbe dovuto privare la parte della possibilità che il giudice di legittimità “ritenesse illogica e non coerente la motivazione relativa alla determinabilità … dell’oggetto del contratto”.
7. – Il primo, il secondo, il quarto e il sesto motivo vanno esaminati congiuntamente, in quanto le doglianze con essi prospettate veicolano, in sostanza, la medesima questione di diritto, ossia se, in conseguenza dell’inadempimento dell’obbligazione professionale assunta dall’avvocato nei confronti del cliente, sia risarcibile il danno da perdita di chance rappresentato dalla perdita della mera possibilità di partecipare ad un giudizio (nella specie, di cassazione); danno distinto da quello eziologicamente correlato al mancato riconoscimento delle proprie ragioni (la ‘vittoria della causa’), da provarsi in base a criteri probabilistici. I motivi sono infondati.
7.1. – Va, infatti, ribadito l’orientamento consolidato espresso dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale la responsabilità dell’avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone (tra le molte: Cass. n. 11901/2002; Cass. n. 10966/2004; Cass. n. 2638/2013; Cass. n. 15032/2021; Cass. n. 2348/2022; Cass. n. 2109/2024). A tal fine, si è distinto anche tra “l’omissione di condotte che, se tenute, sarebbero valse ad evitare l’evento dannoso, dall’omissione di condotte che, viceversa, avrebbero prodotto un vantaggio”; mentre nella prima ipotesi “l’evento dannoso si è effettivamente verificato, quale conseguenza dell’omissione”, nella seconda ipotesi “il danno … deve costituire oggetto di un accertamento prognostico, dato che il vantaggio patrimoniale che il danneggiato avrebbe tratto dalla condotta altrui, che invece è stata omessa, non si è realmente verificato e non può essere empiricamente accertato”. Tale seconda ipotesi è quella che attiene alla responsabilità professionale dell’avvocato per omessa impugnazione del provvedimento sfavorevole, cui è da assimilarsi il caso di specie, vertendo su omessa formulazione di un motivo di ricorso per cassazione che la parte assume come decisivo per la invalidazione della sentenza impugnata. Ed è in siffatta ipotesi che l’esito del giudizio, il cui svolgimento è stato precluso dall’omissione del professionista, “non può essere accertato in via diretta, ma solo in via presuntiva e prognostica” – in base alla regola della preponderanza dell’evidenza o del ‘più probabile che non’ -, per cui l’affermazione della responsabilità risarcitoria “implica una valutazione prognostica positiva” circa la ragionevole probabilità che l’azione giudiziale, che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita, abbia un esito favorevole (tra le altre, segnatamente, Cass. n. 25112/2017 e Cass. n. 10320/2018).
7.2. – Le ragioni che inducono a mantenere fermo detto orientamento e ad escludere che la ‘mera’ perdita della possibilità di partecipare ad un giudizio, per effetto dell’inadempimento dell’avvocato alla sua obbligazione professionale (omessa impugnazione, in tutto o in parte, del provvedimento giudiziario sfavorevole), possa costituire un danno, di per sé, risarcibile, a prescindere da una correlazione con il risultato ‘utile’ cui mira il giudizio stesso, muovono, anzitutto, dalla considerazione della natura di detta obbligazione, che questa Corte, da sempre (Cass. n. 3848/1968; Cass. n. 2230/1973; Cass. n. 7618/1997; Cass. n. 16023/2002; Cass. n. 10289/2015; Cass. n. 30169/2018; Cass. n. 21953/2023), ha ritenuto essere, di regola (e certamente nel caso dello svolgimento dell’incarico di patrocinare in un giudizio), “di mezzi e non di risultato” (secondo una terminologia ormai risalente) in quanto il professionista si fa carico non già dell’obbligo di realizzare il risultato cui il cliente aspira, bensì dell’obbligo di esercitare diligentemente la propria professione, che a quel risultato deve pur sempre essere finalizzata.
7.2.1. - Indagando a fondo struttura e funzione delle obbligazioni inerenti all’attività professionale, in tempi più recenti si è precisato (segnatamente: Cass. n. 28992/2019, in materia di professione sanitaria, ma con affermazioni di principio aventi valenza più generale, come, del resto, reso evidente da espressi richiami anche alla professione forense) che nelle anzidette obbligazioni (c.d. di ‘diligenza professionale’ o anche di ‘facere professionale’) occorre distinguere tra un interesse strumentale, affidato alla cura della prestazione oggetto di obbligazione (art. 1174 c.c.), e un interesse primario, o presupposto, del creditore. L’interesse strumentale è quello che connota la prestazione oggetto dell’obbligazione, ossia il rispetto delle leges artis nella cura dell’interesse del creditore. L’interesse primario o presupposto non è, invece, dedotto in obbligazione, ma è, però, intimamente connesso a quello strumentale “già sul piano della programmazione negoziale e dunque del motivo comune rilevante al livello della causa del contratto”. Nel caso dell’obbligazione di diligenza professionale dell’avvocato l’interesse primario del cliente/creditore è la “vittoria della causa”, così come nell’obbligazione del medico tale interesse è la “guarigione dalla malattia”; sicché, “(n)on c’è obbligazione di diligenza professionale del medico o dell’avvocato se non in vista, per entrambe le parti, del risultato della guarigione dalla malattia o della vittoria della causa”. Ne consegue che il “danno evento nelle obbligazioni di diligenza professionale riguarda … non l’interesse corrispondente alla prestazione ma l’interesse presupposto”, per cui l’inadempimento della prestazione dedotta in obbligazione comporterà certamente la lesione dell’interesse strumentale, ma non necessariamente di quello primario/presupposto, ponendosi, dunque, l’esigenza di dimostrare che la condotta contraria alle leges artis abbia determinato, eziologicamente, la lesione dell’interesse primario/presupposto e, dunque, il danno evento.
7.2.2. - È questa una ricostruzione che, sia pure con argomentare diverso, non si discosta, però, da quanto già affermato dalla consolidata giurisprudenza sopra richiamata. La responsabilità risarcitoria dell’avvocato non può, infatti, sussistere in ragione soltanto dell’inadempimento all’incarico professionale e, dunque, come conseguenza unicamente della lesione dell’interesse strumentale dedotto in obbligazione. L’inadempimento potrà certamente costituire il presupposto della domanda di restituzione del compenso che il cliente abbia corrisposto al professionista o per consentire al primo di opporsi utilmente alla richiesta in tal senso avanzata da quest’ultimo (avvalendosi dell’eccezione di cui all’art. 1460 c.c.: tra le altre, Cass. n. 22487/2004); e nel perimetro dell’inadempimento, e quindi della lesione dell’interesse strumentale, si collocherà senz’altro anche la condotta imperita/negligente dell’avvocato che abbia cagionato la perdita della possibilità di partecipare ad un giudizio. Tuttavia, ai fini del risarcimento del danno si rende necessaria, altresì, la prova del nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, e il risultato che ne è derivato, ovvero che si sia determinata, in termini di giudizio prognostico, la lesione dell’interesse primario del cliente stesso e cioè la mancata “vittoria della causa” o, in altri ma sovrapponibili termini, il mancato “riconoscimento delle proprie ragioni” nella sede giudiziaria. Diversamente, in assenza di quest’ultimo interesse – che è, in altri termini, l’interesse al c.d. “bene della vita” – non potrà esserci danno risarcibile. Non potrà, quindi, esserci danno risarcibile se si confonde l’interesse primario del cliente, che vale a connotare causalmente il contratto di patrocinio in giudizio concluso con l’avvocato, con quello alla “mera partecipazione” ad un giudizio, affatto sganciato dal “bene della vita” cui tende il giudizio stesso. Non è, infatti, la “mera partecipazione ad un giudizio” l’interesse tutelato dall’ordinamento, il quale è, invece, necessariamente finalizzato al “riconoscimento delle proprie ragioni”, ossia dei diritti/interessi legittimi per i quali soltanto è garantita dall’ordinamento il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.). Un orientamento teleologico, quello che viene ad assumere l’interesse creditorio primario, che collima, pertanto, con le stesse finalità dell’agire e/o resistere in giudizio. Del resto, per garantire il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale è predisposto un complesso apparato organizzativo (il c.d. ‘servizio giustizia’), con un costo per la collettività, la cui attivazione, impegnando una risorsa limitata, non può essere rimessa ad iniziative ‘meramente esplorative’, ‘dilatorie’ o, a maggior ragione, ‘emulative’, che non potrebbero, dunque essere sorrette da un interesse meritevole di tutela. E di ciò dà indiretta conferma, tra l’altro, la stessa disciplina sulla responsabilità aggravata nel giudizio civile (art. 96 c.p.c.), già nella sua originaria formulazione – che annetteva all’area dell’illecito l’agire o il resistere in giudizio (di cognizione o di esecuzione) con modalità comunque abusive (con “mala fede o colpa grave” o “senza normale prudenza”) –, ma ancor più in quella conseguente alla modifica recata dalla legge n. 69 del 2009, che ha introdotto un terzo comma in forza del quale il giudice, “in ogni caso”, può, anche d’ufficio, condannare il soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una “somma equitativamente determinata”. Disposizione, quest’ultima, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 152 del 2016, ha ritenuto di natura eminentemente sanzionatoria, “con finalità deflattive”, correlata alla “offesa arrecata alla giurisdizione, che deve manifestare e garantire la ragionevole durata di un giusto processo, in attuazione di un interesse di rango costituzionale intestato allo Stato”. Di qui, pertanto, la ratio di questa misura punitiva, volta a contrastare le condotte “di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume (già di per sé notoriamente eccessivo) del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti” (così ancora Corte cost., sent. n. 152/2016). La finalità di sanzionare l’abuso processuale che comporta uno “sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali” (tra le altre: Cass. n. 5725/2019) è stata, quindi, ulteriormente rafforzata dalla più recente riforma processuale, avendo la novella di cui al d.lgs. n. 149 del 2022 introdotto nell’art. 96 c.p.c. un quarto comma il quale prevede che, nei casi disciplinati dai commi che lo precedono, il giudice condanni la parte anche al pagamento di una sanzione pecuniaria da versarsi a favore della cassa delle ammende e tanto proprio “a compensazione del danno arrecato all’Amministrazione della giustizia per l’inutile impiego di risorse speso nella gestione del processo” (così la Relazione illustrativa al d.lgs. n. 149 del 2022).
7.3. – Dunque, la perdita della possibilità di una “mera partecipazione” ad un giudizio, nell’ipotesi di omessa impugnazione del provvedimento giudiziario sfavorevole, non vale ad integrare, di per sé, un danno risarcibile, poiché un tale danno, come detto, è configurabile soltanto ove sussista la lesione di un interesse tutelato dall’ordinamento, che, nel caso, va rinvenuto nell’interesse al “bene della vita” del cliente per il cui soddisfacimento è unicamente diretto l’adempimento dell’obbligazione di diligenza professionale forense e cioè (si ripete) l’interesse a “vincere la causa”, a vedersi riconosciute le “proprie ragioni” e, quindi, ad ottenere tutela dei propri diritti/interessi legittimi.
7.4. – In due pronunce meno recenti (Cass. n. 15759/2001 e Cass. n. 22026/2004) questa Corte ha anche affermato la risarcibilità del danno “della chance d’intraprendere o proseguire una lite in sede giudiziaria”. A tal fine si è detto che “la partecipazione ad una controversia in sede giudiziaria … anche del tutto indipendentemente dalle maggiori o minori possibilità d’esito favorevole della lite” offre “in ogni caso frequentemente occasione, tra l’altro, di transigere la vertenza o di procrastinarne la soluzione o di giovarsi di situazioni di fatto o di diritto sopravvenute, risultati che indiscutibilmente rappresentano, già di per sé stessi, apprezzabili vantaggi sotto il profilo economico”. Tuttavia, le citate decisioni hanno ritenuto che il danno potesse liquidarsi soltanto in base ad un “criterio prognostico basato sulle concrete ragionevoli possibilità di risultati utili”.
Si è, dunque, palesata, ancora una volta, la necessità che il diritto al risarcimento del danno sia ancorato alla sussistenza di un nesso eziologico tra la condotta inadempiente del professionista e il risultato che si sarebbe potuto ottenere in termini di vantaggio per la parte e in presenza di “concrete ragionevoli possibilità” di conseguirlo. Anche la recente Cass. n. 3824/2024, ma nel caso comunque singolare della perdita della possibilità di partecipare ad una gara per l’aggiudicazione di un immobile, ha reputato risarcibile un danno da perdita di chance, ossia da “possibilità perduta di realizzare il risultato”. E, tuttavia, la cassazione della decisione di merito è stata disposta dalla citata pronuncia perché la sentenza impugnata aveva ritenuto necessaria, ai fini dell’accoglimento della pretesa risarcitoria, la prova che si sarebbe potuta ottenere l’aggiudicazione non già in base ad un giudizio prognostico, ma “certamente”, là dove, invece, il rigetto di quella pretesa avrebbe potuto conseguire soltanto in presenza della dimostrazione che l’attore “non avrebbe avuto alcuna seria e concreta possibilità di rendersi aggiudicatario dell’immobile”. Occorrerà, quindi, che quei risultati vantaggiosi (una transazione, l’intervento di uno jus superveniens favorevole alla parte, etc.), quali possibilità ‘ragionevolmente concrete’ conseguibili nel corso di una lite (e della cui allegazione e prova si deve far carico l’attore che agisce per il risarcimento del danno; ciò che, nella specie, il ricorrente neppure deduce di aver fornito), si presentino come eventi suscettibili, in seno ad un giudizio, di rendere tutela ai diritti/interessi legittimi della parte stessa e tali, pertanto, da integrare l’interesse primario/presupposto alla cui soddisfazione è dedotta in contratto l’obbligazione di diligenza professionale dell’avvocato.
7.5. – Va, quindi, enunciato il seguente principio di diritto: “non costituisce un interesse giuridicamente tutelabile quello a proporre una impugnazione infondata; ne consegue che la tardiva proposizione, da parte dell’avvocato, di un appello privo di ragionevoli probabilità di accoglimento non costituisce per il cliente un danno risarcibile, e non fa sorgere per l’avvocato un obbligo risarcitorio, nemmeno sotto il profilo della perdita della chance della mera partecipazione al giudizio di impugnazione”.
8. – Il terzo e il quinto motivo – da scrutinare congiuntamente, in quanto deducono entrambi censure (sebbene genericamente prospettate) che investono la sentenza impugnata là dove ha escluso che l’omesso motivo di ricorso di cassazione avverso la pronuncia di appello n. 868/2002 sulla questione della nullità della scrittura privata di vendita immobiliare per indeterminatezza dell’oggetto, imputabile alla condotta professionale dell’avv. R., avesse una probabilità di successo – sono in parte infondati e in parte inammissibili. La Corte territoriale ha osservato, in armonia con l’orientamento di questa Corte (tra le molte, già Cass. n. 2951/1980; successivamente: Cass. n. 12506/2007; Cass. n. 17906/2008; Cass. n. 3925/2010), che l’accertamento relativo alla determinatezza o meno dell’oggetto di una compravendita immobiliare rientra nei compiti del giudice del merito, la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da corrette argomentazioni. Il giudice di appello ha, quindi, ritenuto che quello riservato al giudice di merito sulla determinatezza del contratto fosse un giudizio di fatto e, dunque, se scevro da “profili di incongruenza o vizi logici”, come era da reputarsi nel caso di specie, sarebbe risultato “incensurabile in Cassazione”, così da non potersi affermare che l’omesso motivo di ricorso avrebbe avuto probabilità di essere accolto e, quindi, cassata la sentenza allora impugnata.
Nella specie, dunque, la delibazione operata dal giudice della responsabilità professionale non ha riguardato un “giudizio di puro diritto”, da cui l’eventuale commissione di un error iuris denunciabile in questa sede di legittimità come vizio di sussunzione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. (Cass. n. 10320/2018), bensì una valutazione circa la congruenza della motivazione rispetto alla ricognizione dei fatti e alla tenuta del tessuto argomentativo della decisione presupposta. Ne consegue che, nel caso, trova applicazione il principio (Cass. n. 3355/2014) per cui, nelle cause di responsabilità professionale nei confronti degli avvocati, la valutazione prognostica compiuta dal giudice di merito circa il probabile esito dell’azione giudiziale malamente intrapresa o proseguita, sebbene abbia contenuto tecnico-giuridico, costituisce comunque valutazione di un fatto, censurabile in sede di legittimità, ratione temporis, soltanto come omesso esame di fatto decisivo e controverso, ai sensi della vigente formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., quale doglianza non affatto proposta dal ricorrente. E tanto senza considerare, in ogni caso, che il ricorrente stesso (pur depositandola nel fascicolo informatico del presente giudizio) ha richiamato solo genericamente il contenuto della sentenza di appello n. 868/2002, oggetto di valutazione della Corte territoriale con la decisione impugnata in questa sede; decisione il cui esito trova conforto proprio nel puntuale apprezzamento di fatto operato dal giudice di appello del giudizio presupposto (cfr. doc. 9, pp. 14/16), la cui motivazione è ancorata anche a planimetrie in atti e si sofferma pure sulla presenza dei fondi finitimi (il fondo “Caselle”).
9. – Il ricorso va, dunque, rigettato e il ricorrente condannato al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità
Non occorre provvedere alla regolamentazione di dette spese nei confronti della parte rimasta soltanto intimata.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.200,00, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza