Giu La giusta causa di licenziamento configura con una disposizione di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE LAVORO - ORDINANZA 22 agosto 2024 N. 23029
Massima
La giusta causa di licenziamento, quale fatto "che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", è una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale. (Cass. n. 5095/2011; Cass. n. 6498/2012)

Casus Decisus
1. In data 11.9.2018 l’A.R. spa intimava al dipendente C.C., già in servizio presso F.I. spa e successivamente transitato dall’1.6.2016 presso la suddetta società, licenziamento per giusta causa per essersi, il giorno 3 settembre 2018, recato nel fabbricato 2 con il solo scopo di dirigersi verso la scrivania di tale Antonella R., dipendente di F.I. spa, mentre la stessa stava avendo una conversazione con una collega, dandole gli auguri per il fidanzamento e subito dopo minacciandola di fare una brutta fine, insultandola ripetutamente con i termini in atti riportati e comunicandole che sarebbe andato presso l’Ufficio del personale per rappresentare la situazione; inoltre, per avere continuato ad insultare la R. mentre costei si avviava verso l’Ufficio del personale per rappresentare l’accaduto e per averla, in tale frangente, più volte spintonata in un paio di occasioni e minacciato di farla ritornare a Melfi, luogo di sua provenienza. 2. Impugnato il recesso, il Tribunale di Cassino in sede di opposizione ex lege n. 92 del 2012, confermava la già accertata illegittimità del licenziamento in fase sommaria, accordando, però la tutela prevista dall’art. 18 co. 5 legge n. 300 del 1970. Il primo giudice evidenziava che l’istruttoria non aveva confermato che il C.C. avesse posto in essere gesti violenti e lesivi dell’integrità fisica a danno della R. o di altri colleghi presenti in ufficio ovvero gesti causativi di disservizio all’azienda per cui, non essendo il diverbio stato seguito da vie di fatto, non si era concretizzata la fattispecie disciplinare, sanzionata con il licenziamento senza preavviso, di cui all’art. 33 lett. b) del CCSL e la condotta contestata, pur integrante gli estremi del diverbio litigioso e/o oltraggioso, non poneva in discussione l’esatto futuro adempimento della prestazione di lavoro e, quindi, la sanzione espulsiva irrogata difettava del requisito della proporzionalità, con conseguente tutela accordabile prevista dall’art. 18 co. 5 legge n. 300 del 1970. 3. La Corte di appello di Roma, con la sentenza n. 2724/2020, respingeva i reclami hic et inde proposti, ritenendo che: a) il fatto storico, contestato e dimostrato, integrava una aggressione verbale; b) la formulazione delle clausole contrattuali, disciplinanti le sanzioni disciplinari, dimostravano la volontà dei contraenti di punire, con il licenziamento senza preavviso, condotte integranti fatti di reato ovvero condotte comuni di disvalore massimo, mentre di correlare, con sanzioni conservative, condotte non costituenti reato ma che si ponevano come mere violazioni del CCNL o come violazione delle regole della comune convivenza lesive dell’aspetto sociale del luogo di lavoro, pregiudicando la morale, l’igiene o la sicurezza dello stabilimento o sede di lavoro; c) la condotta in esame si poneva in aperto contrasto con le norme comportamentali in quanto oltraggiosa e volgare secondo il comune sentire e rimproverabile a titolo di dolo; d) tale condotta non costituiva fatto reato né aveva determinato un pregiudizio per la società per cui non era ravvisabile la giusta causa di licenziamento, sia senza preavviso che con preavviso; e) il comportamento addebitato, non previsto direttamente da una infrazione tipizzata nel catalogo disciplinare, aveva un disvalore pari a quello delle infrazioni punite con sanzione conservativa del CCNL; f) corretta, pertanto, era la tutela accordata ex art. 18 co. 5 legge n. 300 del 1970. 4. Avverso la sentenza di secondo grado C.C. ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un motivo cui ha resistito con controricorso A.R. spa che ha presentato ricorso incidentale sulla base di due motivi. 5. La società ha depositato memoria. 6. Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc. 

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE LAVORO - ORDINANZA 22 agosto 2024 N. 23029 ESPOSITO LUCIA

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con l’unico articolato motivo il ricorrente principale denuncia la violazione dell’art. 7 legge n. 300 del 1970 e dell’art. 2016 (recte 2106) cc in relazione all’art. 18 legge n. 300 del 1970 nonché la violazione e/o falsa applicazione Sezione Ammonizioni scritte, multe e sospensioni di cui all’art. 33, lett. l) Contratto Collettivo Specifico di Lavoro del 7.7.2015 (ora art. 23 lett. o) CCSL dell’11.5.2019), per non avere ritenuto la Corte territoriale, nella fattispecie, applicabile la tutela reintegratoria in quanto la condotta contestata (ed accertata in sede giudiziale) era sussumibile in quella di diverbio senza passaggio alle vie di fatto per la quale l’art. 33 CCSL 2015 (ora art. 23 CCSL 2019) prevedeva una sanzione conservativa per ogni mancanza che portava pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene o alla sicurezza dello stabilimento/sede di lavoro e dei lavoratori ad esso addetti; conseguentemente, si obiettava che era improprio ogni riferimento alla proporzionalità della sanzione espulsiva.

3. Con il primo motivo del ricorso incidentale la società lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 cc nonché dell’art. 18 co. 5 legge n. 300 del 1970, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere la Corte di merito ritenuto, alla luce delle previsioni del contratto collettivo adottato dalla società resistente e sulla base della scala valoriale inserita dalle parti sociali a titolo esemplificativo, che il fatto ascritto al lavoratore -provato nella sua materialità e stante il suo manifesto rilievo disciplinare ed il suo obiettivo disvalore socialenon potesse essere ricondotto all’archetipo normativo della giusta causa di cui all’art. 2119 cc, quando in realtà il predetto fatto risultava assolutamente, da un lato, contrario alle regole di comune e civile convivenza esistenti nella realtà sociale e, dall’altro lato, riprovevole in considerazione dell’attuale coscienza sociale che condanna qualsiasi forma di violenza, anche verbale, nei confronti delle donne.

4. Con il secondo motivo, proposto in via subordinata, la ricorrente incidentale si duole della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3 legge n. 604/1966 nonché dell’art. 18 co. 5 della legge n. 300 del 1970, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere la Corte distrettuale ritenuto, alla luce delle previsioni del contratto collettivo adottato da essa Società e sulla base della scala valoriale inserita dalle parti sociali a titolo esemplificativo, che il fatto ascritto al lavoratore - provato nella sua materialità e stante il suo manifesto rilievo disciplinare ed il suo obiettivo disvalore sociale- non potesse ricondursi neppure all’ipotesi di giustificato motivo soggettivo di cui all’art. 3 legge n. 604/1966.

5. Per ragioni di pregiudizialità logico-giuridica, deve essere esaminato preliminarmente il ricorso incidentale.

6. Il primo motivo è infondato.

7. E’ opportuno ribadire il fondamentale principio affermato in sede di legittimità (per tutte, Cass. n. 5095/2011; Cass. n. 6498/2012) secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto "che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", è una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale.

8. Nella fattispecie, la Corte territoriale, pur dando atto che, sotto il profilo oggettivo, la condotta del C.C. si palesava oltraggiosa e volgare secondo il comune sentire e, con riguardo all’aspetto soggettivo, rimproverabile a titolo di dolo, tuttavia ha testualmente precisato che il comportamento: a) non integrava fatto di reato, essendo stato il reato di ingiuria depenalizzato né era stato contestato che da esso fosse derivato un grave nocumento agli interessi aziendali ; b) non aveva determinato la condanna del lavoratore per fatto reato generatore di discredito per la sua personalità morale né era espressione di recidiva, non essendo stata formulata -e poi provatauna conforme contestazione; c) aveva leso piuttosto la normalità ed il decoro dei rapporti interpersonali sul posto di lavoro.

9. La Corte di appello, pertanto, con un accertamento di fatto, adottato con motivazione esente dai vizi di cui all’art. 360 co. 1 n. 5 cpc nuova formulazione, ratione temporis applicabile, ha ritenuto che tale condotta, pur di rilievo disciplinare in quanto si era trattato di una aggressione verbale ingiuriosa, non costituisse giusta causa di licenziamento.

10. Non viene in rilievo un problema, quindi, di violazione del parametro normativo di cui all’art. 2119 cc e/o di contrarietà alle regole di comune e civile convivenza esistenti nella realtà sociale che condanna qualsiasi forma di violenza, anche verbale, nei confronti delle donne, perché la sentenza impugnata ha dato atto della rilevanza disciplinare della condotta, realizzata mediante l’utilizzo di termini ex se umilianti e dunque con modalità volte a creare scandalo ed attuata con premeditazione e perseveranza del lavoratore di offendere la collega ma, sulla base di un accertamento di merito (per mezzo del quale è stato ritenuto trattarsi di un comportamento non seguito da vie di fatto e che aveva leso unicamente la normalità ed il decoro dei rapporti interpersonali sul posto di lavoro) e di valutazioni giuridiche non contrarie a norme di legge (e cioè che la condotta non integrava fatti di reato né aveva determinato condanne in sede penale generatore di discredito per la personalità morale del lavoratore ovvero era espressione di recidiva), ha ritenuto che la stessa non si rivelasse incompatibile con il permanere del vincolo fiduciario che deve caratterizzare la relazione lavorativa.

11. Si verte, pertanto, in una valutazione sugli elementi di fatto che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni che, ponendosi sul piano del giudizio di fatto, non è sindacabile in sede di legittimità. 

12. Anche il secondo motivo del ricorso incidentale non è fondato.

13. La giusta causa e il giustificato motivo di licenziamento, come da costante orientamento affermato da questa Corte, costituiscono qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro.

14. Nella specie il giudice di appello ha giustificato la propria decisione di ritenere esclusa la possibilità che, nel caso di cui è processo, fosse applicabile la sanzione del licenziamento con preavviso (propria del giustificato motivo soggettivo) con motivazione esauriente, immune da vizi logici, di talché anche essa si sottrae ad ogni censura in sede di legittimità.

15. In particolare, la Corte distrettuale ha sottolineato che la suddetta sanzione, correlata appunto con la sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, era prevista dalla contrattazione collettiva per infrazioni alla disciplina o alla diligenza del lavoro oppure per chi compiva mancanza che, pur essendo di maggiore rilievo di quelle sanzionabili in via conservativa, non erano così gravi da determinare il licenziamento senza preavviso e che la condotta addebitata al C.C., secondo le previsioni appunto del contratto collettivo, non costituiva una infrazione suscettibile di essere sanzionata con il licenziamento con preavviso: il tutto in un contesto in cui la contrattazione collettiva considerava il licenziamento con preavviso quale sanzione di chiusura del sistema, correlandolo alle mancanze di gravità intermedia, o perché si trattava di fatti di reato non collegati alla prestazione o al luogo di lavoro (per es. rissa fuori dallo stabilimento, condanna per reati che incidono però sulla figura morale del lavoratore) oppure perché le condotte del lavoratore avevano superato la dimensione di mera occasionale mancanza, assurgendo a ipotesi di recidiva: tutti elementi che non sono stati, però, ravvisati nel caso concreto.

16. Venendo al ricorso principale, deve invece osservarsi che lo stesso è fondato. 

17. L’affermazione della Corte capitolina, in virtù della quale il fatto commesso aveva disvalore sociale pari a quello delle infrazioni punite dal contratto collettivo con sanzione conservativa e, quindi correttamente andava accordata la tutela prevista dall’art. 18 co. 5 legge n. 92 del 2012, non è in linea con il più recente orientamento di questa Suprema Corte (Cass. n. 11665/2022; Cass. n. 20780/2022) secondo cui, in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall'art. 18, commi 4 e 5, della l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l'illecito con sanzione conservativa, né detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo.

18. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso incidentale deve essere rigettato, mentre va accolto il ricorso principale.

19. La gravata sentenza deve essere cassata in relazione al motivo accolto e la causa va rinviata alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame tenendo conto del citato principio di diritto, ai fini di determinare la tutela applicabile e provvederà, altresì, alle determinazioni sulle spese anche del presente giudizio. 20. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso incidentale; accoglie il ricorso principale; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, l’11 giugno 2024