Giu La rilevazione e l'interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito, sicché non è deducibile la violazione dell'art. 112 c.p.c., quale errore ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., se motivata
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE - ORDINANZA 11 luglio 2024 N. 19070
Massima
La rilevazione e l'interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito, sicché non è deducibile la violazione dell'art. 112 c.p.c., quale errore procedurale rilevante ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., quando il predetto giudice abbia svolto una motivazione sul punto, dimostrando come la questione sia stata ricompresa tra quelle oggetto di decisione, attenendo, in tal caso, il dedotto errore al momento logico relativo all'accertamento in concreto della volontà della parte” (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 27181 del 22/09/2023, Rv. 668673; negli stessi termini anche Cass. Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 31546 del 03/12/2019, Rv. 656493, secondo la quale “… l'erronea interpretazione della domande e delle eccezioni non è censurabile ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., perché non pone in discussione il significato della norma ma la sua concreta applicazione operata dal giudice di merito, il cui apprezzamento, al pari di ogni altro giudizio di fatto, può essere esaminato in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione, ovviamente entro i limiti in cui tale sindacato è ancora consentito dal vigente art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c.”).

Casus Decisus
Con atto di citazione ritualmente notificato S. Vittorio, promissario acquirente di un immobile in R., giusta contratto preliminare del 26.3.2007, evocava in giudizio innanzi il Tribunale di Genova la propria diretta dante causa, V Giuseppina, nonché M. Orietta, che a sua volta aveva promesso di vendere l’immobile di cui è causa alla V con contratto preliminare dell’11.1.1991, invocando l’emissione di sentenza ex art. 2932 c.c. Con sentenza n. 1864/2013 il Tribunale rigettava la domanda costitutiva, ritenendo il cespite non trasferibile se non previa demolizione di una porzione non conforme alla normativa urbanistica, ma accertava l’inadempimento della V al preliminare del 26.3.2007 e la condannava a pagare al S. la somma di € 110.000, pari al doppio della caparra ricevuta alla firma del contratto. Avverso detta decisione veniva interposto appello dalla sola M., e la causa veniva definita con accordo transattivo, in virtù del quale il bene veniva trasferito in favore di S. Rosario, terzo rispetto alla lite. Con successivo atto di citazione, V Giuseppina evocava a sua volta in giudizio, innanzi il Tribunale di Genova, M. Orietta e S. Vittorio, invocando l’emissione di sentenza ex art. 2932 c.c. in relazione al primo contratto preliminare, dell’11.1.1991, nonché la condanna dei convenuti al risarcimento del danno e, in subordine, la revoca della transazione raggiunta tra di essi, a definizione del primo giudizio di cui anzidetto. Con sentenza n. 1916/2016 il Tribunale rigettava le domande principali della V, dichiarando invece inammissibile la subordinata. Con la sentenza impugnata, n. 381/2019, la Corte d’Appello riformava in parte la decisione di prime cure, condannando la M. a risarcire il danno cagionato alla V, quantificato nella stessa somma che quest’ultima era stata costretta a pagare al S. per effetto della sentenza del Tribunale di Genova n. 1864/2013. Ad avviso della Corte di Appello, infatti, l’immobile oggetto del preliminare del 2007 aveva la medesima consistenza e le stesse caratteristiche che esso presentava nel 1991, all’epoca del primo contratto preliminare, e quindi il danno derivante, a carico della V, dall’accertamento del legittimo esercizio del diritto di recesso da parte del S. dal compromesso del 2007, a cagione della natura abusiva del cespite, doveva essere imputato alla M., promittente venditrice in occasione del precedente preliminare del 1991. Propone ricorso per la cassazione di tale pronuncia M. Orietta, affidandosi a cinque motivi. Nessuno dei due intimati ha svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità. 

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE - ORDINANZA 11 luglio 2024 N. 19070 DI VIRGILIO ROSA MARIA

Con il primo motivo, la parte ricorrente denunzia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe liquidato in favore della V un danno diverso rispetto a quello del quale la stessa aveva invocato il risarcimento.

Con il secondo motivo, lamenta invece la violazione o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe omesso di considerare che la domanda risarcitoria era stata abbandonata dalla V, in quanto non riproposta nella memoria di cui all’art. 183, sesto comma, n. 1, c.p.c.

Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 132, 116, 163, 342 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c. e 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe accolto un motivo di gravame privo di una parte argomentativa alternativa alla decisione di prime cure, non idoneo ai fini dell’individuazione delle ragioni di diritto poste a base dell’impugnazione e del contenuto della censura.

Con il quarto motivo, la M. si duole altresì della violazione o falsa applicazione degli artt. 163, 164 e 342 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., perché la Corte territoriale avrebbe erroneamente accolto la domanda risarcitoria proposta dalla V, senza considerare che la stessa era stata formulata in termini del tutto generici, senza alcuna indicazione della ragione del danno lamentato. Le quattro censure, suscettibili di esame congiunto perché attingono tutte, sotto diversi profili, la statuizione con la quale è stata accolta la domanda risarcitoria proposta dalla V nei confronti della M., sono infondate.

La Corte di Appello ha rilevato che nel primo giudizio, proposto dal S. contro la V e la M., la seconda non avesse proposto alcuna domanda risarcitoria nei confronti della terza, ed ha quindi escluso la configurabilità di un giudicato esterno (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata), che peraltro la parte ricorrente neppure invoca con le doglianze in esame. La Corte distrettuale ha altresì ritenuto che il cespite oggetto dei due preliminari, rispettivamente dell’11.1.1991 e del 26.3.2007, era rimasto invariato, e che dunque la sua condizione di intrasferibilità, in quanto abusivo, che era stata accertata dalla sentenza n. 1864/2013 del Tribunale di Genova, sussistesse già alla data del primo compromesso di vendita (cfr. pagg. 3 e 4 della sentenza).

Pertanto la Corte genovese ha considerato la M. a sua volta inadempiente al preliminare di vendita del 1991, per aver promesso di trasferire alla V un immobile abusivo, e dunque Corte di Cassazione - copia non ufficiale 5 di 9 la ha condannata al risarcimento del danno cagionato alla seconda, che è stato liquidato nella stessa misura che, a fronte della sentenza n. 1864/2013, la V era stata condannata a pagare al S..

Con le censure in esame, la M. si duole in sostanza della genericità della domanda risarcitoria spiegata dalla V nel giudizio di merito definito con la sentenza oggi impugnata, lamentando che la stessa aveva chiesto di essere indennizzata del pregiudizio sofferto, facendo tuttavia riferimento soltanto alla progettata vendita del 1991, e non anche alle vicende derivanti dal successivo preliminare del 2007. Inoltre, la ricorrente denunzia la circostanza che la domanda in esame sarebbe stata abbandonata dalla V, che non l’ avrebbe riproposta con le proprie memorie ex art. 183, sesto comma, n. 1, c.p.c. In realtà, la stessa prospettazione di parte ricorrente evidenzia che la domanda risarcitoria sulla quale il giudice di appello si è pronunciato era stata proposta in prime cure.

Sul punto, le conclusioni spiegate in prime cure dalla V sono riprodotte a pag. 7 della sentenza impugnata, in nota, ed esse includono sia la domanda principale ex art. 2932 c.c. e di risarcimento del danno, sia quella subordinata di revoca della transazione raggiunta tra M. e S. Rosario. Né è controverso che essa fosse stata riproposta con il terzo motivo di impugnazione, che la Corte di Appello ha accolto: a pag. 6 della sentenza impugnata, infatti, si evidenzia proprio che “Con il terzo motivo, l’appellante lamenta che il Tribunale non si sarebbe pronunciato sulle domande risarcitorie formulate nei confronti dei signori M. e S., sia per l’inadempimento contrattuale, sia per il pregiudizio arrecato alle ragioni della signora V dalla transazione”.

L’asserita genericità della richiesta risarcitoria, d’altro canto, non costituisce argomento decisivo, posto che la domanda risarcitoria accede necessariamente ad un fatto, che nella fattispecie è chiaramente rappresentato dall’inadempimento della M. al contratto preliminare del 1991; evento, quest’ultimo, sul quale era fondata l’azione proposta dalla V. La Corte di Appello, con accertamento in punto di fatto non utilmente censurabile in questa sede, e peraltro neppure attinto in modo specifico dalle doglianze in esame, ha ritenuto che il cespite oggetto dei due contratti preliminari di cui è causa (del 1991 e del 2007) fosse identico, e dunque che la sua natura abusiva, definitivamente acclarata in relazione al secondo negozio giusta la sentenza del Tribunale di Genova n. 1864/2013, preesistesse anche nel 1991.

Di conseguenza, il giudice di seconda istanza ha ravvisato la sussistenza dell’inadempimento della M. al primo dei due contratti preliminari, per aver promesso di vendere alla V un bene che, poiché abusivo, non poteva essere trasferito. Sotto il profilo del quantum, poi, il giudice di merito ha ritenuto che le conseguenze dannose dell’inadempimento, da parte della M., alla promessa di vendita del 1991 coincidessero con quanto la V era stata costretta a pagare a fronte del suo ravvisato inadempimento alla seconda scrittura del 2007, ed ha quindi condannato l’odierna ricorrente a corrispondere alla V la stessa somma che costei aveva dovuto versare al proprio promissario acquirente, S.. Nell’attingere tale articolata statuizione, la M. non contesta il fatto che il bene compromesso in vendita nel 2007 coincidesse con quello oggetto del preliminare del 1991 –elemento, questo, che costituisce il fondamento del ragionamento seguito dal giudice di appello– e non valorizza la circostanza –in sé rilevante– che, a seguito della transazione con la quale si era concluso il giudizio di appello avverso la prima sentenza del Tribunale, n. 1864/2013, il cespite era stato trasferito in proprietà a S. Rosario, terzo rispetto a quella prima controversia.

Le censure oggetto di esame, dunque non si confrontano adeguatamente con la ratio della decisione impugnata e finiscono per risolversi nell’invocazione di una diversa interpretazione della domanda risarcitoria proposta dalla V. In relazione a quest’ultimo profilo, merita di essere ribadito il principio secondo cui “La rilevazione e l'interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito, sicché non è deducibile la violazione dell'art. 112 c.p.c., quale errore procedurale rilevante ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., quando il predetto giudice abbia svolto una motivazione sul punto, dimostrando come la questione sia stata ricompresa tra quelle oggetto di decisione, attenendo, in tal caso, il dedotto errore al momento logico relativo all'accertamento in concreto della volontà della parte” (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 27181 del 22/09/2023, Rv. 668673; negli stessi termini anche Cass. Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 31546 del 03/12/2019, Rv. 656493, secondo la quale “… l'erronea interpretazione della domande e delle eccezioni non è censurabile ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., perché non pone in discussione il significato della norma ma la sua concreta applicazione operata dal giudice di merito, il cui apprezzamento, al pari di ogni altro giudizio di fatto, può essere esaminato in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione, ovviamente entro i limiti in cui tale sindacato è ancora consentito dal vigente art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c.”).

Nel caso di specie, la Corte di Appello ha interpretato la domanda proposta dalla V, collegando in ultima analisi la richiesta risarcitoria alla complessiva vicenda negoziale intercorsa tra le parti e motivando adeguatamente in relazione al proprio convincimento.

Peraltro, va anche ribadito che “L'interpretazione della domanda deve essere diretta a cogliere, al di là delle espressioni letterali utilizzate, il contenuto sostanziale della stessa, desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dallo scopo pratico perseguito dall'istante con il ricorso all'autorità giudiziaria” (Cass. Sez. U, Corte di Cassazione - copia non ufficiale 8 di 9 Sentenza n. 3041 del 13/02/2007, Rv. 594291) e che tale operazione ermeneutica, riservata al giudice di merito, è sindacabile in Cassazione soltanto quando essa ridondi in un vizio di nullità processuale, o comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, o infine quando si traduca in un errore che coinvolge la qualificazione giuridica dei fatti allegati nell'atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo (cfr. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 11103 del 10/06/2020, Rv. 658078), dovendosi invece, in ogni altro caso, ritenere che la censura relativa all’interpretazione della domanda attinga essenzialmente un accertamento di merito.

Con il quinto motivo, infine, la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente condannato la M. alle spese di lite. La censura è inammissibile, nella parte in cui con essa non si contesta la statuizione in concreto adottata dalla Corte di Appello, ma si invoca un differente governo delle spese in relazione all’auspicato accoglimento del ricorso.

E’ invece infondata nella restante parte, con cui si contesta l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte distrettuale, nel non ravvisare una soccombenza parziale, pur avendo accolto soltanto uno dei motivi di appello proposti dalla V. Sul punto, va evidenziato che il giudice di seconde cure ha correttamente regolato le spese del doppio grado di merito in applicazione del principio generale della soccombenza, condannando, da un lato, la V alle spese del grado in favore del S., nei cui confronti la prima era risultata soccombente in appello, e disciplinando invece, dall’altro lato, le spese relative al rapporto processuale tra la V e la M. alla luce dell’accoglimento del terzo motivo di gravame, con condanna della seconda alla refusione, in favore della prima, delle spese del doppio grado di giudizio.

La statuizione è coerente con i principi enunciati da questa Corte, secondo cui il governo delle spese del giudizio, quando il giudice di seconde cure riforma in tutto o in parte la sentenza di primo grado, va operato tenendo conto dell’esito complessivo del giudizio, anche a prescindere dall’esistenza di uno specifico motivo di impugnazione (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 9064 del 12/04/2018, Rv. 648466). In definitiva, il ricorso va rigettato. Nulla per le spese, in assenza di svolgimento di attività difensiva da parte intimata nel presente giudizio di legittimità. Stante il tenore della pronuncia, va dato atto –ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002– della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile