di legittimità del provvedimento impugnato e sconfinando nella sfera del merito, istituzionalmente riservato alla pubblica amministrazione, abbia compiuto una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e della convenienza dell’atto ovvero quando la decisione finale esprima la volontà del giudicante di sostituirsi a quella dell’amministrazione
(Cass., Sez. Un., 13 maggio 2020, n. 8846; Cass., Sez. Un., 18 febbraio 2022, n. 5365).
1. – Con l’unico motivo di ricorso, il Comune di Casalnuovo di Napoli denuncia il travalicamento, da parte del Consiglio di Stato, dei confini del potere giurisdizionale nella sfera di attribuzioni che la legge riserva alla P.A. Richiamate le norme di legge che attribuiscono all’amministrazione comunale l’istruttoria, la valutazione ed il rilascio dei titoli abilitativi edilizi, anche in sanatoria (artt. 5, 13, 32 e 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 e artt. 1 e 4 della legge n. 10 del 1977), il ricorrente sostiene che il giudice amministrativo sarebbe incorso in eccesso di potere giurisdizionale per avere “frazionato” l’unica concessione rilasciata dal Comune e legittimante il complessivo intervento edilizio, e avere escluso l’unitarietà della pratica, senza considerare che il titolo era stato in realtà concesso in base al rapporto tra volumetria e parcheggi e tenendo conto dell’intero complesso edificatorio. A fronte di un unico titolo edificatorio cointestato, e mai frazionato dal Comune nelle tipiche forme previste dalla legge, tutti i suoi contitolari, ad avviso del ricorrente, dovevano indistintamente ritenersi tenuti ad eseguire i manufatti assentiti, compresi gli standard a parcheggi, in conformità ai grafici e alle norme tecniche. Il giudice della revocazione – osserva il ricorrente – non poteva spingersi nello spazio riservato all’amministrazione comunale, alla quale soltanto competeva il rilascio di due distinti ed autonomi titoli edilizi. Ad avviso del Comune, il Consiglio di Stato avrebbe proceduto ad una rimodulazione del contenuto di merito dell’unico titolo edilizio.
2. – Il motivo è inammissibile.
3. – Il ricorso alla Corte di cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato è ammesso soltanto per denunciare la violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa.
L’impugnazione è possibile, tra l’altro, quando il Consiglio di Stato affermi o eserciti la propria giurisdizione nella sfera riservata all’amministrazione, configurandosi, in tal caso, una invasione o uno sconfinamento. Il ricorso per motivi di giurisdizione mira, in tal caso, a salvaguardare il principio della separazione dei poteri, che non tollera invasioni di campo del potere giudiziario negli ambiti propri del potere esecutivo. Tuttavia, in tanto l’invasione della funzione amministrativa è configurabile, in quanto il Consiglio di Stato, eccedendo i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato e sconfinando nella sfera del merito, istituzionalmente riservato alla pubblica amministrazione, abbia compiuto una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e della convenienza dell’atto ovvero quando la decisione finale esprima la volontà del giudicante di sostituirsi a quella dell’amministrazione (Cass., Sez. Un., 13 maggio 2020, n. 8846; Cass., Sez. Un., 18 febbraio 2022, n. 5365).
4. – Nella specie, non è ipotizzabile il denunciato eccesso da sconfinamento nelle valutazioni di competenza della pubblica amministrazione.
4.1. – Il Consiglio di Stato, difatti, nel rilevare l’errore di fatto che lo ha condotto a revocare la sentenza pronunciata in grado di appello, non si è sostituito o ingerito nei poteri discrezionali del Comune nel procedimento di rilascio dei titoli edilizi attraverso la trasformazione dell’unico titolo abilitativo in due concessioni distinte ed autosufficienti, in favore, l’una, dell’ente ecclesiastico (l’A.), l’altra, della società per azioni (la D. costruzioni) alla quale il titolo era stato, in parte, volturato. Il giudice amministrativo, rimanendo nell’ambito dei suoi poteri giurisdizionali, si è limitato a riscontrare in concreto la sussistenza dei presupposti del rimedio revocatorio per errore di fatto risultante dagli atti e dai documenti della causa. L’errore di fatto che la sentenza in questa sede impugnata ritiene sussistente consiste nell’avere, il giudice dell’appello, considerato che i parcheggi previsti dalla originaria concessione fossero soltanto le due autorimesse interrate (sotto i fabbricati di “tipologia 2”), laddove, invece, il progetto approvato contemplava due distinte tipologie di parcheggi, interrati, al servizio degli edifici di “tipologia 2”, e, in superficie, al servizio dell’edificio di “tipologia 1”. In particolare, secondo la ricostruzione del giudice a quo, dalla documentazione prodotta nel giudizio di primo grado risultava che nella originaria concessione era stato previsto, quanto al fabbricato dell’A., esclusivamente il parcheggio a raso, effettivamente realizzato, sebbene in posizione diversa, mentre la società D., in corso di realizzazione delle distinte proprietà, non avendo costruito i previsti compartimenti interrati, aveva destinato a parcheggi le aree scoperte all’interno del comprensorio. L’esclusione della unitarietà della pratica edilizia non discende dall’esercizio, da parte del giudice della revocazione, di un potere di amministrazione attiva proteso a rimodulare, o a diversamente conformare, il contenuto di merito del titolo concessorio, ma si riconnette allo svolgimento di un potere, tutto ed esclusivamente giurisdizionale, di qualificazione della vicenda amministrativa relativa ai provvedimenti concernenti lo ius edificandi e la sanatoria per le difformità riscontrate. Difatti, il Consiglio di Stato, conservando sempre il ruolo e indossando esclusivamente la veste del giudice di legittimità, ha considerato, senza abbandonarsi a valutazioni di opportunità o di merito amministrativo, che l’originario titolo aveva assentito un intervento localizzato in diverse particelle, con la previsione di due differenti tipologie di immobili (sei edifici di “tipologia 2” e un unico edificio di “tipologia 1” che, quanto ai parcheggi, risultava autosufficiente, essendo previsti parcheggi a raso nell’area di pertinenza); ha, inoltre rilevato che, con la voltura, si era avuta la separazione delle pratiche. Sotto quest’ultimo profilo, il giudice della revocazione ha osservato che, se si fosse trattato di un progetto unitario, il Comune non avrebbe potuto rilasciare la concessione in sanatoria ai soli proprietari degli edifici di “tipologia 2”, senza prevedere la regolarizzazione dei presunti abusi realizzati nell’edificazione della particella n. 346. Così raggiunto il convincimento sulla sussistenza dell’errore di fatto, per il mancato esame e per l’omessa valutazione della documentazione comprovante la non unitarieità della pratica edilizia, deve escludersi il denunciato sconfinamento nella sfera del merito, e quindi della discrezionalità e dell’opportunità dell’azione amministrativa. Il giudice amministrativo non si è spinto oltre i limiti del sindacato di legittimità ad esso demandato e non ha svolto nessun controllo sulla convenienza e sull’opportunità dei provvedimenti impugnati. Gli addebiti di travalicamento che il ricorrente muove alla sentenza impugnata si collocano, tutti, nell’ambito dei limiti interni della giurisdizione del giudice amministrativo, integrando, al più, errores in iudicando, non sindacabili dalle Sezioni Unite.
4.2. – Conclusivamente, il motivo di ricorso è inammissibile, perché prospetta il superamento dei limiti esterni della giurisdizione, in conseguenza di asseriti errores in iudicando, incensurabili dinanzi alle Sezioni Unite, con riguardo al riscontro in concreto dell’errore di fatto, e alla sua qualificazione come errore revocatorio, in relazione al mancato esame della documentazione di causa, dalla quale si evinceva (circostanza decisiva ai fini della valutazione della legittimità degli atti impugnati) che la pratica di concessione edilizia per la realizzazione di parcheggi non era unitaria.
5. – Il ricorso è, dunque, inammissibile.
Il ricorrente deve essere condannato alla rifusione delle spese in favore dell’A. controricorrente, nella misura liquidata in dispositivo.
6. – Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, ricorrono i presupposti processuali per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
7. – La decisione da parte del Collegio è conforme alla proposta di definizione accelerata formulata ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ. La conformità è integrale: riguarda non solo l’esito del ricorso, inteso come dispositivo o formula terminativa della deliberazione, ma anche le ragioni che tale esito sostengono. Anche nella proposta di definizione accelerata della Prima Presidente, infatti, l’inammissibilità del ricorso è prefigurata sul rilievo che il motivo di ricorso prospetta asseriti profili di eccesso di potere giurisdizionale che, al più, integrano errores che si pongono al di fuori del perimento del sindacato delle Sezioni Unite.
8. – Avendo la Corte definito il giudizio in conformità alla proposta ex art. 380-bis cod. proc. civ., trova applicazione la previsione di cui all’art. 96, terzo e quarto comma, cod. proc. civ., come testualmente previsto dal citato art. 380-bis, ultimo comma ("Se entro il termine indicato al secondo comma la parte chiede la decisione, la Corte procede ai sensi dell'articolo 380-bis.1 e quando definisce il giudizio in conformità alla proposta applica l'articolo 96, terzo e quarto comma"). L'art. 96, terzo comma, a sua volta, così dispone: "In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata". Il quarto comma aggiunge: "Nei casi previsti dal primo, secondo e terzo comma, il giudice condanna altresì la parte al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000". Trattasi di una novità normativa che contiene, nei casi di conformità tra proposta e decisione finale, una valutazione legale tipica, ad opera del legislatore delegato, della sussistenza dei presupposti per la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata a favore della controparte (art. 96, terzo comma) e di una ulteriore somma di denaro, non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000 (art. 96, quarto comma, ove, appunto, il legislatore usa la locuzione "altresì"). In tal modo, risulta codificata un’ipotesi di abuso del processo, peraltro già immanente nel sistema processuale (da iscrivere nel generale istituto del divieto di lite temeraria nel sistema processuale). Non attenersi ad una valutazione del presidente che poi trovi conferma nella decisione finale lascia certamente presumere una responsabilità aggravata. Se pure va esclusa una interpretazione della norma che conduca ad automatismi non compatibili con una lettura costituzionalmente compatibile del nuovo istituto, dovendo l’applicazione, in concreto, delle predette sanzioni rimanere affidata alla valutazione delle caratteristiche del caso di specie (Cass., Sez. Un., 8 gennaio 2024, n. 566), nondimeno, nell’ipotesi in esame, non si rinvengono ragioni per discostarsi dalla suddetta previsione legale. Sulla scorta di quanto esposto, ed in assenza di indici che possano far propendere per una diversa applicazione della norma, la parte rIcorrente va condannata al pagamento della somma di euro 4.000 (valutata equitativamente) in favore della controricorrente e di una ulteriore somma di euro 2.000 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il Comune ricorrente al pagamento, in favore dell’A. controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.000 per compensi, oltre euro 200 per esborsi, spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Condanna il ricorrente al pagamento della somma di euro 4.000 in favore della controricorrente e di una ulteriore somma di euro 2.000 in favore della Cassa delle ammende.
Dichiara che ricorrono i presupposti processuali per dare atto della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 23 aprile 2024.