1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 112 c.p.c. Nullità della sentenza impugnata per vizio di extrapetizione, in relazione all’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c. Lamenta il ricorrente che la Corte d’Appello si è pronunciata su un’eccezione di prescrizione che il Ministero appellato non aveva, tuttavia, riproposto in appello, ex art. 346 cod. proc. civ., né aveva proposto appello incidentale sul punto. Infatti, l’Amministrazione, nella propria comparsa di costituzione dell’11.6.2014, aveva genericamente dedotto la “intervenuta prescrizione dei diritti soggettivi derivanti dalla pretesa indennitaria (ad eccezione della Legge 137/2001), senza che fosse formalmente sollevata l’eccezione nelle conclusioni, con la conseguenza che il giudice d’appello non avrebbe potuto pronunciarsi senza incorrere nel vizio di extrapetizione.
2. Il motivo è infondato.
Va osservato che questa Corte (vedi Cass. n 9104/2019, pag. 4 , non massimata), in un caso analogo in cui l’appellato aveva reiterato expressis verbis, nelle conclusioni dell’atto di costituzione, l’eccezione di prescrizione comunque sollevata nella stessa comparsa, ha condivisibilmente evidenziato che, “da un lato, che l'eccezione di prescrizione è un'eccezione di merito incidente in funzione estintiva sul fondamento della domanda, di modo che, concludendosi per il rigetto di essa, la chiesta pronuncia di rigetto non poteva non presupporre anche l'esame di detta eccezione; dall'altro, che il contenuto degli atti difensivi, sulla falsariga di un principio enunciato esplicitamente per la domanda, non va determinato solo in base alle conclusioni formalmente rassegnate, ma in base al tenore complessivo dell'atto, onde, avendo eccepito il committente, come riferisce lo stesso impugnante, in comparsa di costituzione «la prescrizione dei pretesi diritti azionati dal Consorzio attore», non è dubitabile, pur in disparte da quanto innanzi osservato, che, chiedendo conclusivamente il rigetto della domanda, il convenuto avesse inteso sollecitare la pronuncia del decidente anche in ordine alla sua prescrizione….”. Nel caso di specie, lo stesso ricorrente ha dato atto che nella comparsa di costituzione dell’11.6.2014 il Ministero aveva eccepito la prescrizione dei diritti soggettivi derivanti dalla pregressa normativa indennitaria (ad eccezione della legge 137/2001), con la conseguente che la conclusione dallo stesso formulata di rigetto dell’appello era pienamente coerente con tale eccezione, a nulla rilevando che la stessa eccezione non sia stata reiterata nelle conclusioni della comparsa di costituzione.
3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 della Legge 29 marzo 2001 n. 137 e degli articoli 2943, 2944 e 2946 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c.
Lamenta il ricorrente che la Corte d’Appello ha errato nel ritenere prescritto il suo diritto all’integrale indennizzo. Rileva che, diversamente da quanto sostenuto dalla Corte d’Appello, la L. 137/2001 non ha previsto alcun distinto ed autonomo diritto rispetto a quello previsto dalla normativa indennitaria previgente, bensì unicamente nuovi criteri di valutazione ed importi ulteriori. Di conseguenza il sig. T., con l’atto di citazione del 23 luglio 2010, ha introdotto il giudizio ben prima che si compisse il termine decennale dall’entrata in vigore della legge 137 del 2001, con la conseguenza che non potevano ritenersi prescritti i diritti azionati. Inoltre, la Corte d’Appello ha errato laddove, in violazione dell’art. 2943 c.c., ha ritenuto la domanda di indennizzo presentata al Ministero in sede amministrativa nel 2004 non idonea ad interrompere la prescrizione, trattandosi di mera richiesta endoprocedimentale di revisione della stima successiva alla domanda introduttiva del procedimento amministrativo e, in quanto tale, non idonea ad integrare la costituzione in mora della P.A. Il ricorrente, inoltre, insiste affinché venga sollevata questione di legittimità costituzionale delle leggi n. 135/1985, n. 98/1994 e n. 137/2001 per violazione degli artt. 3, 10, 42 e 117 Cost. In particolare, il ricorrente deduce che la L. 137/2001, per un verso ha fissato dei coefficienti di rivalutazione per la liquidazione degli indennizzi inversamente proporzionali al valore del bene al 1938 (coefficienti più bassi per valori maggiori), per altro verso ha stabilito un ordine nella liquidazione degli indennizzi dando priorità allo scaglione di valore del bene più basso, con ciò determinando una irragionevole sperequazione tra soggetti colpiti dagli stessi eventi e per la perdita di beni omogenei, cui era seguita l’insorgenza di un diritto soggettivo perfetto all’integrale indennizzo.
4. Il motivo è infondato.
Va osservato che il ricorrente fonda la sua censura di erroneità della statuizione della Corte d’Appello - nella parte in cui ha ritenuto prescritti i diritti soggettivi derivanti dalla pregressa normativa indennitaria, ad eccezione della legge 137/2001 - sul rilievo che l’ulteriore indennizzo previsto da quest’ultima normativa non costituirebbe un diritto nuovo e diverso da quello delle leggi precedenti. Tale affermazione si pone in netto contrasto con l’orientamento consolidato di questa Corte (cfr. Cass. n. 19649/2015; conf. Cass. n. 4923/2003 e , recentemente, Cass. n. 3796/2019) secondo cui la legge n. 137 del 2001, agli artt. 1, 2 e 3, ha riconosciuto ai titolari di beni, diritti e interessi abbandonati nei territori italiani ceduti alla ex Jugoslavia, in base al trattato di pace del 10.2.1947 e dell'accordo di Osimo del 10.11.1975, un indennizzo ulteriore rispetto a quello di cui alle leggi n. 135 del 1985 e n. 98 del 1994, che forma oggetto di un autonomo e distinto diritto, per la soddisfazione del quale è prevista una fase obbligatoria di liquidazione in via amministrativa (art. 2 e 3). Peraltro, questa Corte, nell’ordinanza n. 9204/2023, ha recentemente enunciato il principio di diritto secondo cui non è invece idonea alla costituzione in mora dell’amministrazione la domanda amministrativa di concessione dell'indennizzo, alla quale può attribuirsi solo la valenza di impulso del procedimento amministrativo di liquidazione, fino alla conclusione del quale, peraltro, non vi è certezza in ordine all'esistenza ed all'ammontare del debito.
Infine, sono destituite di fondamento le censure con le quali il ricorrente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale delle leggi n. 135/1985, n. 98/1994 e n. 137/2001 nella parte in cui non riconoscono ai proprietari dei beni siti nei territori della ex Jugoslavia il diritto all’integrale indennizzo.
Va osservato che questa Corte (vedi Cass. S.U. n. 8055/2014, vedi anche Cass. n. 19649/2015) ha più volte enunciato il principio di diritto – cui questo Collegio intende dare continuità - secondo cui “…il diritto all'indennizzo previsto in favore dei cittadini italiani per i beni, ad essi appartenuti, situati nei territori ceduti alla Jugoslavia in base al Trattato di pace del 10 febbraio 1947, ed ivi sottoposti, dal Governo jugoslavo, a misure di nazionalizzazione o di esproprio, integra certamente un diritto soggettivo della parte nei confronti della pubblica amministrazione, come è stato costantemente riconosciuto da queste Sezioni Unite (da ultimo, sentenza 18 novembre 1997, n. 11436); ma ciò, se esclude la discrezionalità della pubblica amministrazione nella liquidazione dell'indennizzo, non limita le scelte del legislatore ordinario nella determinazione della misura dello stesso, trattandosi di intervento ispirato a criteri di solidarietà della comunità nazionale, non collegato ad un obbligo di natura risarcitoria per un fatto illecito, imputabile allo Stato italiano, preesistente alla legge speciale (Sez. 1, 1 aprile 2003, n. 4923; Sez. 1, 7 giugno 2007, n. 13359). Il diritto all'indennizzo per la perdita di quei beni, in altri termini, trova nella legge, unitamente alla sua fonte, i suoi limiti: come tale, esso non è indipendente dall'intervento "costitutivo" del legislatore nell'esercizio dei suoi poteri di apprezzamento della misura e delle modalità di erogazione delle provvidenze, nonché della loro gradualità, in relazione a tutti gli elementi di natura costituzionale in gioco, compresi quelli finanziari, la cui ponderazione rientra nell'ambito della discrezionalità del Parlamento, salvo il principio della parità di trattamento e l'obbligo di tener conto degli importi versati, a seguito di accordi internazionali, dallo Stato jugoslavo al Governo italiano per effetto di quelle espropriazioni. Ne consegue che la pretesa dei ricorrenti di vedersi riconoscere dallo Stato italiano, per l'espropriazione da parte del Governo jugoslavo dei beni situati nei territori ceduti a seguito del Trattato di pace conseguente agli eventi bellici del secondo conflitto mondiale, un indennizzo pieno, ancorato al valore venale attualizzato di quei beni, o un risarcimento del danno, anche di natura non patrimoniale, non trova fondamento nel testo della normativa di settore.
2.4. - Nè viene in gioco, a carico dello Stato italiano, la garanzia, prevista dall'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia A dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che l'importo dell'indennizzo accordato per la privazione della proprietà sia ragionevolmente in rapporto con il valore del bene. Poiché la privazione dei beni dei cittadini italiani si è verificata ad opera di uno Stato straniero (la Jugoslavia), al quale il territorio sui cui essi si trovavano è stato ceduto dall'Italia, soccombente nel conflitto bellico, a seguito della firma del Trattato internazionale di pace, l'assicurazione della pienezza dei diritti patrimoniali degli istanti non può essere richiesta allo Stato italiano, che delle violazioni di quei diritti non è l'autore, essendo la presente vicenda diversa da quella su cui la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo si è pronunciata, il 22 giugno 2004, nel caso Broniowski c. Polonia, riguardante la frontiera orientale della Polonia ed i beni al di là Bug, nel quale gli "accordi delle Repubbliche" (conclusi tra i Comitati polacchi di liberazione nazionale e le vecchie Repubbliche socialiste sovietiche di Ucraina, del Belarus e di Lituania) avvennero nel contesto di un differente esito bellico e con l'assunzione, da parte dello Stato polacco, di una specifica obbligazione di risarcimento nei confronti dei propri cittadini….”. Dunque, proprio perché non può riconoscersi, per le sopra evidenziate considerazioni delle Sezioni Unite di questa Corte, il diritto soggettivo ad indennizzo pieno, ancorato al valore venale attualizzato di beni siti nei territori della ex Jugoslavia, non fondato è il rilievo che il legislatore della L. n. 137/2001, nel riconoscere coefficienti di rivalutazione inversamente proporzionali al valore del bene al 1938, sarebbe incorso nella violazione del principio di parità di trattamento. Come detto, tutti gli interventi del legislatore in questa materia sono stati ispirati a criteri di solidarietà della comunità nazionale, e non sono stati collegati ad un obbligo di natura risarcitoria per un fatto illecito, imputabile allo Stato italiano, preesistente alla legge speciale, Ne consegue che il riconoscimento di un coefficiente di rivalutazione più alto per titolari di beni di valore più modesto si giustifica proprio in relazione allo stesso criterio di solidarietà che ha ispirato il legislatore. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in € 10.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, ove dovuto.
Roma, così deciso il 29.2.2024