Giu L'obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V CIVILE - ORDINANZA 02 maggio 2024 N. 11879
Massima
L'obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem, ossia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, che siano collegati all'atto notificato, quando lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, cioè l'insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell'atto o del documento necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, la cui indicazione consente al contribuente - ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale - di individuare i luoghi specifici dell'atto richiamato nei quali risiedono le parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento (Cass. 15 aprile 2013, n. 9032; Cass. 20 ottobre 2016, n. 21284; Cass. 28 febbraio 2017, n. 5173; da ultimo Cass. 13 ottobre 2022, n. 34142).

Casus Decisus
1. In data 19 ottobre 2011 l’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale II di Roma notificava a G. Vittorio avviso di accertamento n. TK5012P04588/2011, con il quale recuperava a tassazione, per l’anno di imposta 2003, un maggior reddito di capitale di € 419.786,91, assoggettato a tassazione ordinaria, ed un ulteriore maggior reddito di capitali per € 229.137,05, assoggettato ad imposta sostitutiva ex art. 18 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (testo unico delle imposte dirette). Tale accertamento derivava dall’espletamento di un’indagine penale svolta dalla Guardia di Finanza di Milano che aveva portato all’arresto dell’avvocato svizzero Fabrizio P., dal cui personal computer, a seguito di sequestro, erano emersi numerosi nominativi relativi a clientela assistita dallo stesso professionista o dal suo studio. Nel corso di tali indagini emergeva che un avvocato/notaio elvetico, tale Fabrizio P. appunto, in concorso con altri soggetti aveva costituito una serie di società e trust molto articolati, al fine di trasferire ingenti somme di denaro all'estero in violazione della normativa italiana. Nell'ambito di tali indagini veniva sequestrato il personal computer del suddetto P., contenente un elenco di persone fisiche che avevano intrattenuto rapporti con lui, tra i quali l’odierno controricorrente G. Vittorio. Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate contestava a G. Vittorio: 1) fittizie e meramente cartacee operazioni di “scudo fiscale” ex d.l. 25 settembre 2001, n. 350, conv. dalla legge 23 novembre 2001, n. 409; 2) partecipazione agli utili della società GSF – F. attraverso la sottoscrizione di un contratto di associazione in partecipazione della società G. s.r.l., partecipata dal contribuente, con apporto finanziario a quest’ultima ritenuto fittizio in quanto finanziato con risorse proprie dei soci della stessa G. s.r.l., con la conseguenza che l’importo della provvista iniziale di € 671.394,00, fornita da GSF a G. s.r.l., fosse da attribuire, quale reddito costituito all’estero e sottratto ad imposizione, pro-quota a ciascun socio, e quindi nella misura del 95% dell’ammontare al sig. G., per complessivi € 637.624,30, sui quale veniva applicata la presunzione di fruttuosità ex art. 6 del d.l. 28 giugno 1990, n. 167, conv. dalla legge 4 agosto 1990, n. 227; 3) distribuzione occulta di utili per complessivi € 441.680,96, accreditati in data 23 aprile 2003 sul conto GSF e successivamente retrocessa, transitando sui conti M. e Gl., sul conto della società G. s.r.l., rientrando pertanto nella disponibilità di quest’ultima e, per la quota del 95% (quote di partecipazione del G. nella G. s.r.l.) all’odierno contribuente, per complessivi € 419.786,91. 2. G. Vittorio impugnava l’avviso di accertamento n. TK5012P04588/2011 dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma la quale, con sentenza n. 6070/26/2015, depositata il 17 marzo 2015, accoglieva il ricorso, ritenendo di condividere le motivazioni assunte con sentenza n. 5439/41/2014, relativa all’annualità del 2008, con la quale era stato rilevato come non fosse stata mai attuata alcuna verifica o indagine diretta nei confronti del contribuente e che tutti gli elementi indicati nell’accertamento sono stati desunti da documentazione o files rinvenuti presso soggetti estranei. 3. Interposto gravame dall’Ufficio, la Commissione tributaria regionale del Lazio, con sentenza n. 6279/06/2016, depositata in segreteria il 20 ottobre 2016, rigettava l’appello, compensando le spese di lite. 4. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate, sulla base di due motivi. G. Vittorio resiste con controricorso. 5. La discussione del ricorso è stata fissata dinanzi a questa sezione per l’adunanza in camera di consiglio del 9 gennaio 2024, ai sensi degli artt. 375, secondo comma, e 380-bis.1 cod. proc. civ.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V CIVILE - ORDINANZA 02 maggio 2024 N. 11879 CRUCITTI ROBERTA

1. Il ricorso in esame, come si è detto, è affidato a due motivi.

1.1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate eccepisce violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., nonché degli artt. 38, 39, primo comma, lett. c) e d) e 41 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600; consequenziale violazione degli artt. 12 e 13 d.l. 25 settembre 2001, n. 350, conv. dalla l. 23 novembre 2001, n. 409, nonché dell’art. 12, comma 2, del d.l. 1° luglio 2009, n. 78, conv. dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, e dell’art. 6 del d.l. n. 167/1990, conv. dalla legge n. 227/1990, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3), cod. proc. civ. Deduce, in particolare, che il giudice a quo avrebbe erroneamente disconosciuto la valenza probatoria dei files rinvenuti nel personal computer dell’avv. P. in base a un giudizio astratto, illogico ed erroneo, non sussistendo alcuna plausibile ragione per la quale un avvocato d’affari dovrebbe trascrivere falsi dati che sarebbero però per lo stesso compromettenti. Ritiene, inoltre, che la C.T.R. avrebbe omesso di esaminare in modo unitario gli elementi indiziari addotti dall’Ufficio in relazione allo specifico fatto controverso, disconoscendo erroneamente la valenza indiziaria di quanto rinvenuto nel computer dell’avv. P., ed omettendo altresì di esaminare le inferenze logiche dei dati in questione e dell’ulteriore documentazione, anche proveniente dal contribuente. Precisa, infine, l’Amministrazione finanziaria che l’avviso di accertamento sarebbe legittimo in ordine all’applicazione dell’art. 6 del d.l. n. 167/1990, in merito all’importo che sarebbe stato fittiziamente scudato, e all’applicazione dell’art. 12, comma 2, del d.l. n. 78/2009 rispetto alle plusvalenze e ai dividenti che sarebbero affluiti in un conto corrente estero.

1.2. Con il secondo motivo di ricorso l’Ufficio eccepisce la nullità della sentenza impugnata per carenza di motivazione e per violazione dell’art. 36, comma 3, num. 4), del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 4), cod. proc. civ. Deduce che la sentenza della C.T.R. era completamente carente nell’illustrazione delle critiche mosse dall’appellante alle statuizioni di primo grado, rendendo assolutamente inintelliggibili gli elementi di fatto e la soluzione giuridica posti a fondamento della decisione.

2. Procedendo quindi all’esame del motivo di ricorso, osserva la Corte quanto segue. 

2.1. Preliminarmente devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso, sollevate dalla difesa del controricorrente.

2.1.1. Con una prima eccezione, il controricorrente deduce l’inammissibilità del ricorso per violazione del principio di autosufficienza, in considerazione «della mancata specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti sui quali il ricorso si fonda».

Tale eccezione è totalmente destituita di fondamento. Per giurisprudenza consolidata, per il rispetto del principio di autosufficienza, il ricorso per cassazione deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti a un pregresso giudizio di merito, sicché il ricorrente ha l'onere di indicare specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l'indiretta riproduzione (si v. Cass. 29 marzo 2022, n. 10017). Nel ricorso in questione, il controricorrente censura che parte ricorrente, a pagina 2, punto 1.1, richiami dei documenti che però non produce. I documenti in questione, tuttavia, sono parte o del contenuto o degli allegati dell’avviso di accertamento, avviso che il ricorrente richiama indicando specificamente dove trovare i relativi riferimenti (in particolare a pagina 3 e 4 dell’avviso stesso).

Non è riscontrabile, pertanto, alcuna violazione del principio in parola, avendo il ricorrente operato un richiamo all’avviso di accertamento e non ai documenti sottesi. Quanto appena precisato è sufficiente per il rigetto della citata eccezione, ma si ritiene comunque opportuno puntualizzare su un’ulteriore censura di parte controricorrente, in particolare laddove lo stesso lamenta che un documento, cioè la segnalazione della direzione Centrale Accertamento Ufficio Centrale, non sia mai stata prodotta nei precedenti gradi di giudizio e neppure nell’avviso di accertamento. Siffatta censura non attiene a un vizio di inammissibilità del ricorso per cassazione, quanto eventualmente a un vizio dell’avviso o a un vizio processuale. Nonostante, quindi, queste argomentazioni non afferiscano alla violazione del principio di autosufficienza, si precisa comunque che, come chiarito da questa Corte, «il requisito motivazione dell'accertamento, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, comma 2, esige, oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi ed oggettivi della posizione creditoria dedotta, soltanto l'indicazione di fatti astrattamente giustificativi di essa, che consentano di delimitare l'ambito delle ragioni adducibili dall'ufficio nell'eventuale successiva fase contenziosa, restando poi affidate al giudizio d'impugnazione dell'atto le questioni riguardanti l'effettivo verificarsi dei fatti stessi e la loro idoneità a dare sostengo alla pretesa impositiva» (cfr. Cass. 11 novembre 2021, n. 23615).

Inoltre, nel regime introdotto dalla legge 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, «l'obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem, ossia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, che siano collegati all'atto notificato, quando lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, cioè l'insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell'atto o del documento necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, la cui indicazione consente al contribuente - ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale - di individuare i luoghi specifici dell'atto richiamato nei quali risiedono le parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento» (Cass. 15 aprile 2013, n. 9032; Cass. 20 ottobre 2016, n. 21284; Cass. 28 febbraio 2017, n. 5173; da ultimo Cass. 13 ottobre 2022, n. 34142).

2.1.2. Infondata è anche la seconda eccezione di inammissibilità del ricorso, con la quale il controricorrente deduce che l’Ufficio avrebbe richieste un riesame in punto di fatto della decisione impugnata. Ed invero, nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate, con il motivo di ricorso, non richiede una diversa valutazione in fatto degli elementi probatori acquisiti nel corso del giudizio di merito, ma censura la violazione delle norme in materia di presunzioni semplici (ed in particolare, dell’art. 2729 cod. civ.), per non avere, la corte territoriale, ritenuto utilizzabili delle prove atipiche, e per non avere effettuato una valutazione complessiva del materiale probatorio acquisito, e quindi per non avere correttamente proceduto al giudizio inferenziale previsto dalla norma suddetta, in ordine ai requisiti della gravità, precisione e concordanza delle presunzioni. Trattasi, quindi, di una chiara censura in merito all’erronea applicazione di norme giuridiche, e non già di una censura in fatto della sentenza impugnata.

2.2. Procedendo ora ad esamine i motivi di ricorso, appare necessario esaminare preliminarmente, per il suo carattere pregiudiziale, il secondo motivo di ricorso, che appare fondato. Come è noto, ricorre il vizio di mancanza di motivazione, o di motivazione apparente della sentenza, allorquando il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, ovvero li indichi senza un'approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull'esattezza e sulla logicità del suo ragionamento, restando il sindacato di legittimità sulla motivazione circoscritto alla sola verifica della violazione del minimo costituzionale richiesto dall'art. 111, sesto comma, Cost. (da ultimo, Cass. 15 novembre 2022, n. 33649; Cass. 7 aprile 2017, n. 9105).

In particolare, la motivazione è solo apparente - e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo - quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. 9 settembre 2022, n. 26618).

Nel caso di specie, la C.T.R. si è limitata ad affermare che: a) «l’accertamento impugnato si fonda su elementi di riscontro probatorio e riferiti soggetti estranei al procedimento tributario e senza che vi sia stata una puntuale e specifica indagine in ordine alle attività svolte dal ricorrente»; b) «appare equo uniformarsi alle decisioni già adottate da altre sezioni della Commissione Tributaria Regionale per evidenti ragioni di equità e per evitare una ingiustificata disparità di trattamento». Tale motivazione appare, invero, del tutto insufficiente, in quanto: a) non vengono indicati gli elementi di riscontro (riferibili a soggetti terzi) la cui efficacia probatoria dovrebbe essere negata, in relazione all’avviso di accertamento in oggetto; b) non vengono indicate le decisioni precedente alle quali la C.T.R. dichiara di uniformarsi, né viene specificato se i presupposti di fatto siano gli stessi.

2.3. Il primo motivo resta assorbito.

3. La sentenza impugnata deve dunque essere cassata, con rinvio, per nuovo giudizio, alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio, in diversa composizione, la quale provvederà anche alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, dichiara assorbito il primo motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio, in diversa composizione, anche per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità. 

Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2024.