Giu Il recesso del fideiussore dalla garanzia prestata per i debiti di un terzo, derivanti da un rapporto di apertura di credito bancario in conto corrente, produce l'effetto di circoscrivere l'obbligazione accessoria al saldo del debito del recesso
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I CIVILE - ORDINANZA 22 aprile 2024 N. 10709
Massima
Il recesso del fideiussore dalla garanzia prestata per i debiti di un terzo, derivanti da un rapporto di apertura di credito bancario in conto corrente destinato a prolungarsi ulteriormente nel tempo, produce l'effetto di circoscrivere l'obbligazione accessoria al saldo del debito esistente al momento in cui il recesso medesimo è diventato efficace. L'obbligo del garante è limitato al pagamento di tale saldo, anche qualora il debito dell'accreditato, nel momento in cui la successiva chiusura del conto rende la garanzia attuale ed esigibile, risulti aumentato in dipendenza di operazioni posteriori, e senza che, peraltro, ai fini della determinazione dell'ambito della prestazione dovuta dal garante, possa aversi una considerazione delle ulteriori rimesse dell'accreditato separate e diverse rispetto ai prelevamenti dallo stesso operati, stante l'unitarietà e l'inscindibilità del rapporto tra banca e cliente. Solo se il saldo esistente alla chiusura del rapporto di apertura di credito sia inferiore a quello esistente al momento del recesso del fideiussore si verifica una corrispondente riduzione dell'obbligazione fideiussoria, in applicazione della regola sancita dall'art. 1941, primo comma, cod. civ., secondo cui la fideiussione non può eccedere l'ammontare dell'obbligazione garantita. (Cass. n. 16705 del 2003).

Casus Decisus
1. Con sentenza del 14 settembre 2016, n. 427, il Tribunale di Piacenza, decidendo sull'opposizione, proposta da M.G., avverso il decreto ingiuntivo n. 1442/2012 ottenuto, anche nei suoi confronti, quale fideiussore della M.G. s.p.a., da Banca di Piacenza soc. coop. p.a. (creditrice della medesima società) per la somma di € 2.541.897,97, revocò il menzionato decreto e condannò l'opponente al pagamento, in favore della banca opposta, di € 2.511.969,84, oltre accessori. 1.1. Quel giudice, premessa l'efficacia del recesso effettuato, a termini di contratto, dalla M.G. a far data dal 14 novembre 2011 (epoca in cui la comunicazione di recesso era giunta presso gli uffici della banca), esaminati i rapporti tra le parti, ed in particolare il conto corrente ordinario n. 67 ed il conto anticipi fatture n. 68, ritenne che l'opponente non avesse fornito prova della circostanza che, al momento del recesso, i saldi di entrambi i rapporti fossero attivi: anche se il saldo del conto corrente ordinario era attivo, infatti, quello del conto anticipi fatture era, all'epoca, passivo per oltre € 2.500.000. La stessa, inoltre, aveva genericamente dedotto che, subito dopo la revoca della garanzia fideiussoria, gli anticipi sarebbero stati interamente onorati dai debitori della società e totalmente incassati dalla banca, ma non aveva accompagnato tale deduzione con alcuna prova idonea. 2. Il gravame promosso dalla M.G. contro quella decisione fu accolto dall’adita Corte di appello di Bologna con sentenza del 25 giugno/30 agosto 2019, n. 2412, resa nel contradittorio con Banca di Piacenza soc. coop. p.a.. 2.1. Per quanto qui ancora di interesse, quella corte, premesso «che la questione dell'efficacia del recesso della M.G. alla data del 14 novembre 2011 è incontestata e, quindi, definitivamente accertata con efficacia di giudicato», descrisse gli esiti della disposta c.t.u. contabile (volta ad accertare l’effettivo saldo dei rapporti in essere tra le parti al momento del recesso del fideiussore), dalla quale era emerso, innanzitutto, che, dall’esame dei rapporti intercorsi tra le parti, si era accertato che «il fido concesso alla società M.G. era di tipo autoliquidante, nel senso che, man mano che le fatture di cui agli importi anticipati venivano pagate dai clienti, si rendeva disponibile un nuovo fido per anticipare altre fatture entro il limite concesso di euro 2.500.000». L’indagine del consulente, che aveva investito soltanto il conto corrente ordinario n. 67 ed il conto corrente anticipo fatture/contratti n. 68, «considerato che l'ulteriore conto di anticipo fatture/contratti n. 69 ha sempre avuto saldo pari a zero», era giunta alla conclusione così riportata nella sentenza impugnata: «alla data del recesso (14 novembre 2011) della M.G. dalla fideiussione, costituita con atto del 14 novembre 2005 fino alla concorrenza della somma di € 3.450.000, l'effettivo saldo dei rapporti di conto corrente accesi dalla società presso la Banca di Piacenza risultava complessivamente a debito per la società per € 2.334.465,07 pari alla somma algebrica dell'effettivo saldo del conto corrente ordinario n. 67 di euro + 115.534,93 e del saldo negativo del conto anticipi n. 68 pari a -2.500.000. A seguito del bonifico pervenuto il 28/11/2011 dalla S. s.p.a. di euro 2.938.841,85, il saldo debitore per il correntista, rilevato per i due rapporti di conto corrente, si era azzerato divenendo a credito per la società M.G. s.p.a. per complessivi euro + 550.640,17 continuando ad essere a credito anche alla data successiva del 29 novembre 2011 per euro +70.595,17». 2.1.1. Muovendo da tali presupposti, la corte predetta ritenne che la sentenza impugnata dovesse essere interamente riformata. Osservò, infatti, che: i) «In primo luogo, si deve convenire con l'esperto laddove dissente dalla lettura delle annotazioni Documento Pagato oppure Documento Insoluto, effettuata dalla Banca che sostiene che, al momento in cui veniva stornato l'anticipo precedentemente accordato, era indifferente per la banca indicare nella descrizione l'una o l'altra dicitura. Ritiene invece questa corte che le due diciture abbiano significati del tutto opposti e antitetici e che non si possa sostenere l'indifferenza, nell'annotazione negli estratti conto o in altri documenti, dell'utilizzo dell'una o dell'altra espressione»; ii) «In secondo luogo, applicando alla fattispecie la disciplina dello sconto bancario contemplato dall'articolo 1858 c.c., il cui meccanismo pratico è assimilabile a quello che viene concretamente descritto nella c.t.u., non si può sostenere che le scritture contabili della banca (e le sue annotazioni) siano prive di qualsiasi valore giuridico in considerazione del fatto che, a norma dell'articolo 2709 c.c., i libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l'imprenditore. Questo valore probatorio spetta sia alle risultanze del conto corrente ordinario che a quelle del conto anticipi fatture, anch'esso scrittura contabile, da considerare in maniera integrale. Ne deriverebbe che l'annotazione - presente nel conto anticipi - che uno dei documenti presentati dal cliente per ottenere credito è stato pagato, fa prova, a norma dell'articolo 2709 c.c., nei confronti della banca dell'avvenuta fisiologica soluzione del rapporto. Considerando, inoltre, che l'onere della prova del credito grava pur sempre sulla banca che ha ottenuto il decreto ingiuntivo, non si comprenderebbe come mai il tribunale abbia valutato solo le annotazioni passive sui rapporti in oggetto ed abbia invece ritenuto prive di rilievo quelle attive rinvenute negli stessi conti. Vi è poi la considerazione, non di poco conto, che si trattava di un finanziamento autoliquidante, per cui sarebbe stato altamente improbabile che un soggetto qualificato e attento come la Banca concedesse credito senza avere prima conseguito il rientro dalle precedenti anticipazioni. In ogni caso, quand'anche si volesse escludere l'efficacia probatoria contro la Banca delle sue scritture contabili, si dovrebbe comunque trarre dalle stesse quantomeno un principio di prova scritta ai sensi degli articoli 2724, n. 1), e 2729, comma 2, c.c.»; iii) «[…] fermo restando che l'onere della prova del credito, a seguito della proposizione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, grava pur sempre sulla banca che l'ha ottenuto in quanto parte sostanziale, la parte opponente può benissimo avvalersi di presunzioni, purché gravi precise e concordanti, per fornire la prova dell’intervenuto pagamento, tanto più come nel caso di specie, in presenza della dicitura Documento Pagato in luogo di Documento Insoluto nelle scritturazioni di riepilogo relative alle anticipazioni per cui è causa. Per contro, non si può condividere la tesi della banca che pretende di invocare il valore probatorio delle scritture e delle annotazioni a sé favorevoli e di considerare invece non idonee a tale scopo quelle a sé sfavorevoli»; iv) «Nella sostanza, gli indici che hanno portato il c.t.u. a considerare l'avvenuto saldo delle quattro fatture che rappresentavano il debito della società ancora in essere alla data del recesso del fideiussore M.G. sono i seguenti: a) le ormai famose annotazioni Documento Pagato presenti a fianco delle stesse, aventi caratteristiche e finalità diverse da quella Documento Insoluto presenti accanto ad altre partite; b) il dato contrattuale per cui la Banca, una volta raggiunto il massimale delle anticipazioni, in un rapporto di finanziamento autoliquidante, non avrebbe potuto concederne altre se non previo pagamento delle fatture pendenti; c) la documentazione che dimostrava consistenti pagamenti da parte di una società finanziaria del gruppo E., di cui faceva parte S. R.G., pur in assenza di altri pagamenti diretti da parte di quest'ultimo o di altre società del gruppo: non va dimenticato quanto affermato dal c.t.u. sul fatto che la S. non aveva mai eseguito bonifici diretti sui citati conti della M.G. e, dato che la Banca di Piacenza aveva sempre continuato a concedere anticipazioni bancarie su tali fatture dal 2006 sino al 2012, veniva rafforzato "…il convincimento che le fatture anticipate emesse alla S. Rete venivano pagate proprio tramite i bonifici della S.". Si rammenta che sul conto corrente ordinario n. 67, oltre al versamento di assegni e a sporadici bonifici pervenuti, privi di rilevanza ai fini di causa, la S. s.p.a., aveva periodicamente bonificato sin dal 15 marzo 2006 importi rilevanti per un totale di circa euro 40 milioni. In definitiva, deve ritenersi che se è vero che alla data del recesso del fideiussore, 14/11/2011, il complesso dei rapporti di anticipazioni su fatture e conto corrente della società M.G. s.p.a. presso la Banca di Piacenza era in passivo per la cifra sopra riportata [€ - 2.334.465,07. Ndr], è altrettanto evidente che quello stesso saldo debitore è stato completamente azzerato dopo pochi giorni, il 28/11/2011, a nulla rilevando che i rapporti in oggetto erano ritornati in passivo alla data del 30/11/2011 quando ormai era pacifico il recesso della M.G. dalla fideiussione. Risulta quindi dimostrato, all'esito di questo giudizio, che le obbligazioni per cui il fideiussore era tenuto a rispondere, in quanto maturate prima del suo recesso, si erano estinte. Il fideiussore non poteva quindi essere chiamato a rispondere del passivo della società garantita maturatosi dopo il valido ed efficace esercizio, da parte sua, del diritto di recesso». 3. Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso Banca di Piacenza soc. coop. p.a., affidandosi a cinque motivi, illustrati anche da memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ.. Ha resistito, con controricorso, corredato da analoga memoria, M.G..

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I CIVILE - ORDINANZA 22 aprile 2024 N. 10709 DI MARZIO MAURO

1. I formulati motivi di ricorso denunciano, rispettivamente, in sintesi:

I) «Ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 1832 c.c., dell’art. 1858 c.c. e dell’art. 2709 c.c., nonché dell’art. 50 del d.lgs. n. 385/93, in relazione all’efficacia ed al valore probatorio degli estratti conto della banca». La censura muove dalla considerazione che «La sentenza impugnata è espressamente ed esclusivamente fondata sulla prova presuntiva, desunta dagli “indici” […] evidenziati dalla CTU svolta nel grado di appello […], e si è basata su due circostanze che costituiscono i fatti “noti” su cui si fonda la prova presuntiva. Il primo è rappresentato dal fatto che nel conto anticipi n. 68 gli importi delle quattro fatture anticipate, oggetto del giudizio, sono state stornate e “nella nota descrittiva dell'operazione di storno è riportata la dicitura "Documento Pagato". Il secondo fatto è costituito dalla circostanza che “sul conto corrente ordinario n. 67…venivano periodicamente bonificati sin dal 15 marzo 2006 importi rilevanti da parte di una terza società, la S. s.p.a., nota finanziaria del gruppo E. di cui fa parte S. R.G. s.p.a.». Viene contestato alla corte distrettuale di avere accolto «acriticamente la tesi del CTU secondo la quale, benché i bonifici Sefactoring non facessero riferimento alle fatture anticipate e non fosse possibile “raccordare” gli importi dei bonifici con quelli delle fatture, è ragionevole supporre che le fatture de quibus siano state pagate tramite i bonifici S.». Si ascrive ai giudici della corte di merito di non aver «considerato il fatto che l’art. 2709 c.c. non è applicabile alla fattispecie e che la loro affermazione è smentita dalla giurisprudenza di legittimità. […]. Da ciò deriva che i fatti oggettivi “noti” posti a base del ragionamento presuntivo non hanno affatto carattere assoluto e probatoriamente vincolante. Inoltre detti fatti andavano letti ed interpretati congiuntamente agli altri fatti oggettivi, indicati nella CTU, dal che deriva una ulteriore violazione di legge, come emerge dal seguente secondo motivo di ricorso»;

II) «Ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., omesso esame di fatti decisivi indicati nella relazione del CTU relativi alle modalità operative dei conti correnti ed alla prova dell’assenza di pagamento delle fatture anticipate». Si imputa alla corte territoriale di avere omesso di «dare conto delle modalità operative dei due conti e delle relazioni tra essi esistenti, elementi questi presenti nella CTU ed invocati dalla banca nei propri atti difensivi». In particolare, «la sentenza ha ignorato che il CTU ha accertato che nessun versamento espressamente a saldo delle fatture anticipate è mai pervenuto alla banca. Ha inoltre ignorato la circostanza, ampiamente dibattuta nelle difese della banca, che il conto anticipi non può essere letto da solo senza tener conto del conto ordinario n. 67. Come ammette la stessa appellante, il conto anticipi non è un “vero conto a debito” e non rappresenta uno “scoperto di conto corrente”. Il conto-anticipi non movimenta mai valuta, ma riporta le scritturazioni contabili di mantenimento del debito. Vale a dire che le movimentazioni “reali” di valuta, ovvero i versamenti e i prelievi, avvengono materialmente attraverso il conto corrente. Ebbene, come rilevato dal CTU e come emerge dal conto corrente n. 67 (doc. 14), su detto conto non è pervenuto alcun pagamento a saldo delle fatture in questione o ad esse chiaramente riferibile. Infine la sentenza ha ignorato che la scritturazione “documento pagato” non ha alcun valore probatorio, dal momento che lo stesso CTU ha accertato che, anche quando l’importo anticipato non veniva rimborsato, alla scadenza la fattura veniva “stornata”. Appare di tutta evidenza che detti elementi sono decisivi per il giudizio, dal momento che avrebbero comportato una valutazione del tutto diversa delle prove, dell’onere probatorio ed anche degli indici presuntivi (anche volendo ammettere che fossero utilizzabili)»; 

III) «Ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione degli artt. 1193, 2721, 2726, 2729 e 2697 c.c., e degli artt. 112 e 115 c.p.c., in relazione all’imputazione dei versamenti ricevuti dalla banca, all’inammissibilità della prova per presunzioni e all’onere della prova in capo a controparte del fatto estintivo dell’obbligazione». Si sostiene che, nella odierna fattispecie: i) i rapporti economici tra le parti erano molteplici e numerosissimi i crediti della banca. «La relazione del c.t.u. dà atto delle innumerevoli operazioni nelle quali la banca era, ovviamente, sempre creditrice. È dunque evidente che, per poter imputare un pagamento ad un credito piuttosto che ad un altro, sia necessario dimostrare che “quel” pagamento sia “puntualmente” e precisamente eseguito ad estinzione di “quel” preciso credito, cioè di un credito “determinato” con certezza»; ii) il c.t.u. ed i giudici di appello, «a fronte di generici versamenti di una società terza non corrispondenti gli importi delle fatture anticipate e senza alcun riferimento ad esse, privi inoltre di una qualsiasi specificazione o indicazione di imputazione, hanno imputato i versamenti alle fatture anticipate. […]. Pertanto, in assenza di alcuna indicazione, l’imputazione a quei determinati debiti, al rimborso di quelle determinate fatture, è del tutto arbitraria»; iii) la corte felsinea ha ritenuto, erroneamente, che la parte opponente poteva «avvalersi di presunzioni purché gravi, precise e concordanti, per fornire la prova dell’intervenuto pagamento» e che, nella specie, gli elementi indiziari indicati dal c.t.u. avessero dette caratteristiche;

IV) «Ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., e degli artt. 112 e 115 c.p.c., in relazione all’imputazione dei versamenti ricevuti dalla banca e alla valutazione della prova per presunzioni, e per illogicità manifesta della motivazione, nonché ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. per incoerenza, illogicità manifesta e contraddittorietà della motivazione, nonché mancato esame di fatti decisivi». Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che le presunzioni segnalate dal c.t.u. fossero gravi, precise e concordanti in virtù di un ragionamento (in sostanza, in base al semplice fatto che S. esercita abitualmente attività di factoring per tutte le società del gruppo E., tra cui S., «è ragionevole supporre» che detti bonifici siano da imputare a saldo delle fatture anticipate) del tutto arbitrario ed addirittura fantasioso. La stessa, peraltro, non ha esaminato un fatto decisivo, cioè che anche il bonifico di S. di € 2.938.841,85 «non contiene alcun riferimento alle fatture e non corrisponde all’importo complessivo delle fatture. Inoltre è stata bonificata una somma precisa con dei “rotti” […]. Ragionando sempre in termini di supposizioni, è molto più ragionevole ritenere che detto importo sia da imputare ad altra causa»;

V) «Ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione degli artt. 1858 e 1941 c.c., 112 e 132 c.p.c., in relazione alla determinazione del debito di cui deve rispondere il garante a seguito del recesso dalla fideiussione e per assenza di motivazione». Si contesta alla corte territoriale di non avere esaminato una eccezione «decisiva» – riguardante la determinazione del debito del fideiussore receduto nei rapporti di sconto bancario o anticipazione su fatture – sollevata dalla Banca di Piacenza «Nel grado di appello».

2. Il primo motivo di ricorso è infondato

2.1. Invero, la questione dell'efficacia del recesso della M.G. alla data del 14 novembre 2011 è rimasta incontestata in sede di gravame, sicché deve considerarsi definitivamente accertata con efficacia di giudicato. Resta, dunque, da stabilire se, alla data suddetta, i conti di cui si discute (quello ordinario n. 67 e quello anticipo fatture/contratti n. 68, entrambi intestati alla M.G. s.p.a., di cui M.G. era garante) presentassero, o non, complessivamente, un saldo passivo del quale avrebbe dovuto rispondere la garante.

2.1.1. Sul punto, emerge chiaramente dalla decisione oggi impugnata che il nominato consulente di ufficio, esaminato quanto prodotta dalle parti, ha ritenuto che i pagamenti registrati sui quei conti fossero riferibili alle fatture ivi menzionate, basandosi sugli estratti conto della banca e su altra documentazione, sicché, alla data di recesso della garante M.G., non sussisteva un saldo complessivamente passivo sui conti predetti.

2.1.2. Va ricordato, in proposito, il principio - enunciato da questa Corte con riferimento all'apertura di credito in conto corrente senza predeterminazione di durata - secondo cui il recesso del fideiussore produce l'effetto di circoscrivere l'obbligazione accessoria al saldo del debito esistente al momento in cui il recesso medesimo è diventato efficace (cfr. Cass. n. 9848 del 2012, secondo cui «Il recesso del fideiussore dalla garanzia prestata per i debiti di un terzo, derivanti da un rapporto di apertura di credito bancario in conto corrente destinato a prolungarsi ulteriormente nel tempo, produce l'effetto di circoscrivere l'obbligazione accessoria al saldo del debito esistente al momento in cui il recesso medesimo è diventato efficace. L'obbligo del garante è limitato al pagamento di tale saldo, anche qualora il debito dell'accreditato, nel momento in cui la successiva chiusura del conto rende la garanzia attuale ed esigibile, risulti aumentato in dipendenza di operazioni posteriori, e senza che, peraltro, ai fini della determinazione dell'ambito della prestazione dovuta dal garante, possa aversi una considerazione delle ulteriori rimesse dell'accreditato separate e diverse rispetto ai prelevamenti dallo stesso operati, stante l'unitarietà e l'inscindibilità del rapporto tra banca e cliente. Solo se il saldo esistente alla chiusura del rapporto di apertura di credito sia inferiore a quello esistente al momento del recesso del fideiussore si verifica una corrispondente riduzione dell'obbligazione fideiussoria, in applicazione della regola sancita dall'art. 1941, primo comma, cod. civ., secondo cui la fideiussione non può eccedere l'ammontare dell'obbligazione garantita». Cass. n. 16705 del 2003).

2.2. Fermo quanto precede, rileva il Collegio, quanto al valore probatorio degli estratti conto, che gli stessi, anche alla luce della stessa giurisprudenza citata dalla ricorrente (cfr. Cass. n. 28819 del 2017, che, respingendo un ricorso promosso da una banca, che aveva lamentato, con il settimo motivo, la violazione dell'art. 2698 cod. civ., nonché l'omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che, nel porre a carico di esso convenuto l'onere di provare il saldo iniziale, la sentenza impugnata non aveva tenuto conto dello art. 8, comma 4, del contratto di conto corrente, che attribuiva efficacia di piena prova alle scritture contabili della banca, affermò che «L'efficacia di piena prova che il contratto di conto corrente attribuisce alle scritture contabili della banca non può essere infatti estesa agli estratti conto, i quali non possono essere inclusi tra le scritture contabili, costituendo semplici attestazioni delle operazioni annotate in conto e dei movimenti a credito e a debito che ne derivano, la cui sottoposizione ad un'autonoma disciplina, dettata dall'art. 1832 cod. civ. e dal D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 50 che ne circoscrivono l'efficacia probatoria a determinate ipotesi, subordinandola a specifici adempimenti, impediscono di attribuirvi la medesima valenza delle predette scritture»), sicuramente non possono costituire prova a favore della banca quando non ricorrano particolari condizioni, ma ben possono costituire sempre prova contro quest’ultima ex art. 2709 c.c. (del resto, Cass. n. 22551 del 2018, ha sancito che, «In materia di rapporti di conto corrente, l'estratto conto non debitamente comunicato al correntista o dallo stesso tempestivamente contestato perde il valore probatorio privilegiato, previsto dall'art. 1832 c.c., ma è comunque prudentemente apprezzabile dal giudice come elemento di prova ex artt. 115 e 116 c.p.c.»). Certamente, dunque, la corte di appello non ha errato nell’utilizzare come elemento indiziario contro la banca le risultanze degli estratti conto.

3. Il secondo motivo di ricorso è parimenti insuscettibile di accoglimento.

3.1. La corte felsinea, infatti, ha sicuramente valutato i rapporti esistenti tra i due conti (quello ordinario e quello anticipi) e, in forza di un ragionamento fondato su accertamenti fattuali ricavati dalla c.t.u., è giunta alla conclusione per cui le quattro fatture che avevano generato il saldo passivo alla data di recesso della M.G. erano state pagate attraverso bonifici della S..

3.2. La censura in esame, invece, benché formulata con riferimento ad un vizio motivazionale, si rivela chiaramente diretta ad ottenere una rivisitazione degli accertamenti fattuali suddetti dalla corte territoriale, così mostrando di non considerare che, giusta Cass., SU, n. 8053 del 2014, il vizio suddetto, ancor più in rapporto alla nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., come introdotta dal d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza resa il 30 agosto 2019), non può consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo al giudice predetto individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova; mentre alla Corte di cassazione non è conferito il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l'apprezzamento dei fatti (cfr. sostanzialmente in tal senso, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. nn. 6127 e 2607 del 2024; Cass. nn. 30878 e 4784 del 2023). In altri termini, l'attuale art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all'omesso esame di un fatto controverso e decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) per il giudizio, da intendersi riferito ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, come nella specie, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest'ultimo profilo (cfr., ex aliis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 6127 del 2024; Cass. nn. 28390, 27505, 4528 e 2413 del 2023; Cass. n. 31999 del 2022Cass., SU, n. 23650 del 2022; Cass. nn. 9351, 2195 e 595 del 2022; Cass. nn. 4477 e 395 del 2021; Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass., SU, n. 16303 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015).

4. Il terzo motivo di ricorso si rivela inammissibile.

4.1. Invero, ribadito che la questione dell'efficacia del recesso di M.G. alla data del 14 novembre 2011 è rimasta incontestata in sede di gravame, ciò che doveva essere ivi accertato era se, a quella data, i conti di cui si discute, quello ordinario n. 67 e quello anticipo fatture/contratti n. 68, entrambi intestati alla M.G. s.p.a., presentassero, o non, complessivamente, un saldo passivo, costituendone il corrispondente importo il debito della menzionata società del quale avrebbe dovuto rispondere la garante.

4.1.1. Ne consegue, quindi, quanto alla ripartizione degli oneri probatori, che la banca doveva dimostrare l’esistenza di tale debito della M.G. s.p.a. al momento del recesso del fideiussore, mentre a quest’ultimo spettava di provare che tale debito si era successivamente estinto.

4.1.2. Come affatto condivisibilmente osservato da M.G. nel suo controricorso e, successivamente, nella propria memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ., i rapporti di debito o credito tra la banca e la società correntista erano però, solo ed esclusivamente, quelli corrispondenti ai saldi attivi o passivi esistenti sui conti predetti, a nulla rilevando, invece, i rapporti sostanziali che avevano determinato tali attivi o passivi; e, nel caso di specie, due essendo i conti correnti, a rilevare era la somma algebrica degli attivi e passivi rispettivamente sui due conti.

4.2. Fermo quanto precede, rileva il Collegio che, come si è già riferito scrutinandosi il precedente motivo, la corte distrettuale, valutati i rapporti esistenti tra i due conti e la documentazione prodotta dalle parti, è giunta alla conclusione, in forza di un ragionamento fondato su accertamenti fattuali ricavati dalla espletata c.t.u., che le quattro fatture che avevano generato il saldo passivo alla data di recesso della M.G. erano state pagate attraverso bonifici della S..

4.2.1. Va rimarcato, peraltro, che nemmeno può assumere rilievo decisivo il fatto che detti bonifici riguardassero, o non, proprio quelle specifiche fatture, posto che l’unica fonte possibile di debito della società correntista nei confronti della banca era costituita dall’esistenza di un passivo complessivo sui conti correnti de quibus (del cui importo avrebbe, poi, dovuto rispondere, se non azzerato, la garante M.G.), sicché appare del tutto irrilevante individuare quali fatti fossero stati all’origine di tale passivo e del suo successivo ripianamento.

4.3. Non resta, dunque, che richiamare quanto si è già detto, disattendendosi i precedenti motivi di ricorso, circa la correttezza del modus procedendi della corte territoriale relativo all’accertata insussistenza di un debito della odierna controricorrente alla data del suo recesso dal rapporto di fideiussione, rispetto al quale le argomentazioni della censura in esame, benché formalmente prospettate in termini di violazione e/o falsa applicazione di legge, appaiono, in realtà, sostanzialmente volte ad ottenere un riesame di quell’accertamento. Il giudizio di legittimità, tuttavia, non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass. n. 8758 del 2017; Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. nn. 32026 e 40493 del 2021; Cass. nn. 1822, 2195, 3250, 5490, 9352, 13408, 5237, 21424, 30435, 35041 e 35870 del 2022; Cass. nn. 1015, 7993, 11299, 13787, 14595, 17578, 27522, 30878 e 35782 del 2023; Cass. nn. 4582, 4979, 5043, 6257 e 9429 del 2024).

4.3.1. Banca di Piacenza s.c.p.a., incorre, infine, nell'equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale (tali essendo gli artt. 115 e 116 cod. propc. civ.) dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall'erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, come chiarito, ancora recentemente, da Cass. n. 35782 del 2023 (cfr. in motivazione, dove si si richiamano, in senso analogo, Cass. nn. 16303, 11299 e 28385 del 2023), un'autonoma questione di malgoverno dell’art. 115 cod. proc. civ. può porsi solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d'ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge (cfr. Cass., SU, n. 20867 del 2020, che ha pure precisato che «è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall'art. 116 c.p.c.»). Giusta Cass. n. 35041 del 2022 (cfr. in motivazione), invece, un'autonoma questione di malgoverno dell’art. 116 cod. proc. civ. può porsi, solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (cfr. Cass., SU, n. 20867 del 2020, che ha pur puntualizzato che, «ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione»; Cass. n. 27000 del 2016). Del resto, affinché sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell'art. 132, n. 4, e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell'esito dell'avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata all'adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse (cfr. Cass. 24434 del 2016).

5. Il quarto motivo di ricorso si rivela complessivamente inammissibile per effetto di tutto quanto si è già detto in relazione ai motivi precedenti.

5.1. Invero, quanto alle caratteristiche della prova presuntiva, è utile ricordare che essa si configura come mezzo per la cognizione mediata ed indiretta di fatti controversi, costituendo, pertanto, un mezzo di prova critica in relazione al quale è rimessa al prudente apprezzamento del giudice la formulazione dell'inferenza dal fatto noto a quello ignoto. Più specificamente, affinché si possa conseguire la prova del fatto ignoto, l'art. 2729 cod. civ. richiede che gli elementi presuntivi siano gravi, precisi e concordanti, venendo meno, in caso contrario, la garanzia di ragionevole certezza circa la verità del fatto stesso. Tali requisiti rappresentano i presupposti per il valido impiego del ragionamento inferenziale, dovendosi escludere che, in loro assenza, le presunzioni stesse possano fornire al giudice la piena prova del fatto ignoto. La loro definizione esatta, peraltro, non è agevole, né univoca in dottrina. È sufficiente rimarcare, in questa sede (in sostanziale conformità a quanto recentemente sancito da Cass. n. 4784 del 2023 e Cass. n. 9054 del 2022), che: i) il requisito della gravità implica la necessità di un elevato grado di attendibilità della presunzione in relazione al convincimento che essa è in grado di produrre in capo al giudice; ciò non significa comunque che l'affermazione dell'esistenza del fatto ignorato debba desumersi dal fatto noto con assoluta certezza, essendo sufficiente un grado di probabilità superiore a quello che spetta all'opposta tesi della sua inesistenza. Tanto, del resto, è coerente con la struttura del ragionamento presuntivo e con la natura delle massime d'esperienza su cui esso si fonda: salvo i casi eccezionali in cui esse corrispondano a leggi naturali o scientifiche, le massime di esperienza non sono, infatti, di regola idonee a conferire certezza assoluta alla conoscenza del fatto ignorato, esprimendo, per lo più, una connessione meramente probabile fra questo ed il fatto noto; ii) il requisito della precisione evoca, a sua volta, un concetto di non equivocità, valendo ad escludere la validità del ragionamento presuntivo ove da esso derivino conclusioni contraddittorie e non univocamente riferibili al fatto da provare. In altri termini, la precisione va riferita al fatto noto (indizio) che costituisce il punto di partenza dell'inferenza e postula che esso non sia vago ma ben determinato nella sua realtà storica. In linea con quanto detto circa il requisito della gravità, la conseguenza circa l'esistenza del factum probandum non deve necessariamente configurarsi come l'unica possibile, essendo sufficiente che essa sia la più probabile tra quelle che possono derivare dal fatto noto; iii) più complessa e problematica è, infine, la definizione del concetto di concordanza: col richiedere la sussistenza di tale requisito, infatti, la norma sembra riferirsi alla necessaria convergenza sulla medesima conclusione di una pluralità di presunzioni semplici. Tuttavia, in dottrina e soprattutto nella giurisprudenza, è invece prevalsa una interpretazione "debole" della norma che conduce ad ammettere la validità dell'inferenza deduttiva anche quando essa si fondi su una sola presunzione, purché essa si configuri come grave e precisa (cfr., ex aliis, Cass. n. 9054 del 2022; Cass. n. 2482 del 2019; Cass. n. 19088 del 2007; Cass. n. 16993 del 2007; Cass. n. 4472 del 2003).

5.2. In quest’ottica, come condivisibilmente puntualizzato da Cass. n. 9054 del 2022, «la deduzione del vizio di violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2729, primo comma, cod. civ., suppone allora un'attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito - assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato - risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza. Di contro, la critica al ragionamento presuntivo svolto dal giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando si concreta, invece, o in un'attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali, in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicché il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell'applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perché quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell'art. 2729, primo comma (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali). In questi casi la critica si risolve in realtà in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti, e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio e ci si pone su un terreno che non è quello del n. 3 dell'art. 360 cod. proc. civ. (falsa applicazione dell'art. 2729, primo comma, cod. civ.), ma è quello che sollecita un controllo sulla motivazione del giudice relativa alla ricostruzione della quaestio facti. Terreno che, come le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno avuto modo di precisare, vigente il nuovo n. 5 dell'art. 360 cod. proc. civ., è percorribile solo qualora si denunci che il giudice di merito abbia omesso l'esame di un fatto principale o secondario, che avrebbe avuto carattere decisivo per una diversa individuazione del modo di essere della detta quaestio ai fini della decisione, occorrendo, peraltro, che tale fatto venga indicato in modo chiaro e non potendo esso individuarsi solo nell'omessa valutazione di una risultanza istruttoria».

5.3. In definitiva, come si legge in Cass. n. 3845 del 2018 (cfr. pag. 29e ss.), «Le presunzioni semplici consistono, […], nel ragionamento del giudice il quale, una volta acquisita, tramite fonti materiali di prova (o anche tramite il notorio o a seguito della non contestazione) conoscenza di un fatto secondario, deduce da esso l'esistenza del fatto principale ignoto. L'apprezzamento del giudice di merito circa il ricorso a tale mezzo di prova e la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di produzione, sono incensurabili in sede di legittimità, l'unico sindacato in proposito riservato al giudice di legittimità essendo quello sulla coerenza della relativa motivazione (Cass. n. 2431/2004). Allorquando la prova addotta sia costituita da presunzioni, le quali anche da sole possono formare il convincimento del giudice del merito, rientra, infatti, nei compiti di quest'ultimo il giudizio circa l'idoneità degli elementi presuntivi a consentire inferenze che ne discendano secondo il criterio dell’id quod prelumque accidit, essendo il relativo apprezzamento sottratto al controllo in sede di legittimità, se sorretto da motivazione immune da vizi logici o giuridici e, in particolare, ispirato al principio secondo il quale i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi, soggetti ad una valutazione globale, e non con riferimento singolare a ciascuno di questi (Cass. n. 12002/2017). Si aggiunga, poi, che, al fine di controllare la validità del ragionamento presuntivo, per un verso, non è necessario che tutti gli elementi noti siano convergenti verso un unico risultato, in quanto il giudice deve svolgere una valutazione globale degli indizi, alla luce del complessivo contesto sostanziale e processuale (Cass. n. 26022/2011), e che, per altro verso, in tale tipo di prova, non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità: occorre, al riguardo, che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza (Cass. n. 22656/2011)». 

5.4. Nella specie, il modus procedendi della corte territoriale quanto (a) all’opportunità di avvalersi della prova presuntiva, (b) alla individuazione dei fatti da porre a fondamento e (c) all'accertamento della rispondenza degli stessi ai prescritti requisiti di gravità, precisione e concordanza, si rivela assolutamente coerente con i principi giurisprudenziali tutti – pienamente condivisi dal Collegio - appena riportati nei §§ 5.1., 5.2 e 5.3., dovendosi qui solo evidenziare che i corrispondenti apprezzamenti costituiscono giudizi fattuali, la cui censura, in sede di legittimità, non può risolversi nella mera prospettazione di un convincimento diverso da quello espresso nel provvedimento impugnato, ma deve far emergere l'assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio (nella specie, invece, assolutamente inconfigurabile per quanto si è detto anche disattendendosi i precedenti motivi), restando escluso, peraltro, che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (cfr. Cass. n. 27070 del 2022).

5.5. Quanto, poi, alla denunciata violazione, anche con la presente doglianza, degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., e qui sufficiente ribadire quanto si è osservato nel precedente § 4.3.1., da intendersi – per intuibili ragioni di sintesi – interamente richiamato.

6. Il quinto motivo di ricorso, infine, è inammissibile.

6.1. La ricorrente assume di avere sollevato «Nel grado di appello», l’eccezione, asseritamente «decisiva», riguardante la determinazione del debito del fideiussore receduto nei rapporti di sconto bancario o anticipazione su fatture, ma la corte di appello aveva omesso di esaminarla.

6.2. Di un’analoga doglianza non vi è riscontro nella sentenza impugnata, né il ricorso riferisce essere stata la stessa già formulata in primo grado.

6.2.1. Pertanto, deve trovare applicazione il principio, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex aliis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 25909 del 2021; Cass. nn. 5131 e 9434 del 2023; Cass. n. 5478 del 2024), secondo cui, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorso deve, a pena di inammissibilità, non solo allegare l'avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto in virtù del principio di autosufficienza del ricorso. I motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d'inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito né rilevabili d'ufficio (cfr. Cass. n. 32804 del 2019; Cass. n. 2038 del 2019; Cass. n. 20694 del 2018; Cass. n. 15430 del 2018; Cass. n. 23675 del 2013; 7981/07; Cass. 16632/2010). In quest'ottica, il ricorrente ha l'onere – nella specie rimasto completamente inosservato – di riportare, a pena d'inammissibilità, dettagliatamente in ricorso gli esatti termini della questione posta in primo e secondo grado (cfr. Cass. n. 9765 del 2005; Cass. n. 12025 del 2000). Nel giudizio di cassazione, infatti, è preclusa alle parti la prospettazione di nuovi questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito (cfr. Cass. n. 19164 del 2007; Cass. n. 17041 del 2013; Cass. n. 25319 del 2017; Cass. n. 20712 del 2018; Cass. n. 5478 del 2024).

7. In conclusione, dunque, l’odierno ricorso di Banca di Piacenza soc. coop. a r.l. deve essere respinto, restando a suo carico le spese di questo giudizio di legittimità sostenute dalla costituitasi controricorrente, altresì dandosi atto, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi dell'art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte della medesima ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto, mentre «spetterà all'amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento».

PER QUESTI MOTIVI

La Corte rigetta il ricorso promosso da Banca di Piacenza soc. coop. per azioni e la condanna al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità sostenute dalla costituitasi parte controricorrente, liquidate in € 26.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera della medesima ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, giusta il comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile