1.Con il primo motivo del ricorso principale il Fallimento lamenta, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 41, 2° comma, TUB e degli artt. 602, 603 e 604 c.p.c. Rileva che presupposto logico -giuridico per poter ritenere che il creditore fondiario abbia iniziato o proseguito l’esecuzione in virtù del privilegio processuale accordatogli dall’art. 41 cit. è che il bene pignorato sia ricompreso fra quelli acquisiti all’attivo del fallimento, mentre nella specie l’appartamento oggetto dell’esecuzione promossa dalla Cassa di Risparmio di Lucca, Pisa e Livorno apparteneva ad A.P..
1.1 Il motivo è inammissibile perché – anche a non voler considerare che il giudice d’appello ha in realtà correttamente rilevato che il pignoramento era stato notificato alla P. quale terza proprietaria e al Fallimento di F.D. quale debitore - è del tutto eccentrico rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata, che non risiede nella qualifica del Fallimento di legittimato passivo all’azione esecutiva, ma nell’accertamento della mancanza di un pregiudizio economico (eventus damni) derivato alla massa dal duplice trasferimento impugnato. E ciò sia perché al momento del primo trasferimento il bene era gravato dall’ipoteca della creditrice fondiaria, che aveva già ottenuto l’ammissione al passivo del proprio credito ma vi aveva poi rinunciato per essere stata interamente soddisfatta al di fuori della procedura (sicché, nel caso in cui il bene fosse stato invece acquisito all’attivo fallimentare il risultato sarebbe stato identico, in quanto la somma ricavata dalla vendita sarebbe stata destinata al pagamento del credito fondiario), sia perché non poteva neppure reputarsi leso il diritto del Fallimento alla liquidazione del bene in sede concorsuale stante il diritto del fondiario, che l’aveva esercitato, ad agire in executivis ex art. 41 TUB.
2. Col secondo mezzo, che denuncia violazione dell’art. 67, comma 1, n.1, l. fall. e dell’art. 100 c.p.c, il ricorrente principale contesta, per l’appunto, l’assunto (della mancanza di eventus damni) sul quale la corte del merito ha fondato il rigetto delle domande di revocatoria fallimentare e ordinaria dell’immobile di via Spolidoro. 2.1. Richiama in proposito Cass. S.U. n. 7028/2006, secondo cui l’art. 67, 2° comma, l. fall. consente di agire in revocatoria per le vendite di beni appartenuti al fallito anche nel caso in cui il ricavato sia stato utilizzato per soddisfare un credito ipotecario; aggiunge che nella specie tale principio avrebbe dovuto essere applicato a fortiori, in quanto il pagamento del creditore ipotecario non era stato eseguito mediante l’utilizzo del ricavato del primo trasferimento dell’immobile, avvenuto nell’ambito della separazione consensuale fra i coniugi D., ma solo al termine della catena degli atti traslativi.
2.2 Osserva ancora che, sempre secondo la citata sentenza, cui hanno fatto seguito numerose altre pronunce conformi, il danno derivante alla massa dalla vendita di propri beni effettuata dall’imprenditore poi fallito è in re ipsa, e si sostanzia nel fatto stesso della lesione della par condicio creditorum, mentre non rileva la circostanza che l’alienante abbia utilizzato il prezzo ricavato dalla vendita per pagare un creditore privilegiato, anche garantito da ipoteca, posto che solo in seguito alla ripartizione dell’attivo potrà verificarsi se quel pagamento non pregiudichi le ragioni di altri creditori privilegiati insinuati.
2.3. Anche questo motivo va dichiarato inammissibile.
2.4. Il ricorrente, si è limitato a dedurre in via teorica la violazione di principi che sono stati enunciati da questa Corte sempre in relazione a fattispecie disciplinate dall’art. 67, 2° comma, l. fall., ma che non possono essere sic et simpliciter applicati nel presente giudizio, in cui le azioni sono state promosse ai sensi dell’art. 67, 1° comma n. 1 e dell’art 66 l.fall.
2.5 Infatti, quanto alla revocatoria fallimentare di cui al 1° comma n. 1 dell’art. 67 , il danno al patrimonio della parte poi fallita non è riconducibile alla mera fuoriuscita del bene, ma richiede anche il requisito della sproporzione, che deve essere dimostrato dal fallimento e costituisce elemento da inglobare nel più ampio concetto di eventus damni per la massa dei creditori: le doglianze del ricorrente, pertanto, avrebbero dovuto in primo luogo appuntarsi sull’affermazione della corte d’appello dell’assenza di un danno (da sproporzione) nella prima cessione, intervenuta in sede di separazione, quando il bene era ancora coperto dalle ipoteche fondiarie.
2.6 Va aggiunto che la censura non solo non tocca in alcun modo il predetto accertamento, ma neppure contesta il più ampio e complessivo ragionamento in fatto in base al quale la corte d’appello ha escluso che ricorresse l’elemento oggettivo delle azioni, là dove ha rilevato che la tacitazione della creditrice fondiaria da parte della P. al di fuori della esecuzione immobiliare escludeva in radice la sussistenza del danno, e dunque la revocabilità del duplice atto oneroso, perché il Fallimento non poteva da un lato beneficiare del pagamento del credito fondiario, già ammesso al passivo, eseguito dalla terza proprietaria e dall’altro ottenere il recupero del bene nei confronti di quest’ultima, così indebitamente monetizzando due volte l’immobile, dalla cui vendita in sede concorsuale non si sarebbe ricavata una somma superiore a quella necessaria a soddisfare la creditrice ipotecaria, che sarebbe però stata ripartita fra altri creditori.
3. Passando ora all’esame del ricorso incidentale, il suo primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2734 cod. civ..
3.1. Va preliminarmente precisato che il motivo, essendo volto a ottenere l’annullamento del capo della sentenza che ha accolto la domanda di inefficacia ex art. 64 l. fall. della cessione del ramo d’azienda, deve intendersi avanzato nel solo interesse di B.D., unica parte soccombente sul punto e perciò unica legittimata a proporlo.
3.2 La ricorrente lamenta che la corte d’appello abbia dato atto che le dichiarazioni da lei rese in sede di interrogatorio formale (dove, dopo aver ammesso di non avere risorse proprie per corrispondere il prezzo dell’azienda cedutale, aveva sostenuto di averle ricevute dalla nonna paterna) avrebbero dato luogo ad una confessione complessa, ma abbia poi ritenuto che ad integrare, implicitamente ma chiaramente, quella contestazione delle circostanze aggiunte, richiesta dall’art. 2734 c.c. per escluderne il valore di prova legale e renderle liberamente valutabili dal giudice, fosse sufficiente il fatto che l’attore aveva precisato le proprie conclusioni, all’apposita udienza fissata dal tribunale, conformemente a quelle contenute in citazione, insistendo per la natura gratuita dell’atto. Secondo la ricorrente l’assunto della corte territoriale sarebbe elusivo del contenuto precettivo dell’art. 2734 c.c., dovendosi al contrario ritenere che la norma richieda una contestazione chiara e specifica, cioè una condotta processuale di contrasto che si manifesti successivamente all’assunzione della prova, nella specie pacificamente non tenuta.
3.3. Il motivo merita accoglimento.
3.3.1. Appare opportuno ricordare che per “confessione complessa” si intende la fattispecie contemplata nella prima parte dell’art. 2734 c.c., in cui all’ammissione di fatti a sé sfavorevoli il confitente accompagna quella di altri fatti o circostanze tendenti a infirmare l’efficacia del fatto confessato ovvero a modificarne od estinguerne gli effetti. In questa ipotesi, ai sensi della seconda parte del medesimo articolo, le dichiarazioni fanno piena prova nella loro integrità se l’altra parte non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte, mentre in caso di contestazione l’efficacia probatoria delle dichiarazioni è rimessa al libero apprezzamento del giudice. Nella specie il giudice d’appello, nel ritenere che la contestazione della “confessione complessa” può essere anche implicita, purché inequivoca, come nel caso in cui la controparte del confitente ribadisca conclusioni “il cui accoglimento sarebbe incompatibile con le dichiarazioni aggiunte”, ha fatto applicazione di un principio enunciato in un precedente assai risalente di questa Corte (Cass. n. 1453/1978) che il Collegio non ritiene di poter condividere. E ciò già per la ragione che nell’attuale processo di cognizione ordinaria l’udienza di precisazione delle conclusioni è sostanzialmente superflua (e viene usualmente utilizzata dal giudice come udienza di smistamento), perché la parte, a differenza di quanto previsto dal codice di rito ancora vigente nel 1978 c.c. (e fino all’entrata in vigore della riforma di cui alla l. n. 393/90), non può più modificare la domanda né può richiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova. Ne consegue che mentre nella disciplina anteriore il richiamo della parte alle medesime conclusioni rassegnate nell’atto introduttivo poteva forse anche assumere un significato ulteriore (ovvero essere interpretato come espressione della volontà di contestare tutte le contrarie emergenze processuali, ivi comprese quelle risultanti dalla confessione complessa della controparte, perché altrimenti la domanda avrebbe potuto essere modificata), nella disciplina odierna esso va inteso come semplice manifestazione della volontà della parte di non rinunciare alla domanda avanzata in citazione, che non risulta in alcun modo collegata ad un’implicita contestazione del fatto sfavorevole dichiarato dalla controparte.
D’altro canto è la lettera dell’art. 2734 c.c. a deporre nel senso che la contestazione debba essere manifestata in modo esplicito e diretto, perché, essendo volta a contrastare “la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte” dal confitente, deve avere un contenuto oppositivo rispetto alle dichiarazioni aggiunte. Infine, che l’onere di contestazione, previsto espressamente dall’art. 2734 cod. civ. con le conseguenze processuali sopra richiamate, richieda un quid pluris rispetto alla mera conferma della volontà processuale di ottenere l’accoglimento della domanda giudiziale, lo si ricava anche dall’interpretazione evolutiva formatasi in ordine alla nozione di “fatti non specificamente contestati” di cui all’art. art. 115, 1° comma, c.p.c. (cfr. Cass. nn. 9439/022, 26908/020, secondo cui il convenuto, a fronte di una chiara allegazione dell’attore in punto di fatto, ha l’onere di prendere posizione in modo analitico sulle circostanze di cui intenda contestare la veridicità). In buona sostanza, la contestazione rilevante in giudizio - ai fini dell’apprezzamento da parte del giudice dei fatti che debbono ritenersi provati o non provati - deve risolversi in una condotta processuale attiva; e, se è pur vero che l’art. 2734 c.c. non richiede una contestazione “specifica” delle dichiarazioni del confitente, ciò non significa che non sia necessaria una manifestazione espressa di volerle avversare, configurantesi come esplicazione di un onere processuale ontologicamente e strutturalmente diverso rispetto a quello della richiesta di accoglimento della domanda giudiziale.
3.3.2. Va dunque enunciato il seguente principio di diritto: “In caso di dichiarazioni aggiunte dal confitente alla confessione, ai sensi dell'art 2734 cod civ, la contestazione della controparte - che impedisce alle dichiarazioni del confitente di fare piena prova nella loro integrità e permette al giudice di apprezzarle liberamente – deve essere manifestata in modo espresso, non potendo invece risultare, in modo implicito, dalla mera richiesta, in sede di precisazione delle conclusioni, di accoglimento della domanda incompatibile con le predette dichiarazioni aggiunte”.
4. Restano assorbiti il secondo e il terzo motivo del ricorso, con i quali, in via logicamente subordinata al rigetto del primo, B.D. lamenta di essere stata condannata al pagamento della rivalutazione monetaria sulla somma di euro 10.000 determinata a titolo di controvalore dell’azienda ceduta, in violazione sia degli artt. 329, 342 e 112 c.p.c. - non avendo il Fallimento impugnato la decisione del primo giudice di sua condanna al pagamento sul tantundem dei soli interessi legali - sia dei principi giurisprudenziali elaborati, in tema di revocatoria, in ordine alla natura dell’obbligazione restitutoria dell’accipiens.
5. I motivi successivi, riferibili a entrambe le ricorrenti incidentali, investono i capi della sentenza impugnata che, nel rigettare gli appelli proposti contro la prima decisione, hanno accolto le domande attrici di revocatoria fallimentare, ex art. 67, 1° comma n.1 l. fall., e di revocatoria ordinaria degli atti di trasferimento degli immobili commerciali.
5.1.Con il quarto motivo P. e D. denunciano, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 67, 1° comma n. 1 l. fall. e dell’art. 2697 cod. civ.; sostengono che, nell’intento di far rientrare forzatamente la fattispecie degli accordi di cui all’art. 158 c.c. nella categoria degli atti revocabili per sproporzione, la corte di merito avrebbe tralasciato di applicare la costante giurisprudenza di legittimità secondo cui l’onere della prova rispetto alla revocatoria di una transazione che si assume sproporzionata incombe sulla parte che ha proposto l’azione e ha ad oggetto il valore della rinuncia operata dalla controparte; deducono, in particolare, che nella specie il Fallimento non avrebbe neppure allegato i fatti indicativi della sproporzione e che il giudice d’appello, nel superare indebitamente le carenze probatorie avversarie, non sarebbe comunque andato oltre asserzioni generiche.
5.2. Il motivo va dichiarato inammissibile perché, sotto l’apparente denuncia della violazione dell’art. 2697 c.c. (come noto configurabile soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata e qui meramente enunciata ma non illustrata), si risolve nella generica contestazione dell’apprezzamento delle risultanze di causa compiuto dalla corte del merito, che ha chiaramente indicato quelle da cui ha tratto il proprio convincimento in ordine alla sproporzione fra i reciproci vantaggi ed obblighi assunti dai coniugi nell’accordo di separazione (trasferimento alla moglie da parte di F.D., oltre che della casa familiare, anche degli unici due immobili di sua proprietà produttivi di un reddito, a fronte della mera promessa di P. di rinunciare ad eventuali, future pretese, priva di effettivo contenuto in ragione delle gravi difficoltà economiche in cui già all’epoca il marito si dibatteva).
6. Con il quinto motivo le ricorrenti incidentali censurano la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 67, 1 comma, n. 1, l. fall., in relazione all’art. 158 c.c., sul rilievo che la corte d’ appello avrebbe erroneamente apprezzato la natura di transazione e di atto oneroso nell’accordo raggiunto in sede di separazione e di omologazione della stessa.
6.1 Il motivo è, al pari del precedente, inammissibile perché volto ad ottenere un nuovo apprezzamento in fatto, esulante dal sindacato di questo giudice di legittimità, in ordine al contenuto negoziale degli accordi intervenuti fra le parti in sede di separazione ed alla loro qualificazione giuridica in termini, o meno, di transazione.
7. Il sesto e il settimo motivo denunciano vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, sul presupposto dell’ applicabilità, nella specie, del previgente testo dell’art. 360 1° comma n. 5 cit..
7.1 I motivi , che si fondano su un presupposto palesemente errato, posto che l’attuale testo della disposizione si applica a tutte le sentenze che siano state pubblicate a partire dall’11 settembre 2012 (art. 54, comma 3, d.l. n. 83/012 conv. dalla l. n. 134/012), vanno dichiarati inammissibili ai sensi dell’u. comma dell’art. 348 ter c.p.c., (anch’esso applicabile a tutte le sentenze pubblicate dall’11 settembre 2012) a norma del quale, in caso di cd. “doppia conforme”, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) del primo comma dell’art. 360 c.p.c.. All’accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale, con assorbimento del secondo e del terzo, conseguono la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio della causa alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione, che si atterrà al principio di diritto sopra enunciato e liquiderà anche le spese di questo giudizio di legittimità fra la sola B.D. e il Fallimento controricorrente.
Le spese del giudizio fra il ricorrente principale e la ricorrente incidentale A.P. vanno invece interamente compensate in ragione della reciproca soccombenza. Non v’è luogo alla liquidazione delle spese fra il Fallimento e la Banca rimasta intimata.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale; accoglie il primo motivo di ricorso incidentale, assorbiti il secondo e il terzo; dichiara inammissibili i restanti motivi del ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Firenze che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità fra B.D. e il Fallimento della B. s.a.s.; dichiara interamente compensate le spese di questo giudizio fra il Fallimento e A.P.. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13. Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2023