1. Con il ricorso si censura, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.; 28, 29 e 30 della I. n. 794 del 1942; 68 della legge professionale forense n. 1578 del 1933, ed in particolare, si lamenta che la Corte distrettuale, nonostante l'accordo conciliativo (con cui è stata implicitamente riconosciuta la fondatezza delle pretese della ricorrente) fosse intervenuto in corso di causa e senza la «partecipazione>> del legale della medesima - il quale era stato escluso dalla sottoscrizione del verbale di conciliazione e, pertanto, non aveva neppure rinunciato ai vincolo di solidarietà professionale ex art. 68 L.P. - avrebbe arbitrariamente disposto la compensazione delle spese di lite sul presupposto che non fosse possibile ricorrere allo speciale procedimento previsto dagli artt. 28, 29 e 30 del R.d.l. n. 794 del 1942, trattandosi di procedura attivabile dal difensore solo dopo la decisione della causa e non fosse possibile applicare l'art. 92 c.p.c. per assenza di previsione di liquidazione dì spese, in favore dell'avvocato della ricorrente, nel verbale di conciliazione.
1.1. Il motivo non è meritevole di accoglimento.
Invero, la Corte di merito ha, innanzitutto, ricostruito la sequenza fattuale, sottolineando che, in data 19.10.2009, la K.S. «ha inoltrato alla Commissione di Conciliazione istituita presso la Direzione Provinciale del Lavoro di Roma la richiesta di espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione ai sensi del 'art. 410 c.p.c.» e che la Commissione ha convocato le parti per il giorno 13.1.2010, ma che, «in quell'occasione, la discussione è stata rinviata al 29.4.2010, stante l'assenza della lavoratrice»; ha, altresì, dato atto del fatto che, a tale ultima data, «in assenza del legale della ricorrente, le parti hanno conciliato la lite con la stipulazione di un accordo transattivo che prevedeva il contestuale pagamento, in favore della K.S., della complessiva somma di C 2.700,00, a fronte della sua rinuncia ad ogni altra pretesa ricollegabile al rapporto di lavoro intercorso con la controparte». Successivamente, in data 4.6.2010, il ricorso è stato notificato alla datrice di lavoro la quale, costituendosi in giudizio, ne ha eccepito la inammissibilità, essendo intervenuta la predetta conciliazione. All'udienza fissata per la discussione della causa, il difensore della ricorrente ha chiesto che venisse applicata «per la liquidazione delle spese, ai sensi dell'art. 68 della legge professionale forense, il rito camerale (artt. 218, 29 e 30 r.d.l. n. 794/1942) con eventuale trasmissione del fascicolo al presidente della sezione».
Tutto ciò premesso, questo Collegio osserva che, correttamente ed in adesione agli arresti giurisprudenziali dì legittimità, ì giudici di seconda istanza hanno confermato la sentenza di prime cure relativamente alla statuizione di rigetto della richiesta di attivazione della procedura di liquidazione dei compensi prevista dagli artt. 28, 29 e 30 del R.d.l. n. 794 del 1942, in quanto tale procedura può essere attivata dal difensore solo «dopo la decisione della causa o l'estinzione della procura» per ottenere la liquidazione del compenso dovuto dal proprio cliente, mentre, una volta incardinata la lite con il deposito del ricorso, la controversia deve essere definita con sentenza che provveda anche sulle spese, ai sensi degli artt. 91 e segg. del codice di rito.
Sempre correttamente, la Corte distrettuale ha osservato - riformando, sul punto, la decisione del primo giudice - che, nella fattispecie, con tale pronunzia doveva essere dichiarata la cessazione della materia del contendere, poiché nelle cause soggette all'applicazione del rito del lavoro la litispendenza si determina con il deposito del ricorso nella cancelleria del giudice competente e non con la notifica (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 4676/1992); per la qual cosa, l'avvenuta conciliazione dopo il deposito del ricorso ha determinato, nella pendenza della lite, la cessazione della materia del contendere. Peraltro, avuto riguardo al disposto dell'art. 92, terzo comma, c.p.c., i giudici di secondo grado hanno condivisibilmente disposto la compensazione delle spese di lite, non avendo le parti disposto diversamente nel verbale di conciliazione.
Va, infine, osservato che, conformemente ai principi costantemente enunciati da questa Corte (cfr., ex multis, Cass. nn. 14193/2010; 1899/1986), l'art. 68 della legge professionale forense non può essere applicato quando la causa sia definita con una pronunzia di cessazione della materia del contendere per intervenuta conciliazione, in quanto la predetta disposizione, nello stabilire che tutte le parti che hanno conciliato la lite sono solidalmente obbligate al pagamento degli onorari ed al rimborso delle spese in favore degli avvocati che hanno partecipato al giudizio definito in quella sede, fa riferimento agli accordi attraverso i quali le parti siano pervenute alla cessazione della lite senza la pronunzia giudiziale e non già ad ipotesi, quale quella di cui si tratta, in cui vi sia stata una decisione del giudice, seppure soltanto finalizzata a provvedere sulle spese. In tali ipotesi, infatti, manca il presupposto stesso per l'applicazione dell'art. 68 citato, «il quale implica l'esistenza di un accordo diretto, appunto, a sottrarre al giudice anche la pronunzia sulle spese».
2. Per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato.
3. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
4. Avuto riguardo all'esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 1.000,00, di cui Euro 800,00 per compensi professionali ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15°/0 ed accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, 18 gennaio 2018