Giu In tema di esenzione degli interessi all’imposta ex art. 26 quater, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 spetta alla società contribuente, che ne adduca la qualità, la prova di essere il “beneficiario effettivo"
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V CIVILE - SENTENZA 28 febbraio 2023 N. 6061
Massima
«In tema di esenzione dalle imposte sugli interessi (e sui canoni) corrisposti a soggetti residenti in Stati membri dell’Unione europea, nonostante la comune matrice antielusiva, gli artt. 26 e 26-quater, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, come le altre disposizioni tributarie antielusive (quali, per es., la disciplina del transfer pricing, le norme in tema di società non operative o di comodo, il c.d. “valore normale” nei diversi contesti delle IIDD, Iva, doganale), non sono sussumibili entro l’art. 37-bis, d.P.R. n. 600 del 1973, anche per quanto attiene alle prescrizioni endoprocedimentali recate da quest’ultimo (quali, per es., l’obbligo del contraddittorio preventivo e della motivazione rafforzata dell’atto impositivo)»;

«In tema di esenzione degli interessi (e di altri flussi reddituali) dall’imposta ex art. 26 quater, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in applicazione dell’ordinario riparto dell’onere probatorio tra fisco e contribuente, nonché per il principio di vicinanza della prova, spetta alla società contribuente, che ne adduca la qualità, la prova di essere il “beneficiario effettivo”; a tal fine è necessario che essa superi tre test, autonomi e disgiunti, (i quali, in rapporto alla fattispecie concreta, prendono in considerazione dei “parametri spia” o “indici segnaletici”): (i) il substantive business activity test, che verifica se la società percipiente svolga un’attività economica effettiva; (ii) il dominion test, che verifica se la società percipiente possa disporre liberamente degli interessi ricevuti o se invece sia tenuta a rimetterli ad un soggetto terzo; (iii) il business purpose test, che verifica le ragioni dell’interposizione di una società nel flusso reddituale transfrontaliero, e cioè se la società percipiente abbia una funzione nell’operazione di finanziamento, o se invece sia una mera conduit company (o société relais), la cui interposizione è finalizzata esclusivamente ad un risparmio fiscale».

Casus Decisus
1. Il giudizio ha per oggetto l’impugnazione degli avvisi di accertamento, relativi ai periodi di imposta 2010 e 2011, per l’omessa applicazione della ritenuta a titolo di imposta ex art. 26, comma 5, d.P.R. n. 600 del 1973, sugli interessi passivi corrisposti da R. s.p.a. (“R.”), successivamente incorporata dalla ricorrenteE.P. s.p.a., in favore di G. S.E.I. S.p.a. (“G. E.”), già denominataE.I. s.p.a. (“E. Italia”), sulla base di contratti di finanziamento. 2.R. e G. E. (già denominata E. Italia) appartenevano al gruppo belga ELECTRABEL SA (divenuto in seguito gruppo francese G. S., ora gruppo E.); R., come le altre società operative italiane, fruiva di una linea di finanziamento da parte della consociata lussemburghese E.I.L. sa (“EI.”). Nel corso del 2006, nel contesto di un progetto di ristrutturazione finanziaria dell’intero gruppo, E. Italia acquistò tutte le partecipazioni nelle società operative italiane, assumendo il ruolo di subholding, ed EI. acquistò il 45 per cento del capitale sociale di E. Italia. In un momento successivo, E. Italia e EI. sottoscrissero un accordo (credit facility agreement) con il quale EI. cedeva a E. Italia i diritti e gli obblighi derivanti dai contratti di finanziamento stipulati con le società operative, compresa R.; contestualmente, per procedere all’acquisizione dei crediti di EI. verso dette società operative, E. Italia e EI. conclusero un secondo accordo (credit facility agreement) con il quale EI. concedeva a E. Italia un finanziamento di importo pari ai crediti oggetto di acquisizione. 3.Secondo l’Amministrazione finanziaria, data la corrispondenza e la sostanziale parità fra i flussi di reddito intercorsi tra R. ed E. Italia e quelli rimessi da quest’ultima a EI., vista l’assenza di compenso o il compenso irrisorio a fronte dell’attività di rifinanziamento delle società del gruppo, si doveva considerare il pagamento degli interessi come effettuato direttamente dalla società operativa R. alla finanziaria EI., con conseguente obbligo, in capo a R., di operare 3 di 20 la ritenuta ex art. 26, comma 5, d.P.R. n. 600 del 1973, riguardante l’applicazione della ritenuta a titolo d’imposta, nel caso di corresponsione di interessi su finanziamenti da una società residente ad una non residente, nella misura del 10 per cento, stabilita dall’art. 11, par. 2, della convenzione tra Italia e Lussemburgo per evitare le doppie imposizioni del 3 giugno 1981. L’accertamento oggetto di questo giudizio ha escluso, invece, l’applicazione dell’art. 26-quater, d.P.R. n. 600 del 1973, che prevede l’esenzione da imposta degli interessi pagati a società residenti in altri Stati membri dell’Unione europea, ritenendo l’Amministrazione che, al fine di usufruire della cennata esenzione da imposta, E. Italia avesse svolto il ruolo di società conduit dei flussi finanziari (recte, degli interessi) diretti alla società lussemburghese EI., che era il “beneficiario effettivo” degli stessi redditi, ma non presentava i requisiti per l’esenzione. 4. La Commissione tributaria provinciale di Roma ha accolto i ricorsi riuniti della contribuente, con sentenza che è stata riformata dalla decisione della Commissione tributaria regionale del Lazio indicata in epigrafe, ravvisando la violazione dell’art. 26, comma 5, d.P.R. n. 600 del 1973, che impone l’applicazione di una ritenuta a titolo d’imposta, in caso di corresponsione di interessi su finanziamenti da una società residente ad una non residente, ed ha escluso che potesse farsi applicazione dell’art. 26-quater, d.P.R. n. 600 del 1973, che prevede l’esenzione da imposta degli interessi pagati a società residenti in altri Stati membri dell’Unione europea. Infatti, secondo il giudice d’appello, il “beneficiario effettivo” dei flussi finanziari provenienti dalla debitrice R. non era G. E. (già E. Italia), ma EI., quale soggetto non residente. Pertanto, G. E. era solo una società conduit degli interessi pagati da R., da ritenersi, al fine della disciplina fiscale, versati da quest’ultima al “beneficiario effettivo” (EI.). 5. La contribuente ricorre, con sette motivi, per la cassazione della sentenza di appello; l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso. Il P.G. ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto « di accogliere il settimo motivo, assorbiti i restanti, cassare la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di II grado in diversa composizione.». Entrambe le parti hanno depositato memoria

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V CIVILE - SENTENZA 28 febbraio 2023 N. 6061 CIRILLO ETTORE

1.Con il primo motivo di ricorso [«1. Violazione e falsa applicazione degli artt. 26, comma 5 e 26-quater del d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art. 360, comma primo, n.3), c.p.c.»], la ricorrente censura la sentenza impugnata che avrebbe illegittimamente 4 di 20 statuito che la ritenuta a titolo d’imposta prevista dall’articolo 26, comma 5, si applica al “beneficiario effettivo” degli interessi, sebbene questi non sia titolare giuridico dei medesimi redditi. Sulla premessa che è pacifico che R. ha corrisposto interessi esclusivamente in favore della subholding italiana G. E., unico titolare giuridico delle somme dovute a fronte del finanziamento erogato, e che, negli anni 2010 e 2011, la stessa R. non ha mai pagato alcunché a EI. o ad altre società non residenti, la ricorrente lamenta che la C.T.R. ha enunciato l’erroneo principio di diritto per cui un soggetto residente (sostituto d’imposta) è tenuto ad applicare la ritenuta alla fonte sui redditi di capitale (interessi su mutuo) corrisposti ad un soggetto parimenti residente. Sotto altro profilo, si imputa alla sentenza impugnata di avere esteso all’àmbito “domestico” i presupposti di applicazione del regime di esenzione da ritenuta, e, in particolare, la nozione di “beneficiario effettivo” (articolo 26-quater) in attuazione della direttiva 2003/49/CE (c.d. direttiva IRD).

2.Con il secondo motivo [«2. Violazione e falsa applicazione dell’art. 26-quater del d.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 26, comma 5, del medesimo decreto nonché violazione degli artt. 1, 3 e 5 della direttiva n. 2003/49/CE e del principio di libertà di stabilimento di cui agli artt. 43 e ss. del Trattato della Comunità europea, vigente ratione temporis, in relazione all’art. 360, comma primo, n.3), c.p.c.»]. Premette la ricorrente che, per il giudice tributario di appello, G. E. « società italiana "percettrice" era del tutto priva di ogni potestà decisionale, dal momento che le disponibilità finanziarie corrisposte dalla R. spa affluivano in effetti sui suoi conti ma con preciso vincolo di destinazione», in favore di EI.; di talché « tale società italiana rivestiva solamente il ruolo di mera canalizzatrice dei flussi finanziari costituiti dagli interessi, verso la società lussemburghese, effettiva beneficiaria.». Tanto premesso, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere violato la direttiva IRD e il principio di libertà di stabilimento sancito dal TFUE, i quali ostano a che venga negato ad un gruppo societario, stabilito nell’Unione europea, il diritto di articolare la propria struttura di controllo e di finanziamento al fine di fruire del beneficio dell’esenzione dalla ritenuta sugli interessi, in assenza di alcun accertamento circa la natura di “puro artificio” della costruzione giuridica utilizzata per conseguire tale beneficio. Sotto altro profilo, la ricorrente censura la sentenza impugnata che, violando gli scopi e le finalità della direttiva IRD, in primo luogo, comporta una palese doppia imposizione giuridica in capo all’asserita percipiente EI., che si trova a essere incisa, in Italia, dall’assoggettamento alla ritenuta sugli interessi corrisposti da R. a G. 5 di 20 E., e in Lussemburgo dal concorso alla formazione della propria base reddituale degli interessi attivi percepiti a fronte del finanziamento in essere con la subholding; in secondo luogo, è causa di una manifesta disparità di trattamento di EI. rispetto alle società residenti che si trovino in analoghe situazioni, le quali non sopportano alcuna doppia imposizione; in terzo luogo, determina una doppia imposizione economica su un unico flusso reddituale, poiché i medesimi interessi vengono tassati (in Italia) due volte in capo a soggetti diversi, ossia in capo a EI. e alla subholding G. E.. Sotto un ulteriore profilo, si denuncia l’illegittimità della sentenza impugnata poiché la direttiva IRD osta a che sia negato il diritto di fruire dell’esenzione dalla ritenuta sui finanziamenti infragruppo qualora venga accertato che il beneficiario degli interessi sia non soltanto un soggetto parte del medesimo gruppo societario, ma, anche, un soggetto residente in uno Stato membro dell’Unione. 3. Il terzo motivo reca la «Richiesta di rimessione alla Corte di giustizia dell’Unione Europea affinché si pronunci, in via pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, sulla compatibilità degli artt. 26, comma 5 e 26-quater, del d.P.R. n. 600/1973, come interpretati dalla CTR, con gli artt. 1, 3 e 5 della direttiva e con la libertà di stabilimento di cui agli artt. 43 e ss. del Trattato».

4.Con il quarto motivo [«4. Violazione e falsa applicazione dell’art. 26-quater del d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art. 360, comma primo, n.3), c.p.c.»], (cfr. pagg. 33 ss. del ricorso per cassazione) «logicamente subordinato rispetto ai precedenti», la ricorrente premette che « nell'affermare l'obbligo di R. di applicare la predetta ritenuta, la CTR, facendo propria la tesi di cui agli avvisi di accertamento oggetto del presente giudizio, ha implicitamente escluso che il "ricostruito" sostanziale pagamento di interessi asseritamente intercorso tra R. e EI. sia assoggettabile al regime di esenzione di cui al citato art. 26-quater del d.P.R. n. 600/1973. Ciò, evidentemente, nel presupposto per cui difetterebbe, nella specie, il requisito della partecipazione qualificata “diretta” tra EI. e la R. previsto dalla lett. b) del comma 2 di tale disposizione normativa, in attuazione dell'art. 3, comma 1, lett. b) della Direttiva.». Tanto premesso, la ricorrente censura la sentenza impugnata che, da un lato, afferma che ai fini dell’obbligo di applicare la ritenuta, rileva la titolarità “sostanziale” (attribuita al “beneficiario effettivo”) degli interessi e non la titolarità “giuridico-formale” delle medesime somme in capo alla subholding G. E.; dall’altro, ai fini dell’esenzione dalla ritenuta, attribuisce rilevanza alla pura forma dei contratti di società e perviene all’implicita, ma necessaria, conclusione che EI. non può godere dell’esenzione da ritenuta in difetto del presupposto di applicazione del beneficio, quale il requisito della partecipazione qualificata diretta, la cui sussistenza consegue, invece, alla natura di subholding di G. E., e cioè di soggetto meramente interposto anche nella catena di partecipazione (e controllo) che lega la società lussemburghese EI. alla società operativa italiana R.. 5. Il quinto motivo reca la «Richiesta di rimessione alla Corte di giustizia dell’Unione Europea affinché si pronunci, in via pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, sulla compatibilità degli artt. 26-quater, del d.P.R. n. 600/1973, come interpretati dalla CTR, con gli artt. 1, 3 e 5 della direttiva e con la libertà di stabilimento di cui agli artt. 43 e ss. del Trattato». In particolare, la ricorrente chiede di sottoporre alla Corte di giustizia la questione pregiudiziale «[se,] nell’ipotesi in cui sia legittimo affermare che deve essere negato il diritto di un soggetto residente in uno Stato membro dell’Unione alla fruizione del regime di esenzione da ritenuta previsto dalla Direttiva sugli interessi corrisposti da una subholding residente in uno Stato membro qualora tale subholding non possieda la titolarità ‘sostanziale’ dei medesimi interessi percepiti da un altro soggetto residente nel medesimo Stato membro e parte del medesimo gruppo societario, […] il requisito della partecipazione qualificata ‘diretta’ previsto dall’art. 3, comma 1, lett. b) della Direttiva al fine di fruire del predetto regime di esenzione debba essere anch’esso interpretato in senso ‘sostanziale’ e, dunque, quale rapporto diretto tra il ‘titolare’ sostanziale degli interessi e il soggetto pagatore dei medesimi interessi». 6. Il sesto motivo reca la «Richiesta di rimessione alla Corte di giustizia dell’Unione Europea affinché si pronunci sulla compatibilità dell’art. 3, comma 1, lett. b) della Direttiva con la libertà di stabilimento di cui agli artt. 43 e ss. del Trattato». 7.Con il settimo motivo [«7. Violazione e falsa applicazione dell’art. 37-bis, del d.P.R. n. 600/1973 e del principio del contraddittorio in materia di contestazioni fondate sul principio del divieto di abuso del diritto di cui agli artt. 3, 24 e 53 Cost., in relazione all’art. 360, comma primo, n.3), c.p.c.»], la ricorrente, sull’assunto che la questione già dedotta in sede di ricorso introduttivo è stata devoluta al giudice tributario di appello, censura la sentenza impugnata che, pur riconducendo la fattispecie concreta alle figure dell’elusione o dell’abuso del diritto, a causa dell’interposizione di una società conduit nel flusso reddituale, non ha dichiarato l’illegittimità della pretesa impositiva per violazione delle garanzie procedimentali (quali l’obbligo del contraddittorio preventivo e della motivazione rinforzata dell’avviso di accertamento), poste a tutela del contribuente, a norma dell’art. 37-bis, d.P.R. n. 600 del 1973. 7 di 20 8. Il primo, il secondo e il quarto motivo, da esaminare insieme per connessione, non sono fondati. 9.Al fine di meglio rimarcare i profili essenziali della lite, che il giudice tributario di appello ha correttamente individuato, è utile innanzitutto ricordare che l’avviso di accertamento contesta alla contribuente la violazione dell’art. 26, comma 5, d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 26-quater, del medesimo decreto, per avere corrisposto alla subholding G. E. (già E. Italia) gli interessi sul finanziamento ricevuto, senza operare la prescritta ritenuta, benché la società italiana non fosse il “beneficiario effettivo” del flusso reddituale e ricoprisse il ruolo di mera società conduit rispetto ad EI., società di diritto lussemburghese, appartenente al medesimo gruppo, da considerarsi essa il “beneficiario effettivo” degli interessi. Pertanto, la controversia si colloca, sul piano normativo, nel perimetro della direttiva 2003/49/CE (c.d. direttiva IRD) - che è alla base dell’introduzione, nella normativa nazionale, del ridetto articolo 26-quater - sulla quale si innestano rilevanti decisioni della Corte di giustizia e di questa sezione tributaria: Corte giust. 26 febbraio 2019, nelle cause riunite C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16; Corte giust. 26 febbraio 2019, nelle cause riunite C-116/16, C-117/16, (tali decisioni vengono indicate come le “sentenze danesi”: la prima pronuncia [di seguito più volte richiamata] riguarda la materia degli interessi passivi su finanziamenti; la seconda pronuncia attiene all’esenzione da imposta dei dividendi distribuiti da società di uno Stato membro a società di altri Stati membri); Cass. 10/07/2020, n. 14756; Cass. 30/09/2019, n. 24297. 10. Delineate, sinteticamente, la normativa e la giurisprudenza sovranazionale e di legittimità cui occorre fare riferimento, va rilevato che la direttiva IRD prevede sì l’obbligo generale dello Stato di residenza di assoggettare a tassazione il soggetto destinatario degli interessi (dei canoni etc.), ma fa salva l’applicazione della c.d. clausola del beneficiario effettivo (beneficial owner). A chiarirlo è la stessa Corte di giustizia (sent. 26 febbraio 2019, nelle cause riunite C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C299/16), secondo cui lo scopo della direttiva è di assicurare ai flussi di interessi (etc.) tra consociate (o stabili organizzazioni di consociate) di due diversi Stati membri, (beninteso) in possesso dei necessari requisiti applicativi, il trattamento fiscale ad essi riservato nelle operazioni intercorse all’interno di un unico Stato membro. A tal fine si dispone che gli interessi (etc.) siano esenti dalla ritenuta nello Stato della fonte, per essere assoggettati ad imposta una sola volta nello Stato di residenza del creditore, il quale deve esercitare il potere impositivo che gli è stato affidato in via esclusiva (ibidem, punti 151 e 152).

11. Il regime fiscale dei flussi transfrontalieri di interessi impone, pertanto, di stabilire se il percettore “formale” ne sia o meno il beneficiario effettivo, senza tralasciare che, per la direttiva IRD (art. 1, par. 4), «Una società di uno Stato membro è considerata beneficiario effettivo di interessi o canoni soltanto se riceve tali pagamenti in qualità di beneficiaria finale e non di intermediaria, quale agente, delegato o fiduciario di un’altra persona» (in termini, Cass. n. 14756/2020, cit., pagg. 8-9). Pertanto, l’indagine sul beneficiario effettivo s’interseca necessariamente con la verifica del ruolo concretamente assunto dalla società intermediaria (conduit company o société relais), con l’ulteriore notazione, da parte dalla dottrina, che nell’ordinamento eurounitario la clausola del beneficiario effettivo ha lo scopo di impedire che possa attuarsi una particolare forma di abuso, tanto delle convenzioni contro le doppie imposizioni che della stessa direttiva IRD, mediante l’interposizione, reale (se la società esiste effettivamente) o fittizia (se la società è una costruzione puramente artificiosa, c.d. letter box), di società conduit in un flusso reddituale transfrontaliero. Infatti, può accadere che, tramite la società relais, il soggetto interponente fruisca di un regime impositivo di favore - che, altrimenti, gli sarebbe precluso a causa del luogo di residenza o per la mancanza dei requisiti oggettivi e soggettivi previsti dalla normativa unionale e da quella degli Stati membri – per una finalità di ottimizzazione del carico fiscale complessivo gravante sul flusso transfrontaliero.

12. In termini generali, tuttavia, l’abuso in senso tecnico - che è una costruzione artificiosa per cui la società di un gruppo è posta nelle condizioni di beneficiare delle esenzioni fiscali concesse dalla direttiva IRD e dalla normativa nazionale di recepimento – va tenuto distinto dalla verifica se la società percettrice dei flussi reddituali risponda o meno ai requisiti per fruire di vantaggi che, altrimenti, non le sarebbero dovuti. Infatti, una cosa è l’abuso del diritto, altra sono i requisiti da soddisfare affinché spettino i benefìci riconosciuti da disposizioni ispirate ad una finalità antiabusiva (ed è quest’ultimo il campo nel quale s’inscrive la figura del beneficiario effettivo). Si tratta di diversi piani di indagine, anche dal punto di vista della concreta attività accertatrice e della ripartizione, tra fisco e contribuente, dell’onere della prova (cfr. infra, punto 13). In sostanza, come è stato ben sottolineato in dottrina, l'abuso in senso tecnico e, cioè, la pratica di porsi artificiosamente nelle condizioni per beneficiare delle esenzioni concesse dalle (normative di recepimento delle) Direttive, differisce dai comportamenti interessati da specifiche previsioni che pure siano ispirate da finalità antiabuso, le quali, nell'ambito delle Direttive, sono tipicamente concepite come requisiti da soddisfare affinché spettino i benefici tributari. Infatti, laddove tali comportamenti siano posti in essere e siano nondimeno invocati i vantaggi tributari previsti dalle Direttive, non si è tecnicamente in presenza di abuso, dato che il contribuente non ha in realtà soddisfatto i requisiti per beneficiare di tali vantaggi, che dunque non spettano. In particolare, la condizione di “beneficiario effettivo” degli interessi costituisce appunto un requisito da soddisfare affinché spettino i benefici concessi dalla direttiva e, come tale, non deve essere confuso con l'applicazione delle norme antiabuso. Sotto il profilo logico, deve innanzitutto stabilirsi se il percipiente sia o meno il “beneficiario effettivo" degli interessi o canoni secondo la definizione fornita dalla normativa di recepimento della direttiva interessi-royalties, e qualora la risposta sia negativa i benefici della direttiva non spettano e possono essere disconosciuti senza ricorrere a tali norme.

13. In merito alla clausola, cruciale, del “beneficiario effettivo”, il percorso argomentativo della Corte di giustizia (sent. 26 febbraio 2019, nelle cause riunite C115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16) chiarisce che «il termine “beneficiario effettivo” non è utilizzato in un’accezione ristretta e tecnica, bensì deve essere esteso nel suo contesto alla luce dell’oggetto e dell’obiettivo della convenzione, segnatamente per evitare le doppie imposizioni nonché prevenire la frode e l’evasione fiscale» (cfr. punto 6 della decisione che richiama il punto 8 del Commentario OCSE, edizione 2003. Tale aspetto è precisato ulteriormente nell’edizione 2017 del Commentario, par. da 9 a 14, dove, in particolare al par. 9.1., si puntualizza che, proprio in ragione della finalità antielusiva della clausola: «The term “beneficial owner” is therefore not used in a narrow technical sense (such as the meaning that it has under the trust law of many common law countries), rather it should be understood in its context, in particular in relation to the words “paid to a resident”, and in light of the object and purposes of the convention, including avoiding double taxation and the prevention of fiscal evasion and avoidance»).

14. L’individuazione del “beneficiario effettivo”, talvolta non disgiunta dall’interferenza di una società “conduit”, non può prescindere da un approfondito scrutinio della fattispecie concreta ad opera del giudice di merito, che sia idoneo a gettare luce sulla sostanza economica dell’operazione finanziaria. Al riguardo, la già citata Cass. n. 14756/2020 (la quale richiama Cass. 28/12/2016, n. 27112, in materia di dividendi; cfr., altresì, le sentenze “gemelle” nn. 27113/2016, 27115/2016, 10 di 20 27116/2016) afferma che una subholding pura – che è sufficiente abbia una struttura “leggera”, ma adeguata - può essere considerata “beneficiario effettivo” degli interessi (etc.) all’esito della valutazione di una serie di “parametri spia”, che indicano la padronanza e l’autonomia di gestione del flusso di reddito, nonché l’assenza di indici di artificiosità e di abusività, come delineati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Inoltre, considerato che la condizione di “beneficiario effettivo” degli interessi costituisce un requisito da soddisfare affinché spettino i benefici concessi dalla direttiva, lo Stato d’origine può imporre alla società percettrice degli interessi di dimostrare di esserne il beneficiario effettivo, nel senso di rappresentare l’entità che benefici effettivamente, sotto il profilo economico, degli interessi percepiti e disponga, pertanto, del potere di deciderne liberamente la destinazione (Corte di giustizia, sent. 26 febbraio 2019, nelle cause riunite C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16, cit., punti140-145 e 122, primo trattino). Spetta quindi alla società contribuente, anche per il principio di vicinanza della prova (art. 2697, cod. civ.), dimostrare di essere il “beneficiario effettivo”, sul piano sostanziale e non meramente formale (in termini, Cass. n. 17746/2021); invece, in caso di superamento del primo step di verifica, in ossequio alla regola generale sull’onere della prova, all’Amministrazione spetterà dimostrare l’eventuale abuso del diritto e la sussistenza di una costruzione artificiosa.

15. L’indagine si articola in tre test, autonomi e disgiunti, come denominati dalla dottrina, la quale ha razionalizzato i princìpi cardine enunciati dalla giurisprudenza, comunitaria e di legittimità, e dalle Corti anglosassoni e mitteleuropee in noti leading case:

(i) il substantive business activity test;

(ii) il dominion test;

(iii) il business purpose test. Il primo test mira a verificare se la società interposta sia o meno una costruzione artificiosa in quanto, per i princìpi generali del diritto dell’Unione europea, gli Stati membri non possono avvalersi in maniera fraudolenta e abusiva delle norme di diritto eurounitario. Se una società non supera la prova dello svolgimento di un’attività economica effettiva, si è in presenza di un abuso e alla società non è precluso soltanto di fruire del regime fiscale riservato dalla IRD (2003/49) al beneficiario effettivo, ma anche di avvalersi del fascio di libertà e diritti riconosciuti dal TFUE. Con il dominion test - che è il centro dell’indagine e, prescindendo da costruzioni artificiose, punta al cuore del significato economico dell’operazione (substantial economic effect) - si valuta la capacità della società di disporre liberamente degli interessi percepiti, se cioè essa sia o meno il beneficiario effettivo. Il “dominio” degli interessi ricevuti si ha quando la percipiente ne può disporre liberamente e non è tenuta a rimettere il flusso reddituale a un terzo (che può essere anche una società appartenente allo stesso gruppo multinazionale). L’obbligazione restitutoria può risultare da un contratto o può essere desunta da elementi fattuali, quali, a titolo di esempio: il ristretto arco di tempo tra la ricezione degli interessi e il pagamento della rata del finanziamento ricevuto; la regolarità dei trasferimenti alla controllante; l’esiguità del margine di guadagno sugli interessi ricevuti; l’identità del management della società interposta e di quella destinataria finale del flusso reddituale; la circostanza che la società interposta non abbia deliberato il finanziamento, che non ne sopporti il rischio, o, ancora, che non possa rinunciare alle somme prestate (in termini, Cass. nn. 32840/2018, 32842/2018, in materia di royalties; Cass. n. 26920/2022, in materia di dividendi). Se una società non supera il dominion test non può essere considerata il beneficiario effettivo, ma non le è precluso di godere degli altri diritti e libertà sanciti dalla normativa europea. Il business purpose test indaga sulle ragioni della deviazione del flusso reddituale, onde appurare se la “triangolazione” sia finalizzata soltanto al risparmio fiscale o se invece risponda ad altre motivazioni economiche.

16. Da un’ultima angolazione, per la Corte di giustizia si può verificare se la società terza per la quale agisce la società conduit abbia in proprio i requisiti per fruire del regime di esenzione della convenzione o della direttiva e, in caso di risposta affermativa, il beneficio fiscale deve essere riconosciuto (c.d. approccio look through). Infatti, per i Giudici del Lussemburgo (ibidem, punto 94) «la sola circostanza che la società percettrice degli interessi in uno Stato membro non ne sia il “beneficiario effettivo” non esclude necessariamente l’applicabilità dell’esenzione prevista dall’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 2003/49. È, infatti, concepibile che gli interessi medesimi siano esentati a tal titolo, nello Stato della fonte, nel caso in cui la società percettrice ne trasferisca l’importo ad un beneficiario effettivo stabilito nell’Unione che risponda peraltro a tutti requisiti indicati dalla direttiva 2003/49 ai fini del beneficio dell’esenzione». L’ approccio look through, in ogni caso, resta circoscritto al perimetro applicativo della direttiva, in quanto « solamente un’entità stabilita nell’Unione può costituire un beneficiario effettivo degli interessi, idoneo a godere dell’esenzione prevista dall’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 2003/49» (punto 89 della citata sentenza). Tanto meno il look through approach può essere utilizzato per riconoscere il regime di esenzione della direttiva ad un beneficiario effettivo che, per quanto residente all’interno dell’Unione, sia tuttavia privo dei requisiti tassativamente richiesti. Al riguardo, è lo stesso art. 3, comma 1, lett. b), della direttiva IRD (tradotto nell’ordinamento interno dall’art. 26-quater, comma 2 , lett. b), del d.P.R. n. 600 del 1973), che – con chiarezza letterale tale da non dare adito a dubbi o divergenze nella sua interpretazioneconfigura la partecipazione rilevante necessariamente come «diretta» e consente agli Stati membri di sostituire, come ha fatto l’Italia, il criterio della partecipazione di una quota minima nel capitale con quello di una quota minima «dei diritti di voto». In questo senso, del resto, questa Corte ha già chiarito che «In tema di agevolazioni, ai fini dell'applicazione dell'art. 26-quater, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973, il quale dispone l'esenzione dalle imposte sugli interessi e sui canoni corrisposti a soggetti residenti in Stati membri dell'Unione europea, la detenzione, da parte della società che riceve il pagamento dei canoni o interessi, del 25% dei diritti di voto nella società che effettua il pagamento deve essere diretta, sicché la stessa non può essere anche indiretta in quanto, per un verso, trattandosi di disposizione avente natura agevolativa, è di stretta interpretazione e, per un altro, tale interpretazione è conforme all'art. 3 della direttiva Consiglio 2003/49/CE.» (Cass. 30/09/2019, n. 24297). 16.1. Non è quindi condivisibile la tesi della società (illustrata nel sesto motivo, in correlazione con il quarto e con il quinto) che mira a superare il significato letterale, univoco, del requisito della “partecipazione qualificata diretta” tra consociata di uno Stato membro che paga gli interessi e beneficiaria (tramite la subholding residente nel medesimo Stato membro) di tali interessi residente in altro Stato membro, con il triplice obiettivo (prospettato dalla contribuente) di assicurare realmente la parità di trattamento fiscale delle operazioni nazionali e delle operazioni transfrontaliere, di agevolare la realizzazione e il funzionamento del mercato interno, e di evitare la discriminazione tra gruppi societari (come il gruppo ELECTRABEL/G. S.) strutturati secondo uno schema partecipativo “verticale” (che prevede la presenza di una subholding in diversi Stati membri) rispetto ai gruppi articolati secondo un sistema “stellare”, in cui un’unica capogruppo controlla direttamente tutte le società “operative” consociate. La previsione di requisiti stringenti di partecipazione diretta tra società consociate in rapporto, per esempio, ai criteri meno rigorosi della direttiva 90/435/CEE (c.d. direttiva madre-figlia) ha resistito, finora, ad alcune proposte di modifica della Commissione europea (cfr., per es., la proposta 2011/0314 dell’11/11/2011, citata dalla contribuente, e l’analoga iniziativa della Commissione del novembre 2017, che si è arenata per le notevoli divergenze tra gli Stati membri) che, per simmetria con la direttiva madre 13 di 20 figlia, mirano a prendere in considerazione le partecipazioni societarie indirette e all’abbassamento dal 25 per cento al 10 per cento della soglia richiesta per considerare le società “consociate”. A distanza di molti anni dall’entrata in vigore della IRD (2003/49), è probabile che la ragione del mancato allineamento dell’àmbito di applicazione personale delle due direttive sia riconducibile non soltanto alla finalità di limitare l’impatto della stessa IRD (2003/49) sul gettito fiscale degli Stati membri, ma anche all’esigenza (enunciata nel considerando 6 di quest’ultima direttiva) di evitare di precludere agli Stati membri la possibilità di adottare le misure appropriate per combattere le frodi e gli abusi. In altri termini, sulla premessa che la IRD (2003/49), in accordo con il TFUE, mira a porre rimedio alle barriere fiscali al mercato interno, l’attuale rilevanza del requisito della partecipazione diretta tra le società di diversi Stati membri appare coerente con la finalità – non solo agevolativa, ma anche antiabuso – della IRD (2003/49), a fronte della funzione puramente espansiva della direttiva madre-figlia, in un orizzonte di garanzia della parità delle armi a disposizione degli enti che operano sul mercato unico UE.

17. Chiudendo pertanto l’intero ragionamento, vanno enunciati i seguenti princìpi di diritto: In base alla corretta esegesi della direttiva IRD, fornita dalle “sentenze danesi”, pertanto, va enunciato il seguente principio di diritto:

«(a) «In tema di esenzione dalle imposte sugli interessi (e sui canoni) corrisposti a soggetti residenti in Stati membri dell’Unione europea, nonostante la comune matrice antielusiva, gli artt. 26 e 26-quater, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, come le altre disposizioni tributarie antielusive (quali, per es., la disciplina del transfer pricing, le norme in tema di società non operative o di comodo, il c.d. “valore normale” nei diversi contesti delle IIDD, Iva, doganale), non sono sussumibili entro l’art. 37-bis, d.P.R. n. 600 del 1973, anche per quanto attiene alle prescrizioni endoprocedimentali recate da quest’ultimo (quali, per es., l’obbligo del contraddittorio preventivo e della motivazione rafforzata dell’atto impositivo)»;

(b) «In tema di esenzione degli interessi (e di altri flussi reddituali) dall’imposta ex art. 26 quater, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in applicazione dell’ordinario riparto dell’onere probatorio tra fisco e contribuente, nonché per il principio di vicinanza della prova, spetta alla società contribuente, che ne adduca la qualità, la prova di essere il “beneficiario effettivo”; a tal fine è necessario che essa superi tre test, 14 di 20 autonomi e disgiunti, (i quali, in rapporto alla fattispecie concreta, prendono in considerazione dei “parametri spia” o “indici segnaletici”): (i) il substantive business activity test, che verifica se la società percipiente svolga un’attività economica effettiva; (ii) il dominion test, che verifica se la società percipiente possa disporre liberamente degli interessi ricevuti o se invece sia tenuta a rimetterli ad un soggetto terzo; (iii) il business purpose test, che verifica le ragioni dell’interposizione di una società nel flusso reddituale transfrontaliero, e cioè se la società percipiente abbia una funzione nell’operazione di finanziamento, o se invece sia una mera conduit company (o société relais), la cui interposizione è finalizzata esclusivamente ad un risparmio fiscale».

18. Tornando ai motivi di ricorso, la sentenza impugnata si attiene ai citati princìpi giurisprudenziali, e, alla stregua di un accertamento di fatto che spetta esclusivamente al giudice di merito, seguendo un percorso argomentativo sufficientemente chiaro e lineare, che evoca e definisce i “poteri di dominio e di controllo sul reddito” percepito, afferma che non si deve applicare l’esenzione dalla ritenuta ex art. 26-quater, dato che la subholding italiana è un soggetto interposto nel flusso reddituale transfrontaliero in quanto (cfr. ultima pagina della decisione) «la società italiana “percettrice” era del tutto priva di ogni potestà decisionale, dal momento che le disponibilità finanziarie corrisposte dalla “R. spa” affluivano in effetti sui suoi conti, ma con il preciso vincolo di destinazione, ossia l’adempimento degli impegni assunti, per cui tale società italiana, al di là delle pur evidenziate dimensioni in termini patrimoniali ed economici, invero inconferenti per giustificare la legittimità dell’operato, rivestiva solamente il ruolo di mera canalizzatrice dei flussi finanziari costituiti dagli interessi, verso la società lussemburghese, effettiva beneficiaria.».

19. Quanto all’approccio look through, è la stessa ricorrente che, nel quarto motivo ( pag. 34 s. del ricorso; nello stesso senso, a proposito degli avvisi d’accertamento, cfr. pag. 12 del ricorso), deduce che la ratio decidendi della sentenza impugnata presuppone, implicitamente, ma necessariamente, l’accertamento in fatto che difetti, nella specie, il requisito della partecipazione qualificata diretta ( almeno il 25% del diritto di voto ) di EI. in R., previsto dalla lett. b) del comma 2 dell’art. 26-quater del d.P.R. n. 600 del 1973. Né, comunque, la ricorrente ha impugnato tale accertamento ( peraltro assistito dalla c.d. doppia conformità di cui all’art.348-ter, quinto comma, cod. proc. civ.) ed affermato in contrario che, nel caso di specie, EI. (beneficiario effettivo del pagamento) detenesse direttamente una percentuale non inferiore al 25 per cento dei diritti di voto nella R. (società che ha effettuato il pagamento). Circostanza che tanto meno risulta dalla ricostruzione della fisionomia della catena partecipativa rappresentata nel ricorso (cfr. pagg. 7 ed 8), nella quale il segno grafico continuo rappresentante (come da legenda) il “rapporto di partecipazione”, non collega EI. a R.. Altra questione (sulla quale si è già argomentato ai punti 15 e 15.1), che non contraddice tale dato oggettivo, è quella, prospettata dalla ricorrente nel quarto motivo (e nei correlati quinto e sesto, sui quali infra), relativa alla rilevanza di un rapporto di partecipazione, del beneficiario effettivo degli interessi nei confronti della società che li paga, che non sia “diretto”.

20. L’ accertamento compiuto dalla C.T.R. consente di superare le censure esposte nei motivi di ricorso in esame, le quali poggiano su circostanze diverse da quelle ricostruite in sede di merito. In particolare: quanto al primo motivo, il giudice di appello ha escluso il carattere meramente “domestico” dell’operazione che, in realtà, consiste in un pagamento transfrontaliero di interessi; in relazione al quarto motivo, dai fatti di causa non risulta che EI. detenesse una partecipazione diretta, ovvero una percentuale non inferiore al 25 per cento dei diritti di voto, nella R., come richiesto dalla direttiva e dalla norma nazionale.

21. È altresì scongiurato il pericolo, prospettato nel secondo motivo, di una doppia imposizione giuridica e/o economica e della conseguente disparità di trattamento rispetto a società residenti. E tale considerazione prescinde dalla prospettabile carenza di interesse della contribuente a fare valere il divieto della doppia imposizione, dato che ad essere illegittimamente inciso sarebbe il patrimonio della società lussemburghese finanziatrice, non quello della ricorrente (società finanziata). In disparte l’altrettanto prospettabile inammissibilità della questione, la quale non risulta essere stata proposta dalla contribuente nei gradi di merito, ed in particolare nell’atto introduttivo del giudizio di merito, i cui motivi sono stati elencati nello stesso ricorso per cassazione (cfr. pagg. 12 s.). Fermo restando che la questione della violazione del divieto di doppia imposizione di cui al motivo in esame non coincide con quella, residuale, che, in subordine ad altri rilievi, chiedeva l’applicazione, in base alla convenzione tra Italia e Francia, dell’aliquota ridotta del 10 per cento in luogo di quella ordinaria del 12,5 per cento, ed è stata accolta già dalla CTP. Va rimarcata, poi, la genericità della critica, sollevata con il quarto motivo, non supportata da elementi oggettivi idonei ad attestare che il pertinente reddito sia stato assoggettato a doppia imposizione.

22. In ultima analisi, sul punto, è convincente l’articolata obiezione della difesa erariale secondo cui, come extrema ratio, le disposizioni sovranazionali e convenzionali prevedono degli strumenti contro le doppie imposizioni, capaci di favorire la realizzazione e il funzionamento del mercato unionale. E infatti, da un lato, la società lussemburghese EI. aveva la possibilità di scontare, nel proprio sistema fiscale, la ritenuta subìta all’estero; dall’altro, è sempre possibile accedere alle procedure amichevoli contro le doppie imposizioni previste dagli artt. 6 e seguenti della convenzione 90/436/CEE del 23/07/1990 (ratificata con legge 22 marzo 1993, n. 99), relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate. Più specificamente, in relazione al primo aspetto, giova ricordare che, a norma dell’art. 24, par. 1, della convenzione tra Italia e Lussemburgo contro le doppie imposizioni, se un residente nel Lussemburgo possiede redditi che, in base alla stessa convenzione, sono imponibili in Italia, può essergli riconosciuta un’esenzione da imposta di tali redditi, oppure può essere accordata una deduzione dell’imposta prelevata sui redditi del detto residente di ammontare pari all’imposta pagata in Italia.

23. La corretta interpretazione della chiara normativa sovranazionale, specie alla luce della già richiamata giurisprudenza comunitaria, in rapporto alle circostanze del caso concreto, quali accertate dal giudice tributario di appello, e l’assenza del rischio di violazione del divieto di doppia imposizione, fanno sì che non sia necessario il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia - richiesto dalla contribuente con il terzo, il quinto e il sesto motivo – onde verificare la compatibilità degli articoli 26 e 26-quater con la direttiva IRD e con la libertà di stabilimento di cui agli artt. 49 [43 del TCE] e seguenti TFUE. A prescindere dalla considerazione che il principio eurounitario intorno al quale ruota la controversia è piuttosto quello della libera circolazione di capitali (art. 63 TFUE), occorre aggiungere che l’articolo 26-quater, nel prevedere l’esenzione dalle imposte sugli interessi corrisposti a soggetti residenti in Stati membri dell’UE al ricorrere di determinati requisiti e condizioni, segue la linea tracciata dalla direttiva IRD. Più in generale, diversamente da quanto adombra la ricorrente, il sistema giuridico multilivello – eurounitario, convenzionale e domestico – poggia su solide fondamenta. A proposito del tema dei flussi reddituali transfrontalieri (interessi, royalties, dividendi), la clausola generale del “beneficiario effettivo”, quale asse portante dell’ordinamento fiscale internazionale, come ricorda Cass. n. 14756/2020 (in connessione con Cass. nn. 32840/2018, 32842/2018, in materia di royalties; Cass. nn. 14527/2019, 24287/2019, 26290/2022, in materia di dividendi; Cass. 24297/2019 in materia di interessi), ha lo scopo di «impedire che i soggetti possano abusare dei trattati fiscali attraverso pratiche di treaty shopping, con lo scopo di riconoscere la protezione convenzionale a contribuenti che, altrimenti non ne avrebbero avuto diritto o che avrebbero subìto un trattamento fiscale, comunque, meno favorevole. Il treaty shopping implica lo sfruttamento delle differenze nei trattati stipulati fra le varie nazioni, mediante la frapposizione di un soggetto residente in uno Stato terzo (conduit) nel flusso reddituale tra lo Stato della fonte e quello del beneficiario effettivo. Pertanto, può fruire dei vantaggi garantiti dai trattati il “beneficiario effettivo”, ossia solo il soggetto sottoposto alla giurisdizione dell’altro Stato contraente, che abbia l’effettiva disponibilità giuridica ed economica del provento percepito, realizzandosi altrimenti una traslazione impropria dei benefìci convenzionali o addirittura un fenomeno di non imposizione» (su questi temi, cfr. Cass. 16/12/2015, n. 25281).

24. Neppure può condividersi l’ esegesi della normativa eurounitaria sostenuta dalla ricorrente quando afferma ( pag. 30 del ricorso, all’interno del secondo motivo) che «la facoltà riconosciuta dall’art. 5 della […] Direttiva agli Stati membri di adottare misure volte a contrastare l’elusione delle previsioni in essa contenute [è] destinata esclusivamente ad evitare che, attraverso l’indebito sfruttamento del regime di esenzione, gli interessi “esentati” siano convogliati in favore di un soggetto residente in un paese terzo non membro dell’Unione europea, mentre non riguarda affatto l’ipotesi in cui il “beneficiario effettivo” di tali interessi sia un soggetto residente in uno Stato dell’Unione». A giudizio del Collegio, invece, come già evidenziato ai punti 9 ss. che precedono, tutt’altra è la corretta chiave di lettura delle disposizioni di diritto europeo, avendo la stessa Corte di giustizia (sent. 26 febbraio 2019, nelle cause riunite C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16) inequivocabilmente chiarito che lo scopo della direttiva è di assicurare ai flussi di interessi (e royalties) tra consociate (o stabili organizzazioni di consociate) di due diversi Stati membri, (beninteso) in possesso dei necessari requisiti applicativi, il trattamento fiscale ad essi riservato nelle operazioni intercorse all’interno di un unico Stato membro. A tal fine si dispone che gli interessi (e le royalties) siano esenti dalla ritenuta nello Stato della fonte, per essere assoggettati ad imposta una sola volta nello Stato di residenza del creditore, il quale deve esercitare il potere impositivo che gli è stato affidato in via esclusiva (ibidem, punti 151 e 152). Il regime fiscale dei flussi transfrontalieri di interessi impone, pertanto, di stabilire se il percettore sia o meno il beneficiario effettivo, secondo i principi già esposti.

25. Quanto poi alla questione relativa al requisito della partecipazione diretta, valga richiamare, in questa sede, quanto già anticipato ai punti 16 e 16.1 che precedono.

26. Non si può inoltre dimenticare che «[…] non v’è diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale ogniqualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive (Cass., S.U., 8.7.2016, n.14043), bastando che le ragioni siano espresse (Corte EDU, in caso Ullens de Schooten e Rezabek c. Belgio), specie quando l’interpretazione della norma e del caso siano evidenti (Cass., S.U., 24.5.2007, n.12067), e la corretta interpretazione della norma di diritto di cui trattasi non lasci spazio a nessun ragionevole dubbio (Raccomandazioni 2016. C- 439.01, § 6)». (Cass. Sez. U., 19/06/2018, n. 16157, in motivazione, punto 5.5.; nello stesso senso, ex multis, Cass. 25/02/2022, n. 6332, punto 6.2. – in continuità con Cass. 7/06/2018, n. 14828; Cass. 16/06/2017, n. 15041 - secondo cui il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea presuppone il dubbio interpretativo su una norma comunitaria, che non ricorre allorché l’interpretazione sia auto-evidente oppure il senso della norma sia già stato chiarito da precedenti pronunce della Corte, non rilevando, peraltro, il profilo applicativo di fatto, che è rimesso al giudice nazionale). E anche la Corte costituzionale (Corte cost. n. 28 del 2010, in motivazione al punto 6) ha ritenuto che sia da escludere il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, non «necessario quando il significato della norma comunitaria sia evidente, anche per essere stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia». Per la Corte di giustizia (C. giust., 6.10.1982, C-283/81, Cilfit; cfr. altresì C. giust. 5/04/2016, C689/13, Puligienica Facility Esco. Cfr., in termini, C. giust. 28/07/2016, C-379/15, Association France Nature Environnement) viene meno l’obbligo di rinvio pregiudiziale allorquando la corretta applicazione del diritto dell’Unione europea si imponga con un’evidenza tale da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da fornire alla questione sollevata (c.d. teoria dell’ acte clair) che, in base alle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione ed alle difficoltà particolari relative alla sua interpretazione, si imponga anche agli altri giudici nazionali e alla Corte (C.giust.,15/12/2022, C-144/22)

27. Esclusa (per le suindicate ragioni l’ipotesi della doppia imposizione tra Stati membri dell’UE, non è condivisibile la tesi della società (illustrata nel sesto motivo di ricorso e nella memoria) di superare il significato letterale del requisito della “partecipazione qualificata diretta” tra consociata di uno Stato membro che paga gli interessi e beneficiaria (tramite la subholding residente nel medesimo Stato membro) di tali interessi residente in altro Stato membro, con il triplice obiettivo (prospettato dalla contribuente) di assicurare realmente la parità di trattamento fiscale delle operazioni nazionali e delle operazioni transfrontaliere, di agevolare la realizzazione e il funzionamento del mercato interno, e di evitare la discriminazione tra gruppi societari (come il gruppo ELECTRABEL/G. S.) strutturati secondo uno schema partecipativo “verticale” (che prevede la presenza di una subholding in diversi Stati membri) rispetto ai gruppi articolati secondo un sistema “stellare”, in cui un’unica capogruppo controlla direttamente tutte le società “operative” consociate. Al riguardo, Cass. n. 24297/2019 ha chiarito che l’interpretazione dell’articolo 26-quater, che ha natura di agevolazione tributaria, deve essere restrittiva, nel senso che la detenzione della società che riceve il pagamento non inferiore al 25 per cento del capitale o dei diritti di voto nella società che effettua il pagamento, in accordo con il dato testuale della IRD (2003/49), non può che essere “diretta”. La previsione di requisiti stringenti di partecipazione diretta tra società consociate in rapporto, per esempio, ai criteri meno rigorosi della direttiva 90/435/CEE (c.d. direttiva madre-figlia) ha resistito, finora, ad alcune proposte di modifica della Commissione europea (cfr., per es., la proposta 2011/0314 dell’11/11/2011, citata dalla contribuente, e l’analoga iniziativa della Commissione del novembre 2017, che si è arenata per le notevoli divergenze tra gli Stati membri) che, per simmetria con la direttiva madre-figlia, mirano a prendere in considerazione le partecipazioni societarie indirette e all’abbassamento dal 25 per cento al 10 per cento della soglia richiesta per considerare le società “consociate”. A distanza di molti anni dall’entrata in vigore della IRD (2003/49), è probabile che la ragione del mancato allineamento dell’àmbito di applicazione personale delle due direttive sia riconducibile non soltanto alla finalità di limitare l’impatto della IRD (2003/49) sul gettito fiscale degli Stati membri, ma anche all’esigenza (enunciata nel considerando 6 di quest’ultima direttiva) di evitare di precludere agli Stati membri la possibilità di adottare le misure appropriate per combattere le frodi e gli abusi. In altri termini, sulla premessa che la IRD (2003/49), in accordo con il TFUE, mira a porre rimedio alle barriere fiscali al mercato interno, l’attuale rilevanza del requisito della partecipazione diretta tra le società di diversi Stati membri appare coerente con la finalità – non solo agevolativa, ma anche antiabuso – della IRD (2003/49), a fronte della funzione puramente espansiva della direttiva madre-figlia, in un orizzonte di garanzia della parità delle armi a disposizione degli enti che operano sul mercato unico UE.

Il settimo motivo non è fondato.

Come già rilevato ante (passim, ed in particolare ai punti 11 ss.), malgrado la matrice antielusiva degli articoli 26 e 26-quater, non bisogna confondere i precetti in essi contenuti con la disciplina dell’articolo 37-bis. In effetti, a giudizio della Corte, le disposizioni antielusive che punteggiano la variegata normativa tributaria (si pensi al transfer pricing, alle disposizioni sulle società non operative o di comodo, al c.d. “valore normale” nei diversi contesti delle IIDD, Iva, doganale, etc.) non sono sovrapponibili alle prescrizioni (quali quelle endoprocedimentali del contraddittorio preventivo e dell’obbligo della motivazione rinforzata dell’atto impositivo) dell’articolo 37-bis (o dell’abuso innominato). In altre parole, la sentenza impugnata, nel confermare la legittimità dell’accertamento, si è attenuta al seguente principio di diritto: «In tema di esenzione dalle imposte sugli interessi (e sui canoni) corrisposti a soggetti residenti in Stati membri dell’Unione europea, nonostante la comune matrice antielusiva, gli artt. 26 e 26-quater, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, come le altre disposizioni tributarie antielusive (quali, per esempio, la disciplina del transfer pricing, le norme in tema di società non operative o di comodo, il c.d. “valore normale” nei diversi contesti delle IIDD, Iva, doganale), non sono sussumibili entro l’art. 37-bis, d.P.R. n. 600 del 1973, anche per quanto attiene alle prescrizioni endoprocedimentali recate da quest’ultimo (quali, per es., l’obbligo del contraddittorio preventivo e della motivazione rinforzata dell’atto impositivo)».

25. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

26. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 10.000,00 a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio dell’ 8 febbraio 2023.