1. – Va premesso che non è necessaria la presenza in giudizio di Maria Luisa M., non essendo controverso che la medesima ? come affermano i resistenti, senza essere smentiti sul punto in memoria dai ricorrenti ? abbia fatto acquiescenza alla sentenza impugnata.
2. – Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 820, 1147 e 1148 c.c., perché le norme sulla tutela del possessore di buona fede prevedono che questo stato soggettivo sia presunto e che il possessore sia tenuto a restituire i frutti solo dalla domanda giudiziale: poiché i dividendi si iscrivono in tale categoria, ha errato la corte territoriale nel ritenere dovuti i dividendi sin da epoca anteriore alla domanda, introdotta con il ricorso monitorio notificato il 2-4 marzo 2004, laddove le azioni de quibus erano state ormai restituite il 21 novembre 2003, con conseguente insussistenza di qualsiasi debito. La buona fede va valutata al momento dell’acquisto dei fiduciari, nella specie avvenuto nel 1975, peraltro in via presuntiva, avendo la presunzione di buona fede nel possesso una portata generale; in ogni caso, trattandosi di cose di genere possedute unitamente a quelle in propria titolarità piena, non è dato stabilire se le azioni consegnate alla (erede del) fiduciante fossero quelle possedute in buona fede, oppure no, dai fiduciari, con ulteriore ragione per ritenere non dovuti in restituzione i frutti percepiti. Con il secondo motivo, si deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., oltre all’omesso esame di fatto decisivo, in quanto il diritto ai dividendi aveva già formato oggetto del giudizio conclusosi con la pronuncia di legittimità Cass. n. 13758/2003, onde sul punto si era formato il giudicato: il Tribunale aveva respinto tutte le domande con la sentenza n. 6 di 16 772/1994 e la sentenza della Corte d’appello n. 291/2000, confermata dalla Cassazione, aveva accolto soltanto la domanda di restituzione delle azioni, formandosi così il giudicato, almeno implicito, sulla domanda di restituzione anche dei frutti. Con il terzo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2946, 2948, n. 4 e 2949 c.c., perché al diritto preteso avrebbe dovuto applicarsi il termine di prescrizione quinquennale, sia in quanto il diritto di dividendi è soggetto alla prescrizione in materia societaria, sia perché è somma da pagarsi periodicamente; inoltre, l’eccezione di prescrizione almeno decennale, sollevata in via subordinata, avrebbe dovuto condurre all’accoglimento della stessa per i dividendi dal 1975 al 30 agosto 1986, mentre la corte territoriale l’ha respinta in toto, in violazione dell’art. 2946 c.c. Con il quarto motivo, si deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., oltre all’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, con riguardo al subordinato profilo del quantum, posto che l’avverso conteggio era stato contestato dai debitori sin dal primo grado e che non poteva invertirsi l’onere della prova, come ha invece operato la sentenza impugnata.
3. – Il primo motivo è infondato, anche se deve essere sul punto corretta la motivazione della sentenza impugnata.
3.1. – La vicenda concreta attiene alla domanda di versamento della somma pari ai dividendi percepiti dai fiduciari, nel corso del periodo di intestazione fiduciaria delle partecipazioni sociali, ma non riversati al fiduciante. La tesi dei ricorrenti è che, dovendo qualificarsi i dividendi azionari quali frutti civili delle partecipazioni, trovino applicazione gli artt. 1147, comma 3, e 1148 c.c., il primo che configura la buona fede come presunta, reputandola sufficiente al tempo dell’acquisto, il secondo che attribuisce al possessore di buona fede il diritto di mantenere i frutti civili maturati fino al giorno della domanda giudiziale. Questa tesi, tuttavia, non può essere accolta. Al rapporto che si instaura tra fiduciante e fiduciario in caso di intestazione delle partecipazioni sociali ed all’obbligo del secondo di riversare al primo quanto percepito in relazione alla sua qualità di intestatario reale delle azioni, ma astretto dal pactum fiduciae, non si applicano, invero, le disposizioni richiamate.
3.2. – Giova ricordare quanto questa Corte ha affermato in tema di intestazione fiduciaria di azioni e di quote societarie, osservando che, nel diritto comune dei contratti, l’intestazione fiduciaria è la situazione in cui il trasferimento del bene in favore del fiduciario viene limitato dall’obbligo inter partes del ritrasferimento, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae, laddove manca qualsiasi intento liberale e la titolarità creata si palesa «soltanto provvisoria e strumentale al ritrasferimento a vantaggio del fiduciante» (Cass. 14 luglio 2015, n. 14695 e Cass. 2 aprile 2009, n. 8024, in tema di immobili; Cass. 29 febbraio 2012, n. 3134, sull’azienda), al pari dello specifico negozio d’intestazione fiduciaria delle partecipazioni sociali, reputato strutturalmente composto da due atti, l’uno di carattere esterno ed efficace verso i terzi, l’altro inter partes ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo, per effetto dei quali l’interposto acquista la titolarità delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, ed a ritrasferirgliele ad una scadenza concordata, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario (Cass. 21 marzo 2016, n. 5507; 8 settembre 2015, n. 17785; 6 maggio 2005, n. 9402; 27 novembre 1999, n. 13261). E si è già precisato come, nel contratto in questione, la causa non risiede in sé né nel trasferimento del bene, né nella sostituzione al mandante nel compimento di specifici atti, ma nella combinazione dei due momenti, al fine di una cosiddetta “spersonalizzazione della proprietà”, onde può parlarsi di un contratto unitario avente una causa propria, pur nell’ambito del genus dell’agire per conto altrui, attesa la stretta e indissolubile connessione tra le varie pattuizioni, nelle quali il contratto formalmente si scompone, onde unitaria ne è la causa.
3.3. – La regola del possesso di buona fede e del diritto del possessore – per tale profilo prevalente, nella logica del legislatore, rispetto al proprietario – a conservare i frutti si fonda sull’esigenza di incentivare il valido sfruttamento produttivo del bene mediante un diritto oggettivo “premiale”, che assicura al possessore la possibilità di mantenere i frutti del suo operare. Il possesso di buona fede è visto con favore dall’ordinamento, in quanto utile a produrre ricchezza: il trattamento di favore del possessore in buona fede ex art. 1148 c.c. risponde allo scopo di favorire l’uso attivo, pur non titolato, del bene stesso. Ma niente di ciò si ravvisa nel diritto dei contratti e nella disciplina dell’adempimento ed inadempimento alle obbligazioni che ne scaturiscono (in questa sede e vicenda rilevanti). Il contratto di intestazione fiduciaria di partecipazioni sociali, al pari degli altri negozi, è fonte di obbligazioni (art. 1321 c.c.), dal cui inadempimento possono derivare svariate conseguenze, disciplinate dal diritto comune dei contratti: in particolare, all’inadempimento del fiduciario all’obbligo di corrispondere il denaro percepito in luogo del fiduciante a titolo di utili sociali si applica il regime delle obbligazioni pecuniarie e del loro inadempimento, senza interferenza con l’istituto del possesso quale potere di fatto sulla cosa, ai sensi dell’art. 1140 c.c. L’obbligo del fiduciario di riversare al fiduciante i benefici tratti dalla titolarità reale, ma strumentale, della quota o delle azioni – che caratterizza la stessa causa del negozio in questione – nulla ha a che vedere, infatti, con la situazione del possessore, chiamato a restituire al titolare del diritto soggettivo la res dal primo meramente assoggettata al suo (proficuo) potere di fatto. Se, invero, il favor per il possessore in buona fede, come esposto, mira a propiziare l’incremento dell’uso fattivo e produttivo del bene, tale scopo nelle concrete vicende che ne occupano non esiste affatto, venendo meno, pertanto, ogni necessità di privilegiare il soggetto in buona fede rispetto al suo contraddittore. La tesi qui non condivisa condurrebbe a conseguenze non razionali e contrarie al sistema: in presenza di una qualsiasi obbligazione contrattuale avente ad oggetto l’obbligo di consegnare una res, invero, ove questa fosse foriera di frutti o interessi, dovrebbe volta a volta verificarsi se – ad esempio – il venditore fosse in buona fede nel mancato rispetto del termine fissato per la consegna (art. 1476, n. 1, c.c.) o il compratore nel non corrispondere il prezzo entro il termine stabilito; ed, anzi, li si dovrebbe, sempre secondo quella tesi, senz’altro in via presuntiva reputare tali, negando di conseguenza, prima dell’eventuale domanda giudiziale della controparte, ogni diritto agli interessi e ai frutti, come pure, se si tratti di partecipazioni sociali, agli utili nel frattempo maturati (ma basti richiamare, ad esempio, la regola ex art. 1477, comma 2, c.c. sulla consegna della cosa, per la quale «Salvo diversa volontà delle parti, la cosa deve essere consegnata insieme con gli accessori, le pertinenze e i frutti dal giorno della vendita»). Al contrario, in questo, come in altri casi, lo stato soggettivo di buona o mala fede rileva semmai unicamente con riguardo alla domanda risarcitoria per il pregiudizio eventualmente cagionato, dove il dolo o la colpa costituiscono elementi soggettivi della fattispecie (peraltro, presunto l’inadempiente in colpa ex art. 1218 c.c.), ma non per l’obbligazione in sé di consegna anche dei frutti ricavati dal bene, in esecuzione del contratto: le quali – al pari dell’obbligo di restituire una res come nel caso in esame – seguono la regola della necessità dell’esecuzione della prestazione nel termine stabilito.
3.4. – È vero che sovente sono tradizionalmente qualificati come frutti civili anche gli utili, ritraibili dal bene oggetto del diritto partecipativo, percepiti nel periodo di titolarità delle azioni, che dunque vanno calcolati e restituiti al fiduciante, in caso di intestazione fiduciaria del pacchetto azionario e mancato versamento dei medesimi ad opera del fiduciario. La parte ricorrente segnala la motivazione di alcune decisioni di questa Corte (Cass., sez. un., 5 maggio 2011, n. 9839; Cass. 16 marzo 2018, n. 6664; Cass. 3 giugno 2020, n. 10505, in motivazione; adde Cass. 24 aprile 2018, n. 10116, in motiv.; Cass. 14 marzo 2017, n. 6575); sul piano eurounitario vi sono del pari pronunce in tal senso (Corte di giustizia UE 10 gennaio 2006, C-222/04; Tribunale Unione europea 16 giugno 2011, n. 208/08, 209/08; Tribunale Unione europea 13luglio 2011, n. 141, 142, 145, 146/07). Ma la questione è del tutto estranea alla controversia all’esame: ed invero, resta il fatto che, ai fini in discorso, irrilevante è un simile inquadramento, dovendosi concludere pur sempre nel senso che vada escluso il rilievo di interferenze di discipline aliene, come quella sul possesso ex art. 1148 c.c., nel regolare gli effetti dell’inadempimento all’obbligo di ritrasferimento delle partecipazioni sociali al fiduciante nell’intestazione fiduciaria delle azioni medesime, nonché del pagamento dei dividendi nelle more percepiti. Se il fiduciario risulta inadempiente all’obbligo di restituire le azioni, egli dovrà provvedere al ritrasferimento in favore del fiduciante. Ma non rileva se egli fosse in buona fede nell’esercitare i diritti di socio e riscuotere i dividendi, che dovranno essere riversati così come effettivamente percepiti, senza che all’obbligo in questione possa applicarsi la regola della debenza solo dalla domanda giudiziale. Venuta meno la funzione della causa fiduciae e richiesti indietro i titoli dal fiduciante, si palesa una condictio indebiti retenti: la stessa causa negoziale dell’intestazione fiduciaria rende automaticamente illegittima la ritenzione dei beni da parte del fiduciario. Se, quindi, il fiduciario non restituisce la res, semplicemente sarà inadempiente ad una obbligazione di dare; se non paga i dividendi ricevuti, semplicemente sarà inadempiente all’obbligazione pecuniaria di consegnare la relativa somma di denaro. Inoltre, non solo i dividendi sono dovuti al fiduciante, in adempimento della obbligazione détta, ma ad essi afferisce pure la regola della produzione degli interessi di pieno diritto, quali interessi corrispettivi ai sensi dell’art. 1282 c.c., ed in ogni caso – se in tal senso sia stata limitata la domanda attorea, come nella specie, nel rispetto dell’art. 99 c.p.c. – dalla M. in mora, ai sensi degli artt. 1219 e 1224 c.c. Nessun rilievo, al contrario, avrà lo stato di buona o mala fede del fiduciario, né, tanto meno, se il predetto stato soggettivo debba dirsi presunto, oppure no.
3.5. – Va enunciato il seguente principio di diritto: «In caso di intestazione fiduciaria di partecipazioni sociali, al fiduciario che non restituisca le azioni una volta richiesto dal fiduciante e non riversi al medesimo i dividendi azionari percepiti è inapplicabile il regime degli artt. 1147 e 1148 c.c. sul possesso di buona fede della cosa, risolvendosi per intero la vicenda 12 di 16 nell’ambito della disciplina delle obbligazioni e dei contratti, onde il fiduciario è tenuto a pagare quanto ricevuto a titolo di dividendi sin dal momento in cui li abbia riscossi dalla società, e sugli stessi sono altresì dovuti gli interessi di pieno diritto dallo stesso momento, o, in presenza di una domanda in tal senso limitata ex art. 99 c.p.c., dal giorno della M. in mora».
3.6. – In considerazione di quanto sopra, il primo motivo va respinto, previa correzione della motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 384, comma 4, c.p.c., essendo la conclusione in essa raggiunta conforme a diritto.
4. – Il secondo motivo è infondato. Il precedente ricorso per cassazione fu parzialmente accolto da questa Corte con la menzionata sentenza n. 24749 del 2014, la quale ha dettato principî di diritto sulla portata del giudicato esterno, statuendo che, qualora all’esito dell’esame della sentenza e degli atti di parte, eventualmente utilizzati in funzione interpretativa, residuino incertezze in ordine all’effettiva portata del giudicato, la relativa eccezione deve essere respinta; la pronuncia ha, altresì, affermato che l’esame degli atti difensivi, nella loro interezza, doveva servire anche a «verificare […] se la generica domanda di “corresponsione dei frutti maturati” potesse realmente ritenersi comprensiva dei dividendi delle azioni e, successivamente, se questa fosse stata concretamente coltivata dalle sorelle M. per l’intero corso del giudizio di primo grado». La corte territoriale, in adesione a tale principio di diritto, ha proceduto all’esame degli atti e dei provvedimenti del precedente giudizio, anzitutto sulla base della motivazione e del dispositivo della sentenza di primo grado, concludendo per l’insussistenza di una pronuncia sul punto e di un giudicato al riguardo. La sentenza impugnata eM. in sede di rinvio si è attenuta esattamente ai principî esposti dalla sentenza rescindente, avendo escluso la sussistenza del giudicato sui dividendi, esaminando sia il dispositivo, sia la motivazione della sentenza del Tribunale di Brescia n. 772/1994, nella quale non era menzione alla domanda relativa ai dividendi. La corte territoriale ha, inoltre, correttamente rilevato che la domanda di pagamento dei dividendi era stata abbandonata, situazione che comportava una tacita rinuncia alla medesima, ritenendo che la domanda non fosse stata coltivata dalla parte creditrice, argomentando adeguatamente con riguardo all’iter di quel giudizio: che aveva visto dapprima una pronuncia di rigetto per prescrizione del diritto, e, poi, l’accoglimento della sola domanda di consegna delle azioni. Ed invero, ne conseguiva che, avendo il difensore della parte creditrice validamente rinunciato al predetto capo, l’unica domanda su cui la sentenza di appello si è pronunciata è quella di condanna alla restituzione dei titoli azionari. Si ricorda che la rinuncia a una domanda, o a suoi singoli capi, costituisce l’espressione della facoltà della parte ed autonomamente del difensore, nell’esercizio del suo munus tecnico, di modificare le domande e le conclusioni precedentemente formulate, onde si inquadra nell’ambito della previsione dell’art. 183 c.p.c. e non produce effetti abdicativi, limitandosi ad esprimere una strategia processuale, senza disporre del diritto, ma potendo sempre il difensore scegliere, in relazione anche agli sviluppi della causa, la condotta processuale da lui ritenuta più rispondente all’interesse del proprio rappresentato (fra le tante, Cass. 17 marzo 2023, n. 7883; Cass. 8 gennaio 2002, n. 140; Cass. 15 maggio 1997, n. 4283); la rinuncia ad un capo della domanda rientra tra i poteri del difensore e può essere fatta senza l’osservanza di forme rigorose (cfr. Cass., sez. un., 14 marzo 2016, n. 4909, in motivazione; Cass. 24 settembre 2013, n. 21848; Cass. 11 agosto 2000, n. 10628, in motiv.; Cass. 10 aprile 1998, n. 3734; Cass. 15 14 di 16 maggio 1997, n. 4283; Cass. 28 gennaio 1995, n. 1047; Cass. 28 ottobre 1988, n. 5859). Dunque, tale abbandono o rinuncia determina la delimitazione del thema decidendum, e al riguardo non si può formare il giudicato. Il motivo di ricorso non tiene conto in alcun modo della sentenza rescindente e neppure si confronta con il decisum della Corte d’appello, che ad essa si è conformato. E la decisione impugnata non merita censure, dovendo al riguardo assumere rilievo solo la volontà espressa della parte, in ossequio al principio dispositivo che informa il processo civile (art. 99 c.p.c.).
4. – Il terzo motivo è parzialmente fondato. Non ha errato la sentenza impugnata a ritenere applicabile alla domanda di pagamento dei dividendi percetti dal fiduciario, e non riversati al fiduciante, la generale disposizione in tema di prescrizione dei diritti, di cui all’art. 2946 c.c. La decisione è coerente con i principî enunciati da questa Corte, secondo cui il termine di prescrizione quinquennale, previsto dall’art. 2949, comma primo, c.c. per «i diritti che derivano dai rapporti sociali» attiene solo a quei diritti derivanti dalle relazioni che si istituiscono fra i soggetti dell’organizzazione sociale in diretta dipendenza con il contratto di società e delle situazioni determinate dallo svolgimento della vita sociale, mentre ne restano esclusi tutti gli altri diritti, che trovano la loro ragion d’essere negli ordinari rapporti giuridici (cfr. Cass. 14 marzo 2017, n. 6561, in tema di azione di regresso spettante al socio che, avendo assunto con altri soci un debito per finanziare la società, si sia rivolto ad un altro socio per il recupero della sua quota; Cass. 5 luglio 2016, n. 13686; Cass. 24 giugno 2015, n. 13084, in tema di finanziamento del socio alla società; Cass. 27 luglio 2004, n. 14094; Cass. 1° giugno 1993, n. 6107). Resta, dunque, inapplicabile la prescrizione breve, qual è la prescrizione quinquennale di cui all’art. 2949 c.c., avente carattere speciale rispetto al regime prescrizionale ordinario. Neppure doveva applicarsi la disposizione dell’art. 2948, comma 1, n. 4, c.c., secondo cui è soggetto alla prescrizione di cinque anni il debito degli «interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi»: non rientra, invero, nella fattispecie il debito del fiduciario di riversare quanto riscosso in relazione alle azioni fiduciariamente intestate per conto del fiduciante, sia perché non si tratta di somme dovute per il godimento di un bene, sia perché l’obbligo gravante sul fiduciario di riversare gli utili non è in sé obbligazione periodica. Applicata correttamente la prescrizione decennale, era però a quel punto necessario escludere dalla condanna le pretese anteriori al decennio dall’invio della costituzione in mora, avvenuta, con accertamento fattuale della corte territoriale, il 30 agosto 1996: resta, dunque, erroneamente applicata la disposizione dell’art. 2946 c.c., perché il ragionamento svolto avrebbe dovuto condurre all’accoglimento della stessa per i dividendi maturati dal 15 luglio 1985 – momento da cui, come accertato in modo non contestato dalla corte territoriale, ha cominciato a decorrere la prescrizione in quanto il diritto poteva essere fatto valere (e non, dunque, come pretenderebbe la ricorrente, dal 1975, posto che sino al 1985 la prescrizione non è proprio decorsa ex art. 2935 c.c.) – al 30 agosto 1986.
5. – Il quarto motivo, con il quale la ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonché l’omesso esame di fatto decisivo con riguardo alla liquidazione operata dalla Corte d’appello circa la misura dei dividendi da restituire, è inammissibile, per genericità e per impingere nel merito del giudizio. Com’è noto, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie, basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass. 23 ottobre 2018, n. 26769) e non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova (Cass. 19 agosto 2020, n. 17313, fra le tante). Il motivo, inoltre, è generico e meritale, difettando pure di autosufficienza, perché non contiene la trascrizione né il riassunto dei prospetti contabili, prodotti dalla controparte, che si ritengono errati.
6. – In considerazione di quanto esposto, la sentenza impugnata va cassata in accoglimento del terzo motivo, con rinvio della causa innanzi alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione, per una nuova valutazione circa gli effetti della eccezione di prescrizione decennale. Alla corte territoriale si demanda la liquidazione delle spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, nei limiti di cui in motivazione, disattesi gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per la liquidazione delle spese di legittimità, innanzi alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 13 aprile