6. Il ricorso va rigettato.
6.1. Il primo motivo non è fondato.
6.1.1. Non sussiste alcun giudicato implicito, in relazione al (preteso) difetto di prova dell'inadempimento del OMISSIS, atteso che le affermazioni compiute, sul punto, dal Tribunale di Avezzano, lungi dall'integrare una seconda "ratio decidendi", anch'essa posta a fondamento del rigetto della domanda di responsabilità professionale proposta dalla B. nei confronti del Notaio omissis, costituiscono una enunciazione che non risulta espressiva di adempimento di un dovere di motivazione e, dunque, da censurarsi con l'esercizio del diritto di appello. Ciò, sia per il modo in cui è formulata e, dunque, sotto un profilo intrinseco, sia e soprattutto per il contesto in cui viene formulata. Sotto il profilo appena indicato si osserva quanto segue.
La pronuncia resa dal primo giudice - della quale può prendersi qui visione, attesa la natura di "error in procedendo" del vizio denunciato con il presente motivo di ricorso, ciò che rende questa Corte giudice anche del "fatto processuale" (cfr., tra le più recenti, Cass. Sez. Lav., sent. 5 agosto 2019, n. 20924, Rv. 654799-01) - risulta, infatti, così strutturata. Essa, dopo aver ricostruito (al p. 1) la vicenda portata all'esame dell'autorità giudiziaria e, in via di estrema sintesi, lo svolgimento del primo grado di giudizio, esordisce (al p. 2) con l'affermazione secondo cui quella del Notaio omissis è una responsabilità da valutarsi secondo i canoni di cui all'art. 1218 c.c., "in quanto connessa al presunto inadempimento di un contratto di prestazione d'opera intellettuale". Ciò premesso, dopo aver rammentato che - in base alla prospettazione della B. - il Notaio omissis avrebbe violato la L. 16 febbraio 1913, n. 89, art. 47, e ciò "con particolare riferimento alla volontà della odierna parte attrice, parte alienante, circa la clausola di rinuncia all'ipoteca legale prevista dall'art. 2817 c.c.", la sentenza del Tribunale avezzanese prosegue osservando che l'assunto attoreo "è generico in punto di allegazione, oltre ad essere rimasto del tutto sfornito di prova". Difatti, prosegue la pronuncia qui in esame, dall'istruttoria non sarebbe "emersa alcuna circostanza da cui desumere" che l'alienante "non avesse voluto l'inserimento della clausola di rinuncia all'ipoteca legale, chiaramente inserita nel corpo di ciascun atto in apposito articolo e perfettamente intellegibile dalla lettura dell'atto", non essendosi, poi, "neppure chiarito il motivo per cui parte attrice sarebbe incorsa in errore circa la clausola di rinuncia, cioè se tale errore sia stato determinato dalla condotta dell'altro contraente ovvero dallo stesso Notaio omissis rogante". Su tali basi, dunque, il Tribunale perveniva alla conclusione secondo cui, quantunque "la rinuncia all'ipoteca legale sia di per sè svantaggiosa per la parte rinunciante, ciò non è sufficiente al fine di ritenere integrata una responsabilità del Notaio omissis rogante", e ciò "in difetto di ulteriori elementi", pure individuati dalla giurisprudenza di legittimità, necessari perchè sia "ritenuta sussistente la responsabilità del Notaio omissis per violazione dell'art. 47 Legge Notarile". D'altra parte, sempre secondo il primo giudice, l'attrice non aveva "neppure specificamente dedotto il comportamento attivo o omissivo del Notaio omissis integrante il presunto illecito", donde l'insussistenza, anche sotto questo profilo, di qualsiasi sua responsabilità. Orbene, solo nelle ultime sei righe del p. 2 (poco prima che, al successivo p. 3, il Tribunale provvedesse sulle spese di lite), si legge in sentenza - con affermazione, tra l'altro, volutamente incidentale, come attesta la scelta di metterla tra parentesi - che "nessuna prova è stata fornita del presunto inadempimento" del C., per poi concludere come tale circostanza, al pari di quella della "possibile infruttuosità dell'azione esecutiva minacciata nei confronti del contraente inadempiente", potesse "rilevare sotto il profilo della causalità tra la condotta e il danno solo una volta dimostrata la fattispecie di illecito sotto un profilo oggettivo e soggettivo". Ebbene, proprio la circostanza che l'iter argomentativo seguito dal primo giudice avesse condotto il medesimo ad escludere che fosse stata "dimostrata la fattispecie di illecito", contestata al Notaio omissis, "sotto un profilo oggettivo e soggettivo", evidenzia la natura di argomentazione inespressiva di impegno motivazionale dell'affermazione - posta, non a caso, tra parentesi - relativa all'assenza di prova dell'inadempimento dell’C. Difatti, secondo il Tribunale, tale tema, che avrebbe potuto astrattamente rilevare "sotto il profilo della causalità tra la condotta" - addebitata Notaio omissis - "e il danno" (lamentato dalla B.), era, in concreto, rimasto privo di rilievo, atteso che esso sarebbe venuto in considerazione "solo una volta dimostrata" la responsabilità del professionista "sotto un profilo oggettivo e soggettivo", responsabilità che, viceversa, il Tribunale aveva precedentemente escluso. Sicchè, l'affermazione si prestava ad essere intesa come soltanto allusiva ad un problema che si sarebbe potuto porre se già quella responsabilità non fosse stata esclusa sotto il duplice profilo indicato. Non si prestava ad essere considerata manifestazione di una consapevole volontà di motivazione, frutto di ponderazione delle risultanze di causa. Ogni eventuale dubbio al riguardo riceveva poi definitivo scioglimento dalla circostanza - e si tratta del primo dei profili sopra indicati - dell'inserimento dell'affermazione fra parentesi: essa, se vi fossero stati dubbi, esprimeva un evidente disimpegno motivazionale. Le peculiarità della motivazione del primo giudice emergenti dai due profili indicati risultano tali da escludere finanche che quella relativa all'assenza di prova dell'inadempimento dell’C abbia rivestito il tenore di un'affermazione da intendersi compiuta "ad abundantiam," (ovvero, come mero "obiter dictum"), il che l'avrebbe comunque resa insuscettibile di dover essere censurata con l'appello per carenza di interesse (cfr., per l'impugnazione in sede di legittimità: Cass. Sez. 1, ord. 10 aprile 2018, n. 8755, Rv. 648883-01; Cass. Sez. Lav., sent. 22 ottobre 2014, n. 22380, Rv. 633495-01). 6.2. Del pari, anche i motivi secondo, terzo e quarto suscettibili di trattazione unitaria, data la loro connessione - non sono fondati, sebbene la motivazione della sentenza vada parzialmente corretta, a norma dell'art. 384 c.p.c., u.c..
6.2.1. Essi, per vero, investono - da complementari angoli visuali, ora insistendo sulla liceità dell'operazione negoziale posta in essere dall’C attraverso la rivendita degli immobili acquisiti dalla B. (secondo motivo), ora, invece, escludendo che il Notaio omissis dovesse astenersi dal rogitare gli atti di compravendita intercorsi tra i due, con l'inserimento della rinuncia alla ipoteca legale, dovendo avvedersi della natura fraudolenta dell'attività dell’C (terzo motivo), e ciò anche in ragione del fatto che il rifiuto previsto dalla L. n. 89 del 1913, art. 28, concerne solo atti "espressamente proibiti dalla legge" (quarto motivo) - la decisione della Corte abruzzese di ravvisare responsabilità di esso Notaio omissis. In particolare, i motivi in esame si appuntano sull'affermazione secondo cui "gli atti oggetto di causa, proprio in quanto contenenti clausola di rinuncia all'ipoteca legale da parte della venditrice apparivano strumentali all'attuazione dell'illecito disegno ordito dall'C, sicchè in presenza della natura volutamente inadempiente dell'attività dell’C il Notaio omissis ben avrebbe potuto e dovuto rifiutarne la stipula".
6.2.2. Orbene, nello scrutinare le censure relative a siffatta affermazione, non superflua appare una premessa di ordine generale - che si andrà di seguito a illustrare - in merito alle condizioni cui è subordinata, nella giurisprudenza di questa Corte, la responsabilità dell'esercente una "professione protetta", qual è indubitabilmente quella notarile, giacchè essa crea "un alto affidamento nel soggetto che riceve la prestazione" (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 23 ottobre 2002, n. 14934, Rv. 558027-01), venendo oltretutto ad incidere su un bene, quello dell'autonomia negoziale, di rilievo costituzionale, ancorchè solo indiretto, "in quanto strumento di esercizio di libertà costituzionalmente garantite" (tra le molte, Corte Cost., sent. 22 giugno 1994, n. 268). Del resto, non si spiegherebbe, altrimenti, la possibilità - riconosciuta da questa Corte - che, in relazione all'espletamento della prestazione d'opera intellettuale demandatagli, l'esercente la professione notarile possa venire ad assumere obblighi di protezione persino nei confronti di soggetti "terzi" rispetto al contratto concluso ai sensi dell'art. 2230 c.c. (cfr. Cass. Sez. 2, sent. 9 maggio 2016, n. 9320, Rv. 63991901; Cass. Sez. 3, ord. 8 aprile 2020, n. 7746, Rv. 657617-01). Sotto questo profilo, dunque, deve premettersi che - sebbene il Notaio omissis non sia, come si legge in ricorso, "un agente immobiliare", nè "un tecnico del catasto o della Agenzia delle Entrate", risultando pertanto privo di "alcuna competenza" in ordine "al valore che le parti di un contratto assegnano ai diritti che ne sono oggetto" e non rientrando tra i suoi compiti "quello di assistere e garantire le parti in ordine alla economicità delle loro transazioni" - è, comunque, da tempo "pacifico", nella giurisprudenza di questa Corte, che "il Notaio omissis non è un passivo registratore delle dichiarazioni delle parti, essendo contenuto essenziale della sua prestazione professionale anche il c.d. dovere di consiglio", il quale "ha per oggetto questioni tecniche, cioè problematiche che una persona non dotata di competenza specifica non sarebbe in grado di percepire, collegate al possibile rischio che una vendita formalmente perfetta possa poi risultare inefficace" (così, in motivazione, Cass. Sez. 2, sent. 29 marzo 2007, n. 7707, Rv. 596051-01). Ancora di recente, peraltro, sulla portata di tale dovere - non a caso recepito, dopo il testè menzionato arresto di questa Corte, dall'art. 42 del "codice deontologico" degli esercenti la professione notarile, approvato con Delib. Consiglio Nazionale del Notariato 5 aprile 2008, n. 2/56 - è stato ribadito che "il Notaio omissis incaricato dalla redazione e autenticazione di un contratto per la compravendita di un immobile non può limitarsi a procedere al mero accertamento della volontà delle parti e a sovraintendere alla compilazione dell'atto, occorrendo che egli si interessi dell'attività, preparatoria e successiva, necessaria ad assicurare la serietà e la certezza degli effetti tipici dell'atto medesimo e del risultato pratico perseguito ed esplicitato dalle parti stesse, rientrando tra i suoi doveri anche quello di consiglio ovvero di dissuasione" (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 16 marzo 2021, n. 7283, Rv. 660913-01). Anche la "dissuasione" di una parte contrattuale, al fine di "assicurare la serietà e la certezza degli effetti tipici dell'atto", e ciò persino quando la sua necessità derivi da attività "successiva" alla predisposizione dell'atto, non è, dunque, affatto estranea ai doveri del Notaio omissis (sul punto si veda, oltre all'arresto da ultimo citato, già Cass. Sez. 3, sent. 15 giugno 1999, n. 5946, Rv. 527535-01), senza che ciò possa ritenersi in contrasto - come assume, viceversa, l'odierno ricorrente - coi doveri di imparzialità ed equidistanza rispetto ai diversi interessi delle parti, sancito dall'art. 41 del già citato codice deontologico.
6.2.3. Nel caso che occupa, tuttavia, la Corte territoriale ha escluso - trattandosi di questione posta per la prima volta in appello, e dunque trasgredendo al divieto di "nova" ex art. 345 c.p.c. - che la responsabilità del Notaio omissis V. potesse essere fondata sulla violazione del dovere di fornire informazioni, alla B., "utili ad orientarla nel senso di una scelta consapevole in punto di rinuncia o meno all'ipoteca legale" (cfr. pagg. 5 e 6 della sentenza impugnata). Nondimeno, pur escludendo che la responsabilità del professionista potesse affermarsi su tali basi (e, dunque, per aver fatto mancare il consiglio necessario a favorire una decisione avvertita della venditrice), il giudice di appello ha egualmente accolto la domanda risarcitoria. E ciò, come detto, sul presupposto che il Notaio omissis - conscio della svendita che l’C andava compiendo - fosse "nelle condizioni di apprezzare, con l'impiego della diligenza del professionista avveduto, la natura fraudolenta dell'attività dell’C.".
Di conseguenza, la Corte aquilana ha ravvisato la responsabilità del Notaio omissis. per il fatto che "gli atti oggetto di causa, proprio in quanto contenenti clausola di rinuncia all'ipoteca legale da parte della venditrice", apparissero "strumentali all'attuazione dell'illecito disegno ordito dall'C, sicchè in presenza della natura volutamente inadempiente dell'attività dell’C., il Notaio omissis ben avrebbe potuto e dovuto rifiutarne la stipula" ai sensi della L. n. 89 del 1913, art. 28.
6.2.4. Così motivando, la Corte territoriale ha mostrato di ritenere che, più ancora che i contratti oggetto di causa, la complessiva "operazione economica" - per dirla, qui, con quell'autorevole dottrina, la quale intende tale locuzione come espressiva di una vera e propria "categoria concettuale" che, in materia contrattuale, "identifica una sequenza unitaria e composita che comprende in sè il regolamento, tutti i comportamenti che con esso si collegano per il conseguimento dei risultati voluti, e la situazione oggettiva nella quale il complesso delle regole e gli altri comportamenti si collocano" - posta in essere dall’C, mercè l'opera professionale del Notaio omissis., costituisse una sorta di contratto "in danno" della B.. (o meglio "in frode" della sua pretesa creditoria). Nondimeno, ragionando in questi termini, la Corte territoriale - in ciò cogliendo nel segno i rilievi del ricorrente, sebbene senza che gli stessi gli giovino (per le ragioni di cui si dirà appresso) è incorsa in errore. Difatti, anche a voler ascrivere quelli oggetti di causa - ovvero, le quattro compravendite intervenute tra la B. e l’C- alla figura del contratto in frode al creditore (inquadramento, per vero, già di per sè problematico, visto che il creditore le cui ragioni sono pregiudicate è, in tale figura di diritto pretorio, un terzo rispetto all'operazione contrattuale posta in essere), si dovrebbe constatare che "il negozio lesivo dei diritti o delle aspettative dei creditori non è, di per sè, illecito, sicchè la sua conclusione non è nulla per illiceità della causa, per frode alla legge o per motivo illecito determinante comune alla parti, apprestando l'ordinamento, a tutela di chi risulti danneggiato da tale atto negoziale, dei rimedi speciali che comportano, in presenza di particolari condizioni, l'applicazione della sola sanzione dell'inefficacia" (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 31 ottobre 2014, n. 23158, Rv. 633290-01). Di talchè, il successivo, inevitabile, passaggio logico dovrebbe consistere nell'escludere l'applicazione della L. n. 89 del 1913, art. 28 (al quale ha inteso, invece, riferirsi la sentenza impugnata), visto che tale norma fa divieto, al "notaro", di "ricevere e autenticare atti", ove essi siano "espressamente proibiti dalla legge", dovendosi "intendere l'avverbio espressamente", che "qualifica la categoria degli "atti proibiti dalla legge", come "inequivocamente"", sicchè "tale divieto si riferisce a contrasti dell'atto con la legge che risultino in termini inequivoci, anche se la sanzione della nullità deriva solo attraverso la disposizione generale dell'art. 1418 c.c., comma 1", ma pur sempre "per effetto di un consolidato orientamento interpretativo giurisprudenziale o dottrinale" (così, in particolare, Cass. Sez. 63, ord. 11 marzo 2011, n. 5913, Rv. 617395-01).
6.2.5. Nondimeno, tali rilievi non giovano, come detto, al ricorrente, il quale indulge, a propria volta, nel medesimo errore prospettico della Corte aquilana (sebbene da un punto di vista opposto rispetto ad essa), ovvero nel ritenere che - tra il "dovere" del Notaio omissis di rogitare, sancito dalla L. n. 89 del 1913, art. 27, ed il "divieto" di farlo sanzionato disciplinarmente, di cui al successivo art. 28 - "tertium non datur". Invero, si è già detto come il Notaio omissis, richiesto di una prestazione professionale, "assuma gli obblighi derivanti dall'incarico conferitogli dal B.", sicchè "fanno parte dell'oggetto della prestazione d'opera professionale, anche quelle attività preparatorie e successive, necessarie perchè sia assicurata la serietà e certezza dell'atto giuridico da rogarsi ed in particolare la sua attitudine ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico di esso e del risultato pratico voluto dalle parti dell'atto", con la conseguenza ulteriore che "l'inosservanza di detti obblighi dà luogo a responsabilità contrattuale per inadempimento del contratto di prestazione d'opera professionale, a nulla rilevando che la legge professionale non faccia riferimento a tale responsabilità, posto che essa si fonda sul contratto di prestazione d'opera professionale e sulle norme che disciplinano tale rapporto privatistico" (Cass. Sez. 3, sent. n. 149:34 del 2002, cit.).
Da quanto precede deriva, dunque, che - anche a prescindere dalla possibilità di invocare il disposto dell'art. 28 della Legge Professionale, che dà rilievo, in termini di illecito deontologico, alla fattispecie ivi contemplata, e che non tollererebbe, mercè il collegamento con l'art. 147 della stessa Legge, "la creazione di un nuovo illecito, caratterizzato dall'essere gli atti, indipendentemente dalla loro nullità, coordinati e finalizzati a scopi illeciti" (Cass. Sez. 3, sent. 12 novembre 2013, n. 25408, Rv. 629531- 01) - il dovere, o meglio l'obbligo, di astensione del Notaio omissis trovava, nella specie, titolo nel "ruolo di protezione e garanzia assunto in conseguenza del conferimento del mandato professionale", secondo quanto, del resto, testualmente riconosciuto (pag. 7, in part. p. 7.2.4) dalla sentenza impugnata. Espungendo, dunque, dalla stessa il richiamo - come detto, errato - all'art. 28 della L. n. 89 del 1913, il solo riferimento all'art. 1375 c.c., anche in relazione, come si dirà, ma in modo del tutto aggiuntivo ai fini della sussistenza della responsabilità, all'art. 2043 c.c. (quest'ultimo, peraltro, invocato specificamente nell'atto di appello della B.; cfr. pag. 4 della sentenza impugnata) era sufficiente a fondare la responsabilità del Notaio omissis. Il medesimo, infatti, non poteva ignorare, nel momento in cui svolgeva la sua prestazione d'opera professionale, che le modalità della programmata rivendita (giacchè l’C, dopo aver acquistato gli immobili dalla B. con pagamento rateale, aveva rivenduto gli stessi per importi di gran lunga inferiori - in due casi, addirittura, del 50%, negli altri due in misura pari o poco sopra tale soglia - rispetto a quelli costituenti oggetto della sua obbligazione ex art. 1498 c.c., comma 1; e, peraltro, in un caso a distanza di tre minuti lo stesso giorno, in un altro lo stesso giorno e negli altri due a breve distanza di tempo, come indicato sopra alle pagg. 5-6), in uno con la rinuncia alla garanzia reale ex art. 2817 c.c., da parte della venditrice, mettevano in serio pericolo, quanto al contratto intervenuto tra i predetti, la "attitudine ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico di esso e del risultato pratico voluto dalle parti dell'atto", precostituendo una situazione di potenziale inadempimento. In questa prospettiva, dunque, deve apprezzarsi - ovvero, in relazione alla violazione dell'obbligo "ex fide bona", di cui all'art. 1375 c.c., e alle sue ripercussioni sulla libertà negoziale della B. - la responsabilità del Notaio omissis, "per avere stipulato gli atti oggetto di causa con inserimento della clausola di rinuncia all'ipoteca legale da parte della venditrice, pur essendo egli a conoscenza della svendita degli immobili da parte dell'C".
Di tali operazioni di rivendita il professionista era, infatti, perfettamente a conoscenza, dato che i relativi rogiti vennero, come s'è detto, dallo stesso predisposti, in due casi, lo stesso giorno della stipulazione dei contratti di compravendita intervenuti tra la B. e l’C (nella prima occasione, vale a dire quella del 15 ottobre 2012, addirittura a soli tre minuti di distanza l'uno dall'altro), nonchè negli altri due casi - il giorno successivo o, comunque, a breve distanza di tempo. Del resto, proprio con riferimento al contratto d'opera intellettuale concluso da un Notaio omissis, questa Corte ha già riconosciuto il rilievo "della clausola generale della buona fede oggettiva o correttezza, ex art. 1175 c.c., quale criterio determinativo ed integrativo della prestazione contrattuale, che impone il compimento di quanto utile e necessario alla salvaguardia degli interessi della controparte" (Cass. Sez. 3, sent. 20 agosto 2015, n. 16990, Rv. 636622-01). Va sottolineato che le modalità temporali degli atti di rivendita, una volta considerato che nella prassi operativa del Notaio omissis la stipula di un atto è necessariamente preceduta dalle consuete e necessarie attività preparatorie, risultano tali da render indiscutibile e percepibile in questa sede come un dato oggettivo che esclude qualsiasi necessità di accertamenti di fatto ulteriori, che il Notaio omissis dovesse ex necesse essere consapevole della oggettiva lesività della dichiarazione di rinuncia fatta dalla qui resistente.
6.2.6. Corroborano, poi, tali conclusioni le seguenti, ulteriori, considerazioni.
Da tempo questa Corte ha riconosciuto la rilevanza della violazione dell'obbligo di buona fede - anche sotto forma responsabilità per inosservanza del generale divieto di "alterum non laedere", ex art. 2043 c.c. - in relazione a comportamenti contrari, appunto, al dovere di correttezza comportamentale, tenuti da uno dei paciscenti in occasione della formazione del contratto e idonei ad alterare la libertà negoziale dell'altro, senza però integrare veri e propri vizi del consenso. Difatti, posto che la buona fede costituisce "una clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in maniera precisa", si è evidenziato che essa "certamente implica un dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o anche solo conoscibile con l'ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto", potendo la violazione di tale dovere rilevare "anche quando il contratto posto in essere sia valido, e tuttavia pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto" (Cass. Sez. 1, sent. 29 settembre 2005, n. 19024, Rv. 58365501). Si tratta, come detto, di affermazioni consolidatesi nella successiva giurisprudenza di questa Corte (cfr., in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 19 dicembre 2007, n. 26724, non massimata sul punto, nonchè Cass. Sez. 3, sent. 8 ottobre 2008, n. 24795, Rv. 604819-01) e culminate nel riconoscimento che "l'azione di risarcimento danni ex art. 2043 c.c., per lesione della libertà negoziale è esperibile allorchè ricorra una violazione della regola di buona fede nelle trattative contrattuali", allorchè essa "abbia dato luogo ad un assetto d'interessi più svantaggioso per la parte che abbia subito le conseguenze della condotta contraria a buona fede" (Cass. Sez. 3, sent. 17 settembre 2013, n. 21255, Rv. 628701-01).
Orbene, questa Corte ha pure ritenuto che "identica necessità di garantire la più ampia tutela possibile alla libertà negoziale si pone non solo rispetto al comportamento di ciascuno dei paciscenti, ma anche di terzi, ivi compreso il Notaio omissis incaricato della redazione dell'atto" (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 30 gennaio 2019, n. 2525, Rv. 652482-01). Sicchè non possono esservi dubbi sul fatto che incomba anche su tale professionista il dovere - la cui violazione è da apprezzare, come visto, a norma degli artt. 1375 e 2043 c.c. - di conformare la propria condotta al canone della correttezza, "astenendosi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti" suscettibili di influire sulla libertà negoziale di una delle parti, nel senso appena chiarito, ovvero, di determinare la conclusione di un contratto che, sebbene valido, risulti non pienamente conforme alla sua volontà (che, peraltro, il predetto professionista, ai sensi della L. n. 89 del 1913, art. 42, è tenuto ad "indagare"). Ricorrendo tale ipotesi, dunque, sarà configurabile una pretesa risarcitoria da ragguagliare al "minor vantaggio o al maggiore aggravio economico" che risulti "determinato dal contegno sleale" (cfr., con riferimento al comportamento di uno dei paciscenti, poi divenuto parte del contratto, Cass. Sez. 1, sent. n. 19024 del 2005, cit.).
6.2.7. In conclusione, i motivi secondo terzo e quarto risultano non fondati, dovendo confermarsi la decisione della Corte abruzzese nella parte in cui afferma la responsabilità del Notaio omissis, sebbene con la correzione della motivazione nei termini qui indicati, i quali, come già osservato, sono possibili non essendo necessari accertamenti di fatto ed esprimendo questa Corte soltanto l'esatto apprezzamento in iure della vicenda in facto per come accertata nel giudizio di merito. Il principio di diritto che la disposta correzione consente di enunciare è il seguente: "incorre in responsabilità per inadempimento del contratto d'opera professionale, quanto ai doveri comportamentali riconducibili a quello di adempiere il rapporto di prestazione d'opera secondo buona fede ai sensi dell'art. 1375 c.c., il Notaio omissis che roghi quattro atti di compravendita, con previsione di pagamento rateale e con dichiarazione di rinuncia della venditrice all'iscrizione di ipoteca legale, allorquando risulti che egli abbia rogato altri quattro atti di rivendita a terzi da parte dello stesso C, di cui due lo stesso giorno ed altri due pochi giorni dopo".
6.3. Anche il quinto motivo - che attiene alla decisione della Corte territoriale di ravvisare il nesso causale tra la condotta del Notaio omissis ed il danno lamentato dalla B. - non è fondato.
6.3.1. Invero, priva di fondamento è, innanzitutto, la censura che - facendo leva sul tenore letterale dell'art. 2043 c.c., secondo cui chi abbia "commesso il fatto" è tenuto a risarcire il danno che ne è derivato - assume la falsa applicazione di tale norma, giacchè alla stregua di essa l'autore del fatto (ovvero, l'inadempimento dell'obbligazione di pagare il prezzo di acquisto degli immobili) che ha dato origine al danno dovrebbe individuarsi nell’C.
Per contro, come visto, il "fatto" al quale la sentenza impugnata ha ricondotto il danno subito dalla B. - concretizzatosi all'esito della infruttuosa esecuzione del credito ex art. 1498 c.c., comma 1, trovando pertanto in essa una semplice "occasio" - è identificato in un "fatto" del Notaio omissis, e precisamente nel contegno assunto dallo stesso in violazione dell'obbligo "di svolgere la propria prestazione professionale con la diligenza connessa al ruolo di protezione e garanzia assunto in conseguenza del conferimento del mandato professionale", e ciò "per avere stipulato gli atti oggetto di causa con inserimento della clausola di rinuncia all'ipoteca legale da parte della venditrice, pur essendo egli a conoscenza della svendita degli immobili da parte dell'C". D'altra parte, poi, nel senso del rigetto del quinto motivo, deve qui ribadirsi che mentre "l'errore compiuto dal giudice di merito nell'individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento è censurabile in sede di legittimità ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)" (censura, peraltro, non prospettata nel caso che occupa), resta, invece, inteso che "l'eventuale errore nell'individuazione delle conseguenze che sono derivate dall'illecito, alla luce della regola giuridica applicata, costituisce una valutazione di fatto, come tale sottratta al sindacato di legittimità, se adeguatamente motivata" (Cass. Sez. 3, sent. 25 febbraio 2014, n. 4439, Rv. 630127-01; in senso conforme Cass. Sez. 3, ord. 10 aprile 2019, n. 9985, Rv. 65357601).
6.4. Il sesto motivo di ricorso - che investe la sentenza impugnata per aver ritenuto provata l'esistenza e quantificazione del danno - è, infine, inammissibile.
6.4.1. Detta conclusione, difatti, deve prospettarsi in relazione ad ognuna delle diverse censure in cui il motivo si articola. Tale è l'esito, innanzitutto, della denunciata violazione dell'art. 2697 c.c., configurabile soltanto nell'ipotesi in cui il giudice "abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni" (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038- 01); evenienza, quella appena indicata, che non risulta lamentata nel caso di specie, restando, invece, inteso che "laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti" (come avvenuto nel caso che occupa), essa "può essere fatta valere ai sensi del numero 5 del medesimo art. 360" (Cass. Sez. 3, sent. 17 giugno 2013, n. 15107, Rv. 626907-01), ovviamente "entro i limiti ristretti del "nuovo"" suo testo (Cass. Sez. 3, ord. n. 13395 del 2018, cit.). Analogamente, la violazione dell'art. 115 c.p.c. - che sancisce il principio secondo cui il giudice decide "iuxta alligata et probata partium" - può essere dedotta come vizio di legittimità, oltre che nell'ipotesi, per vero scolastica, in cui si denunci "che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma", solo allorchè il medesimo "abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli" (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640192-01). Neppure in astratto è, poi, ravvisabile il vizio di violazione dell'art. 116 c.p.c., norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale, essendo la stessa ipotizzabile solo quando "il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all'opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime" (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640193-01, nello stesso, più di recente, in motivazione, Cass. Sez. 6-2, ord. 18 marzo 2019, n. 7618, non massimata sul punto, nonchè Cass. Sez. 6-3, ord. 31 agosto 2020, n. 18092, Rv. 658840- 02), mentre "ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione" (Cass. Sez. Un., sent. 30 settembre 2020, n. 20867, Rv. 659037-02).
In relazione, tuttavia, a quest'ultima evenienza, deve rilevarsi che il vizio di motivazione - alla luce dell'avvenuta riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla parte motiva della sentenza (Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè, "ex multis", Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 1, ord. 30 giugno 2020, n. 13248, Rv. 658088-01), quale conseguenza della "novellazione" del testo dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile "ratione temporis" al presente giudizio) - costituisce evenienza ormai ipotizzabile solo quando essa risulti affetta da "irriducibile contraddittorietà" (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), ovvero connotata da "affermazioni inconciliabili" (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), così recando "argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento" (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonchè, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-01), mentre "resta irrilevante il semplice difetto di "sufficienza" della motivazione" (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01). Nella specie, la pur denunciata contraddittorietà della motivazione - invero, neppure sussistente, alla luce di quanto di seguito si dirà - non appare, comunque, da tale da rendere, per così dire, "imperscrutabile" il percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale, così come richiesto dal vigente testo dell'art. 360 c.p.c.. Infine, neppure ricorre la lamentata violazione dell'art. 1372 c.c., atteso che la sentenza impugnata non ha affatto inteso "traslare" a carico di un soggetto "terzo", rispetto al contratto intercorso tra la B. e l’C, il danno conseguente all'inadempimento di quest'ultimo (ciò in cui il ricorrente ravvisa, come detto, anche il profilo di contraddittorietà che inficerebbe la motivazione della sentenza sul punto). La pronuncia della Corte abruzzese, infatti, ha inteso solo ripristinare la situazione patrimoniale della venditrice in una condizione il più possibile vicina a quella che sarebbe stata esistente se non vi fosse stato, da parte della B., il trasferimento degli immobili con rinuncia all'ipoteca legale.
7. Quanto alle spese del presente giudizio di legittimità, ricorrono giusti motivi per la loro integrale compensazione tra le parti. Trova, infatti, applicazione nel presente giudizio, "ratione temporis" (essendo stato la fase di primo grado introdotta con citazione del 2 febbraio 2016), il testo dell'art. 92 c.p.c., comma 2, come sostituito del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 13, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014, n. 162, come dichiarato costituzionalmente illegittimo (Corte Cost., sent. 19 aprile 2018, n. 77) nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, oltre quelle contemplate dal testo della norma, ovvero l'assoluta novità della questione trattata o il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Nel caso di specie, tale "analoga" ragione, grave ed eccezionale, va ravvisata nella singolarità della vicenda portata all'esame dell'autorità giudiziaria, connotata da profili invero peculiari, come attestato sia dagli alterni esiti delle fasi di merito del giudizio, sia dalla necessità di correggere la motivazione della - sentenza la cui legittimità è stata, qui, scrutinata.
8. Infine, stante il rigetto del ricorso, sussiste, a carico del ricorrente, l'obbligo di versare, se eventualmente dovuto secondo un accertamento spettante all'amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198-01), l'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso, compensando integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti, se dovuto, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari, in ipotesi, a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Conclusione
Così deciso in Roma, all'esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 2 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2022