Giu Questione di legittimità: se il cd. travisamento della prova sia denunciabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., per violazione ex art. 115cpc o ex art 395 co4 n.1 cpc
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III CIVILE - ORDINANZA 27 aprile 2023 N. 11111
Massima
La Terza Sezione Civile ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione, oggetto di contrasto nella giurisprudenza delle Sezioni semplici, se il cd. travisamento della prova – inteso come errore di percezione che sia caduto sulla ricognizione del contenuto oggettivo della stessa – sia denunciabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c. (sempre che investa una circostanza che abbia formato oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere di decisività), ovvero sia invocabile unicamente come motivo di revocazione ai sensi dell’art. 395, comma 1, n. 4, c.p.c..

Casus Decisus
1. Il 26 gennaio 1998 morì a Roma il pittore M. S.. Nel 2002 fu costituito l’Archivio M. S. allo scopo di tutelare l’intera opera dell’Artista deceduto. Nel 2008, in occasione del decennale della sua morte, su iniziativa del suddetto Archivio e della Soprintendenza della Galleria Nazionale d’Arte moderna di Roma (di seguito, Galleria Nazionale), fu organizzata una mostra, dal titolo S. 1934-1998, che si tenne presso il Museo dedicato all’arte contemporanea. In coincidenza con l’allestimento di detta mostra, M.D.B.i, vedova del pittore, nell’ambito di un riordino e schedatura dell’Archivio, chiese informazioni alla Galleria Nazionale in ordine all’opera “Paesaggio versione anemica con smalto ed anima”, che alla stessa risultava “lasciata dall’artista nei locali della Galleria medesima”. Detta opera era stata realizzata nel 1965 dal pittore, all’epoca giovanissimo, ed era stata in quello stesso anno spedita alla Galleria Nazionale, in quanto considerata rappresentativa della sua opera, ai fini di una mostra itinerante (“Aspetti dell’arte italiana contemporanea”), che si sarebbe svolta con tappe in diverse sedi, europee ed extraeuropee, negli anni 1965-1966. Della suddetta mostra itinerante aveva fatto parte anche un’altra opera del Pittore S., “Vero Amore”, dello stesso anno (1965) e delle stesse dimensioni (cm. 200x200). L’opera “Paesaggio versione anemica con smalto ed anima” era stata spedita dalla Galleria Marconi di Milano alla Galleria Nazionale, unitamente ad opere dei pittori Adami e Prezzo, con la precisazione che si trattava di opere non in vendita (in quanto appartenenti a collezioni private), scelte dagli stessi autori. Firmato Da: URCIUOLI MARIO Emesso Da: ARUBAPEC S.P.A. NG CA 3 Serial#: 57d0de01f0c011c47471c37c76784ab5 - Firmato Da: TRAVAGLINO GIACOMO Emesso Da: ARUBAPEC S.P.A. NG CA 3 Serial#: cca592f0290560300dbcc45f1b67ece Numero registro generale 28604/2020 Numero sezionale 1120/2023 Numero di raccolta generale 11111/2023 Data pubblicazione 27/04/2023 3 Tutte le opere spedite erano state richieste in restituzione dalla Galleria Marconi con lettera raccomandata del 24 luglio 1967, ma quella per cui è causa era rimasta presso la Galleria Nazionale, che diversi anni dopo, ritenendola acquisita, la inseriva nel proprio Catalogo, assegnando ad essa il numero di inventario 15941. Alcuni anni dopo (e precisamente con nota 16-18 ottobre 2012), M.D.B. e M.G.S., rispettivamente vedova e figlio del pittore, del quale erano unici eredi, dopo uno scambio informale di mail, formalizzarono la richiesta di restituzione. Tuttavia, la richiesta non fu evasa. 2. Pertanto, gli eredi del pittore, con ricorso ex art. 702 bis e ss. c.p.c. introdotto dinanzi al Tribunale di Roma, chiesero che la Galleria Nazionale fosse condannata alla restituzione dell’opera denominata “Paesaggio versione anemica con smalto ed anima”. La causa veniva istruita mediante acquisizione della documentazione prodotta dalle parti e, a seguito di ordine del Tribunale, mediante acquisizione della lettera 10 luglio 1967 prot. N. 3073. Il Tribunale di Roma con ordinanza 6 giugno 2014 dichiarava la Galleria Nazionale tenuta alla restituzione dell’opera, compensando le spese processuali. 3. Avverso la decisione del Tribunale di Roma proponevano appello il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Galleria Nazionale, chiedendo: a) in via preliminare, la declaratoria di intervenuta prescrizione del diritto alla restituzione del bene reclamato; b) in subordine, la declaratoria di intervenuta usucapione in virtù del possesso prolungato per oltre un ventennio; c) in via di ulteriore subordine, la declaratoria di inesistenza del rapporto di Firmato Da: URCIUOLI MARIO Emesso Da: ARUBAPEC S.P.A. NG CA 3 Serial#: 57d0de01f0c011c47471c37c76784ab5 - Firmato Da: TRAVAGLINO GIACOMO Emesso Da: ARUBAPEC S.P.A. NG CA 3 Serial#: cca592f0290560300dbcc45f1b67ece Numero registro generale 28604/2020 Numero sezionale 1120/2023 Numero di raccolta generale 11111/2023 Data pubblicazione 27/04/2023 4 comodato tra il dante causa degli istanti e la Galleria Nazionale, nonché dello stesso diritto alla restituzione. Si costituivano nel giudizio di appello entrambi gli eredi del Pittore, chiedendo il rigetto dell’appello e la conferma del provvedimento del giudice di primo grado, con ordine alla Galleria Nazionale di restituire l’opera pittorica e con condanna di quest’ultima alla rifusione delle spese processuali ed ai sensi dell’art. 96 c.p.c. La Corte territoriale con ordinanza 14 giugno 2015 sospendeva l’efficacia esecutiva della ordinanza impugnata. Gli eredi del pittore proponevano ricorso per sequestro giudiziario (al quale allegavano altro documento ufficiale). La Corte d’appello di Roma: dapprima, con ordinanza 14 giugno 2015,in accoglimento della richiesta degli eredi, autorizzava il sequestro (sul presupposto dell’unicità del pezzo), nominando custode dell’opera il Direttore pro tempore della Galleria Nazionale, con divieto di utilizzare l’opera, per eventuali mostre itineranti, al di fuori dei locali della Galleria; e, poi, con sentenza 1017 del 2020, in accoglimento dell’appello della Galleria Nazionale, rigettava nel merito la domanda di restituzione dell’opera, con conseguente revoca dell’ordinanza 14 giugno 2015 e con compensazione integrale tra le parti delle spese processuali. 4. Avverso la sentenza della Corte territoriale hanno proposto ricorso gli eredi del Pittore. Hanno resistito con un unico controricorso: sia il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali che la Soprintendenza alla Galleria Nazionale. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380- bis.1. c.p.c. Firmato Da: URCIUOLI MARIO Emesso Da: ARUBAPEC S.P.A. NG CA 3 Serial#: 57d0de01f0c011c47471c37c76784ab5 - Firmato Da: TRAVAGLINO GIACOMO Emesso Da: ARUBAPEC S.P.A. NG CA 3 Serial#: cca592f0290560300dbcc45f1b67ece Numero registro generale 28604/2020 Numero sezionale 1120/2023 Numero di raccolta generale 11111/2023 Data pubblicazione 27/04/2023 5 Il Procuratore Generale presso la Corte non ha depositato conclusioni. Il Difensore di parte ricorrente ha depositato memoria

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III CIVILE - ORDINANZA 27 aprile 2023 N. 11111 G. Travaglino

1. Il ricorso di OMISSIS è affidato a sei motivi.

Parte ricorrente preliminarmente rileva che la sentenza impugnata si fonda su tre punti. Precisamente: a) sul fatto che la lettera 13 dicembre 2012 della Soprintendenza GNAM sarebbe stata a torto ritenuta dal giudice di primo grado avente valore confessorio; b) sul fatto che la lettera 10 luglio 1967 della GNAM, depositata all’udienza del 28 marzo 2014, non avesse il valore confessorio ritenuto dal giudice di primo grado, e sarebbe per contro irrilevante per una serie di ragioni; c) sul fatto che il comodato alla GNAM sarebbe stato costituito (non dallo S., ma) dalla Galleria Marconi, che aveva curato la consegna dell’opera (peraltro ritenuta appartenente ad ignoto collezionista). 1.1. Ciò premesso, con il primo motivo, che indica come assorbente, parte ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 116, in relazione agli artt. 2730, 2733 e 2735 c.c., nella parte in cui la Corte territoriale ha affermato che il Tribunale aveva a torto ritenuto che le lettere 13 dicembre 2012 e 10 luglio 1967 della Galleria Nazionale avevano valore confessorio. Quanto al primo documento, osserva che nella sentenza impugnata non sono state indicate le ragioni per cui detto documento sarebbe stato ritenuto a torto confessorio dal Tribunale; mentre al contrario detto documento costituisce a tutti gli effetti una confessione stragiudiziale, in quanto resa dal legale rappresentante (Soprintendente) della persona giuridica (Galleria Nazionale), ossia direttamente dalla parte, di un fatto a sé sfavorevole (e cioè che furono richieste a M. S. le due opere e che successivamente la Soprintendente aveva scritto al Pittore perché questi riprendesse le due opere al termine del tour), alle controparti. Quanto alla lettera del 10 luglio 1967, osserva che in essa la Galleria Nazionale rivolge il suo ringraziamento per il prestito (non alla Galleria Marconi, che pur aveva curato la consegna del dipinto, ma) a M. S., all’epoca domiciliato presso altra Galleria; e che tale circostanza avrebbe dovuto essere ritenuta indicativa del fatto che il comodato era intercorso tra lo S. e la Galleria Nazionale e che la Galleria Marconi aveva assolto il ruolo di semplice mandatario per la consegna. In definitiva, secondo parte ricorrente, la Corte territoriale ha violato l’art. 116 c.p.c., in quanto ha preteso di esercitare il potere di libero apprezzamento delle prove in relazione a prove legali, rispetto alle quali non è consentito l’esercizio di detto potere. E, così operando, la sua sentenza sarebbe nulla.

1.2. Con il secondo motivo parte ricorrente denuncia la violazione degli artt. 111 Cost. e 132 n. 4 c.c. per motivazione inesistente nella parte in cui la Corte territoriale ha affermato che la lettera 13 dicembre 2012 della GNAM era stata ritenuta a torto di valore confessorio dal Tribunale, senza formulare al riguardo alcuna motivazione.

1.3. Con il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 115 c.p.c. per travisamento della prova nella parte in cui la Corte territoriale - dopo aver ritenuto irrilevante sia il fatto che era stato lo S. a scegliere le due opere da inviare per la Mostra itinerante per il tramite della Galleria Marconi e che allo stesso S., al  termine della Mostra, era stato rivolto il ringraziamento della Soprintendente dell’epoca -ha testualmente affermato (p.10): >. Tanto affermando, secondo parte ricorrente, la corte territoriale avrebbe stravolto le risultanze processuali, utilizzando informazioni probatorie del tutto diverse ed inconciliabili con quelle contenute nelle note della Galleria Nazionale del 13 dicembre 2012 e del 10 luglio 1967. 1.4. Con il quarto motivo parte ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1803, anche in relazione all’art. 1325 n. 4 c.c., nonché degli artt. 1809, 1810, 1811, 1766, 1770 c.c. (e, di conseguenza, dell’art. 113 c.p.c.) nella parte in cui la corte territoriale ha ritenuto che il comodato sia sorto tra lo Studio Giorgio Marconi di Milano e la Galleria Nazionale. Evidenza che il giudice di primo grado aveva affermato (non che il comodato era stato costituito dallo Studio Marconi di Milano, ma) che l’opera per cui è causa era stata >. Evidenzia che, in punto di diritto, ai fini della costituzione del comodato, è del tutto irrilevante chi procede, di fatto, alla materiale consegna del bene (che dunque non deve essere necessariamente il comodante). Osserva che la consegna tramite lo Studio Marconi fu soltanto il mezzo attraverso cui le due opere pervennero alla Galleria Nazionale. Osserva altresì che detto Studio, se fosse stato il depositario dell’opera, non avrebbe potuto disporne, con la duplice conseguenza che al più avrebbe potuto trasferire alla Galleria Nazionale la mera detenzione del bene (fermo restando il possesso in capo al depositante, cioè a M, S.) e che, alla morte dello S., la posizione del depositante si sarebbe trasferita in capo agli eredi legittimi (che avrebbero acquisito il pieno diritto di chiedere la restituzione, poi esercitato con lettera del 7 dicembre 2012). In definitiva, secondo parte ricorrente, essendo rimasto il possesso in capo al depositante M.S. e non avendo quest’ultimo chiesto la restituzione dell’opera, come dies a quo da cui far decorrere la prescrizione resta quello della richiesta degli eredi (e cioè il 7 dicembre 2012).

1.5. Con il quinto motivo parte ricorrente denuncia la violazione degli artt. 1803, 1809 e 1810, nonché degli artt. 1141, 2934 e 2935 (e, di conseguenza, dell’art. 113 c.p.c.) nella parte in cui la corte territoriale>, ma non indica il formale atto di interversione ex art. 1141 secondo comma in virtù del quale lo Studio Marconi (o AU), quale comodante, si sarebbe trasformato da detentore in possessore e a decorrere dal quale sarebbe decorso il tempo per presunta usucapione. In punto di diritto, sottolinea che: a) il comodatario, in quanto detentore in nome altrui, non può acquistare il possesso ad usucapionem della cosa prestategli; b) tale acquisto può ricorrere soltanto nel caso in cui il comodatario compia idonee attività materiali con le quali manifesti al comodante la volontà di possedere la cosa esclusivamente in nome e nell’interesse proprio; c) il comodato di un bene culturale mobile si rinnova tacitamente ex art. 24 del d. lgs. n. 42/2004. In definitiva, secondo parte ricorrente, in difetto di un atto formale di interversione nei confronti del possessore, il dipinto per cui è causa deve intendersi a tutt’oggi presente nella Galleria Nazionale a mero titolo di detenzione nomine alieno.

1.6. Con il sesto ed ultimo motivo, che articola in via subordinata rispetto ai precedenti, parte ricorrente denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 158 c.p.c. e l’illegittimità costituzionale degli artt. 62-72 della legge n. 98 del 2013 per contrasto con l’art. 106 secondo comma Cost. nella parte in cui il Collegio della corte territoriale, che ha pronunciato la sentenza impugnata, è stato composto con la partecipazione di un giudice onorario, che ha assunto anche le funzioni di relatore e di espositore. Sostiene che detti articoli della legge n. 98 del 2013 sono norme che prevedono e regolano l’attribuzione a magistrato onorario, quale ausiliario di corte d’appello, delle funzioni di giudice collegiale, in luogo delle funzioni di giudice singolo costituzionalmente imposte.

2. Preliminarmente, tenuto conto che la sentenza del giudice di primo grado è stata riformata da quella della Corte territoriale, appare opportuno ripercorrere brevemente il contenuto di entrambe le pronunce di merito. 2.1. Il Tribunale di Roma, ad esito dell’espletata istruttoria, con la citata ordinanza del 6 giugno 2014 (la cui motivazione è riportata alle pagine 11 e 12 del ricorso), da un lato, ha attribuito un oggettivo quanto inequivoco valore confessorio alle lettere 13.12.2012 e 1.07.1967 della Galleria Nazionale e, sulla base delle (altrettanto inequivoche) affermazioni contenute in dette lettere, ha ritenuto provato che il dipinto, per cui è causa, era stato consegnato dal Pittore, per il tramite della Galleria Marconi, alla Galleria Nazionale in virtù di un rapporto di comodato; dall’altro, ha ritenuto non provato che il dipinto per cui è causa fosse stato consegnato alla Galleria Nazionale a titolo diverso dal comodato e, in particolare, ha rilevato non essere intervenuto alcun comportamento o alcuna attività materiale indicativa della eventuale interversione della detenzione in possesso.

2.2. La Corte territoriale nella impugnata sentenza – dopo aver ritenuto inammissibile la domanda di usucapione formulata in via subordinata in sede di atto di appello dagli odierni resistenti (avendo peraltro gli eredi del Pittore fatto valere nel giudizio di primo grado soltanto il loro diritto alla restituzione del bene) e dopo aver fatto espresso riferimento al contenuto di entrambi i documenti - mezzi di prova posti dal giudice di primo grado a fondamento della sua sentenza (la nota 19 luglio 1967 diretta dalla Galleria Nazionale al Pittore e la nota 13 dicembre 2012 diretta dalla stessa Galleria Nazionale al difensore degli eredi) – ha ritenuto che, all’esito della espletata istruttoria, non risultasse provato: a) né che l’opera per cui è causa era stata consegnata direttamente dal Pittore alla Galleria Nazionale, essendo per contro risultato che lo stesso l’aveva consegnata alla Galleria Marconi, che, da depositaria, l’aveva a sua volta consegnata alla Galleria Nazionale; b) né che l’opera era stata ceduta a titolo di comodato da parte del Pittore, sia pure per il tramite della Galleria Marconi. Tanto premesso in fatto, la Corte, in punto di diritto, ha ritenuto che la consegna diretta dell’opera sarebbe stata elemento indispensabile al fine di ritenere perfezionato il comodato tra il Pittore, all’epoca ancora giovanissimo, e la Galleria Nazionale, e, conseguentemente, ha respinto la domanda di restituzione, originariamente avanzata dagli eredi del Pittore (non senza aggiungere che il dipinto, all’epoca della consegna, apparteneva non all’Autore, ma ad anonimo collezionista e che comunque il diritto alla restituzione si era prescritto, essendo dal 1977 decorso il termine decennale di prescrizione). Nella impugnata sentenza, la corte territoriale: - si è anche soffermata sull’indicazione “Proprietà A.U.”, di cui alla scheda di deposito relativa all’opera per cui è causa: e, ad esito di una valutazione della documentazione acquisita, è arrivata alla conclusione che tale indicazione intesa non come “Collezione dell’Autore” oppure come “Artista Unico”, come sostenuto dagli eredi del Pittore, ma come indicazione delle iniziali delle generalità di un collezionista, che aveva inteso rimanere anonimo ed al quale, già al momento della consegna, l’opera apparteneva; -ha precisato che il sequestro giudiziario era stato autorizzato durante il giudizio di appello in considerazione dell’unicità dell’opera per cui è causa (e non anche per una ragione di cautela, nella specie ritenuta insussistente: sia perché il bene era stato correttamente salvaguardato e custodito per un quarantennio dalla istituzione pubblica, mentre chiunque altro se ne era disinteressato; sia perché il prestito di beni di cui trattasi è disciplinata dal combinato disposto - di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio, e del decreto 9 febbraio 2005 del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - che richiede procedure e protocolli rigorosi in relazione allo spostamento delle opere prestate). 3. I primi tre motivi pongono al collegio la questione del travisamento del contenuto oggettivo della prova.

3.1. In punto di fatto, si rileva quanto segue. A) Dalla nota 10 luglio 1967 prot. N. 3073 (esibita dalla Galleria Nazionale su ordine del Tribunale ex art. 210 c.p.c. ed oggetto di riferimento in ricorso alle pagine 14 e 18) risulta che la Sopraintendente dell’epoca, ringraziava M. S. per il prestito alla mostra e lo invitava a riprendersi i due dipinti, mentre la lettera 23 dicembre 2012 (diretta dall’allora Soprintendente, Marini Clarelli, e riportata in ricorso alla pagina 10 ed alla pagina 15-16) reca il seguente contenuto: >. B) Il Tribunale di Roma con la citata ordinanza 6 giugno 2014 (il cui contenuto è riportato per estratto a p. 11 del ricorso) ha ritenuto aventi valore confessorio: -sia la lettera 10 luglio 1967, >; -sia la lettera 13 dicembre 2012 >; C) Di contrario avviso è stata invece la Corte territoriale che sul punto si è così testualmente espressa (pp. 6 e 7): > La corte territoriale in un successivo passaggio motivazionale ha poi affermato che (p. 10): >.

3.2. In punto di diritto, si osserva che: a) una dichiarazione è qualificabile come confessione quando ricorrono: un elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all’altra parte; ed un elemento oggettivo, che ricorre qualora dall’ammissione del fatto obiettivo, che forma oggetto della confessione, derivi un concreto pregiudizio all’interesse del dichiarante ed al contempo un corrispondente vantaggio nei confronti del destinatario della dichiarazione; b) nel caso in cui la parte sia una persona giuridica, la capacità a rendere la confessione (anche stragiudiziale) deve provenire dal soggetto che la rappresenta ai sensi dell’art. 75 terzo comma c.p.c. ovvero da chi abbia la capacità processuale; c) ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 2733 e 2735 c.c., il riconoscimento di una delle parti della verità di un fatto dal quale derivino conseguenze svantaggiose per il dichiarante in materia di diritti disponibili, anche se fatta all’altra parte fuori del giudizio, costituisce confessione con efficacia di prova piena a carico del confitente, indipendentemente dal fine per il quale la confessione sia resa; d) la confessione stragiudiziale fatta alla parte, una volta provata, ha il medesimo valore della confessione giudiziale ed è dotata di efficacia vincolante sia nei confronti della parte che l’ha resa (alla quale non è riconosciuta alcuna facoltà di prova contraria), sia nei confronti del giudice, che, a sua volta, non può valutare liberamente la prova, né accertare diversamente il fatto contestato. 3.3. Osserva il Collegio che il giudice di primo grado, facendo corretta applicazione dei suddetti principi, ha attribuito valore confessorio: -sia alla lettera 13 dicembre 2012, in quanto con essa la Soprintendente (quale legale rappresentante della persona giuridica GNAM), nel rispondere agli eredi del Pittore (che avevano in precedenza chiesto all’ente la restituzione dell’opera a suo tempo prestata dal loro congiunto), era consapevole di ammettere e riconoscere volontariamente la verità di un fatto (e cioè che il dipinto per cui è causa, unitamente ad altro dipinto, era stato richiesto al Pittore e che a questi la Soprintendente dell’epoca aveva successivamente scritto perché si riprendesse i due dipinti), che era al contempo sfavorevole all’istituzione, che rappresentava, e favorevole all’altra parte. Peraltro, la Soprintendente, così operando, ben lungi dal venir meno ai doveri del suo ufficio, ha detti doveri correttamente assolto, riportando fedelmente quanto effettivamente risultava dagli atti d’archivio e dai documenti ufficiali dell’Ente; -sia alla lettera 10 luglio 1967 (prot. N. 3073), con la quale la Soprintendente dell’epoca indirizzò al Pittore (e non alla Galleria Marconi, che aveva materialmente curato la consegna del dipinto alla Galleria Nazionale) il suo ringraziamento per il prestito. Invero, dalle suddette lettere sono correttamente risultate al giudice di primo grado le seguenti informazioni probatorie: a) nel 1965, il dipinto per cui è causa è stato richiesto dalla Galleria Nazionale al Pittore Mario S. (presso la Galleria Marconi), in occasione della mostra itinerante, di cui si è detto, unitamente ad altro dipinto dell’Artista; b) nel 1967, terminata la mostra itinerante, la Soprintendente dell’epoca ha scritto al Pittore perché si riprendesse entrambi i suoi dipinti, ringraziandolo per il prestito; c) all’epoca il Pittore era domiciliato presso Galleria diversa dalla Galleria Marconi; d) il dipinto, per cui è causa, è restato in Galleria, senza essere reclamato da nessuno; e, vari anni dopo, è stato inventariato con il numero 15941.

3.4. Al contrario, ritiene il Collegio che la corte territoriale: - sia incorsa nel vizio motivazionale (eccepito nel motivo secondo) laddove ha sostenuto che la lettera 13 dicembre 2012 era stata ritenuta a torto confessoria dal giudice di primo grado, senza tuttavia spiegare in alcun modo le ragioni di detto suo convincimento; - sia incorsa nella violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (eccepita nei motivi primo e terzo) laddove ha palesemente travisato il contenuto oggettivo delle prove documentali, nonostante il relativo significato univocamente dimostrativo della titolarità del dipinto in capo al pittore e, conseguentemente, non ha riconosciuto valore di confessione stragiudiziale alle lettere 13 dicembre 2012 e 10 luglio 1967, non attribuendo alla parola “prestito” e all’invito a ritornare “in possesso del dipinto” l’unico significato giuridicamente ed oggettivamente percepibile, e cioè quello, da un canto, dell’esistenza di un diritto dominicale in capo all’autore, dall’altro, della qualità di mero comodatario del Museo.

4. Con specifico riferimento alla problematica del travisamento della prova, il collegio osserva quanto segue. Questa Corte, già in passato (cfr. sent. 12362 del 2006) ha avuto modo di precisare che il travisamento della prova si distingue dal travisamento del fatto, in quanto implica (non una valutazione del fatto, ma) una constatazione o un accertamento che una data informazione probatoria, utilizzata in sentenza, è contraddetta da uno specifico atto processuale. Più di recente, questa Sezione, seguendo l’elaborazione compiuta dalla Sezione Prima con sentenza n. 10749 del 25 maggio 2015, ha anche avuto modo di osservare che, mentre l’errore di valutazione in cui sia incorso il giudice di merito nell’apprezzamento dell’idoneità dimostrativa della fonte di prova non è mai sindacabile in sede di legittimità, è sindacabile ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c. per violazione dell’art. 115 del medesimo codice l’errore di percezione che sia caduto sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che abbia formato oggetto di discussione tra le parti (si cfr., di recente, l’ordinanza n. 26209/2022, che richiama la sentenza n. 13918/2022; nonché l’ordinanza n.12971/2022, che richiama l’ordinanza n. 9356/2017, e, ancor più di recente, la sentenza 37382/2022). Ciò in quanto il principio di cui all’art. 115 c.p.c., nell’ imporre al giudice di porre a fondamento della decisione le prove offerte dalle parti (oltre ai fatti non specificatamente contestati), rende censurabile non soltanto la sentenza nella quale il giudice ha posto a fondamento della sua decisione prove disposte di sua iniziativa (al di fuori dei poteri ufficiosi che gli sono riconosciuti) ma rende altresì censurabile in sede di legittimità la sentenza nella quale il giudice di merito abbia utilizzato informazioni probatorie che non esistevano nel processo e che tuttavia comunque sostengono illegittimamente la decisione che ha definito il giudizio di merito. 4.1 Può essere qui utile ritornare su alcuni aspetti già trattati da questa Sezione nella recente ordinanza n. 37477/2022. In senso lato, è noto, la prova è la traccia che un fatto lascia nella memoria degli uomini ovvero nella materialità del mondo fisico e della cui percezione il giudice si avvale per l’accertamento di quel fatto: in altri termini, è prova un qualsiasi dato dimostrativo e conoscitivo di fatti, che sia idoneo a fondare, anche da sé solo, il convincimento del giudice nel momento della decisione. In quanto tale, il termine prova è suscettibile di essere utilizzato in una pluralità di accezioni, ben note alla dottrina processualpenalistica: tema di prova è il fatto che si intende provare (l’ipotesi che si deve verificare); fonte di prova è la persona (parte, teste, ecc.), la cosa o il documento o un qualsiasi fenomeno idoneo a produrre una conoscenza rilevante per il processo; elemento di prova è il dato acquisito dalla fonte di prova, senza il contraddittorio tra le parti, al di fuori del processo; mezzo di prova è lo strumento mediante il quale, nel contraddittorio tra le parti, si utilizza la fonte di prova per affermare o negare in sede processuale l’esistenza del fatto; infine, risultato della prova è l’esito del percorso argomentativo compiuto dal giudice nel valutare le prove acquisite. 4.2. Il giudice di merito, attraverso l’osservazione e la valutazione, trae dall’elemento di prova e/o dal mezzo di prova informazioni che, in misura più o meno diretta, porrà a fondamento della conferma, positiva o negativa, circa la sussistenza (o insussistenza) del fatto decisivo in contestazione: nell’esprimere in sentenza il risultato della prova, egli è chiamato a selezionare da ogni elemento o mezzo di prova, ritualmente assunto, uno specifico contenuto informativo che, alla luce delle risultanze desunte dagli altri elementi e mezzi disponibili, utilizzerà nel comporre il ragionamento probatorio in cui si articola la decisione. 4.2.1. E’ indubbio che l’attività di selezione di un dato informativo tra tutti i dati informativi astrattamente desumibili da un elemento o da un mezzo di prova, in quanto espressione del prudente apprezzamento del giudice di merito, è attività valutativa riconducibile in via esclusiva al sindacato del giudice di merito ed è estranea al sindacato della Corte di legittimità, con la conseguenza che non è denunciabile come vizio della decisione di merito. Parimenti indubbio è che la parte interessata non può più, una volta esaurito il corso dei giudizi di merito, ridiscutere in sede di legittimità le modalità attraverso le quali il giudice di merito ha valutato, dopo averlo selezionato, il materiale probatorio ai fini della ricostruzione dei fatti di causa Tuttavia, in sede di legittimità, la parte interessata - oltre a poter lamentare l’omesso esame (da parte del giudice di merito) di specifici fatti (di ordine principale o secondario e comunque di carattere decisivo) che siano stati oggetto di contraddittorio processuale - può denunciare l’inesistenza di una informazione probatoria, che, proprio perché inesistente, illegittimamente è stata posta a fondamento della decisione di merito. La verifica di tale inesistenza (la verifica, cioè, dell’inesistenza di una qualsivoglia, reale connessione giuridicamente significativa del singolo dato probatorio, ritenuto in concreto decisivo, con l’elemento o con il mezzo di prova dal quale il giudice ha inteso ricavarlo) si risolve in una operazione di raffronto tra l’elemento o il mezzo di prova utilizzato e il dato probatorio da esso desunto e, pur risentendo in ogni singolo caso della natura della prova in concreto acquisita (se libera o legale, dichiarativa o documentale, ecc.), non può rimanere estraneo al giudizio di legittimità.

4.2.2. Il punto è che l’errore di percezione del contenuto oggettivo della prova esclude in radice, sul piano processuale, la stessa “esistenza” di un giudizio (tanto è vero che deve essere rilevato, qualora non abbia costituito “punto controverso”, dallo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza: cfr. art. 398 primo comma c.p.c.), mentre l’errore di valutazione della prova dà luogo ad un giudizio errato, che deve essere denunciato al giudice dell’impugnazione (sempre che la relativa disciplina lo consenta). 4.3. Osserva, pertanto, il Collegio, in conformità con quanto anche di recente affermato da questa stessa Corte (il riferimento è alla sentenza ed alle ordinanze sopra richiamate), che i dati informativi riferibili a fonti mai dedotte in giudizio dalle parti (un testimone che non è mai stato indicato o, pur essendolo stato, non è stato mai interrogato; un documento che non è mai stato richiamato o che, pur essendo stato richiamato, non è mai stato prodotto, ecc.), ovvero i dati informativi che si riferiscono a fonti appartenenti al processo (uno specifico documento, in concreto ritualmente depositato; un determinato testimone, in concreto regolarmente escusso, ecc.), ma che si sostanziano nell’elaborazione di contenuti informativi che non si lasciano in alcun modo ricondurre, neppure in via indiretta o mediata, alla fonte alla quale il giudice di merito ha viceversa inteso riferirle, non possono essere legittimamente posti a fondamento di una decisione di merito. Se ciò avviene, va riconosciuta alla parte interessata, una volta esaurito il corso dei giudizi di merito, la possibilità di farne denuncia a questa Corte.

4.4. Diversamente opinando, in sede di legittimità, del tutto paradossalmente, sarebbe non censurabile la sentenza del giudice di merito che abbia utilizzato informazioni probatorie che non esistono nel processo: una simile decisione, infatti, sfuggirebbe all’ambito di applicabilità sia dell’art. 360 n. 5 c.p.c. (trattandosi di fatti il cui esame non fu omesso) che dell’art. 395 n. 4 c.p.c. (trattandosi di fatti su cui il giudice di merito si è espressamente pronunciato). 4.5. In altri termini, come recentemente osservato da Cass. 37382/2022, in tema di scrutino della legittimità del ragionamento probatorio seguito dal giudice di merito, l'errore di valutazione nell'apprezzamento dell'idoneità dimostrativa del mezzo di prova non è sindacabile in Cassazione se non si traduca in un vizio di motivazione costituzionalmente rilevante (Cass. ss.uu. 8053/2014), mentre deve ritenersi censurabile, ai sensi dell'art. 360 n. 4 c.p.c., per violazione dell'art. 115 del medesimo codice, l'errore di percezione che sia caduto sul contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che abbia formato oggetto di discussione tra le parti, ed abbia carattere certo di decisività. 4.5.1. Deve, difatti, distinguersi tra le fattispecie: - di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. (che consente l’impugnazione della sentenza nell’ipotesi di omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti); - di cui all’art. 395 n. 4 (che ha riguardo a fatti costituenti un punto controverso su cui il giudice non si è espressamente pronunciato) - di cui all’art. 115 c.p.c. che ha ad oggetto le prove proposte dalle parti, oggetto di discussione (diversamente che nell’ipotesi di errore revocatorio) su cui il giudice si sia espressamente pronunciato (diversamente che nell’ipotesi di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c.). 4.6. Una diversa interpretazione finirebbe, difatti, per consolidare un’inemendabile forma di patente illegittimità della decisione, in contrasto con il principio dell’effettività della tutela, qualora essa si fondi sulla ricognizione obbiettiva del contenuto della prova che conduca ad una conclusione irredimibilmente contraddetta, in modo tanto inequivoco quanto decisivo, dalla prova travisata, sui cui le parti hanno avuto modo di discutere. 5. Le riflessioni sugli spazi del travisamento della prova risentono indubbiamente del non sempre omogeneo alternarsi, nel tempo, delle disposizioni relative al controllo in cassazione della motivazione, di tal che la questione si è posta in tutta la sua complessità – come recentemente osservato da autorevole dottrina - soltanto a seguito delle già ricordate modifiche del 2012 apportate alla previsione concernente il difetto di motivazione: di qui, la scarsa rilevanza, anche sul piano teorico, delle numerose decisioni, rese in subiecta materia, in epoca precedente a tale data.

5.1. Sul piano storico, è noto che il sistema processuale, nel 1865, pur non prevedendo alcun riferimento specifico alla motivazione, menzionava, tra i vizi della sentenza censurabili dinanzi alla Corte, il fatto che la pronuncia contenesse “disposizioni contraddittorie”, mentre la previsione del codice del ’42, che contemplava invece “l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” (oggi, l’omesso esame “circa” un fatto decisivo), era stata introdotta per contrastare l’interpretazione ampia che si era consolidata in ordine all’art. 517 c.p.c., che avrebbe poi trovato, nel codice, affermazione con la riforma del 1950 (che sostituiva, nell’art. 360, n. 5, l’omesso esame con l’“omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio”: quella formula, cioè, che nel 2006 sarebbe stata ulteriormente sostituita con l’“omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”). 5.2. Formule, queste, che vanno lette e interpretate anche tenuto conto degli interventi sulla motivazione che nel frattempo si sono succeduti, e che hanno portato, nell’art. 118 disp. att. c.p.c., alla previsione per cui la motivazione della sentenza consiste “nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa” (anziché delle “ragioni di fatto”, come più correttamente si legge nell’art. 132 c.p.c.), oltre che delle ragioni giuridiche della decisione, e alla possibilità di motivare anche con riferimento a precedenti conformi. 5.2.1. Com’è noto, il rapporto tra omesso esame e vizio di motivazione è stato messo a fuoco dalle sentenze delle sezioni unite del 2014, nn. 8053 e 8054. Il vizio di motivazione è divenuto motivo di nullità della sentenza, censurabile ai sensi dell’art. 360, n. 4, per violazione dell’art. 132 c.p.c.: la Corte chiarisce che è scomparso il “solo” controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma è rimasto il controllo sull'esistenza (sotto il profilo dell'assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell'illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge (processuale), sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata. Siamo al di fuori del n. 5 dell’art. 360, anche se il difetto di motivazione non scompare. 5.2.2. Al tempo stesso, il motivo di cui al n. 5 assume caratteristiche completamente diverse da quelle precedenti: si ha un vizio nuovo, che, per il percorso che la norma ha compiuto nel tempo, non è quel che resta del vizio di motivazione previsto dalla riforma del ’50 (a meno che non si voglia ritenerlo comunque un caso di manifesta illogicità del ragionamento decisorio), anche se nel codice del ’42 il vizio di omesso esame era stato introdotto proprio per limitare il difetto di motivazione all’ipotesi specifica contemplata nel n. 5 5.3. È, quello dell’omesso esame, un vizio diverso, che permette anche una verifica extratestuale rispetto alla sentenza (mentre il vizio di motivazione deve comunque risultare dalla pronuncia), un omesso esame che, soprattutto per chi valorizza l’uso della preposizione “circa” (in luogo del “di” che si aveva nel codice del ’42), può riguardare anche la rappresentazione del fatto nel processo quale si ha nel ragionamento probatorio. 5.4. La questione è rilevante nel momento in cui si raffronta il vizio di omesso esame col motivo di cui all’art. 395, n. 4, che riguarda, com’è noto, il solo fatto che non abbia costituito “un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”. Se le due norme, per questo aspetto, sono ritenute speculari (e, dunque, il fatto allegato dalla sola parte costituita e quello non specificamente contestato sono fuori dal vizio di omesso esame perché fatti non controversi), ci si chiede se - dal momento che l’errore del giudice non è meno grave se riguarda il fatto non controverso - il rimedio revocatorio possa essere invocato a integrare la tutela a disposizione del ricorrente nel caso di omesso esame del fatto non controverso. Ma, si risponde, al di là dell’interrogativo se oggetto dell’errore revocatorio siano esclusivamente gli atti o documenti di causa e non i fatti che ne sono rappresentati (perché solo così si potrebbe avere un errore dei sensi o di percezione del giudice), che l’errore di fatto revocatorio è un errore commissivo, e non omissivo, dal momento che la supposizione del fatto o della sua inesistenza “non può essere implicita, ma dev’essere espressa”, sicché il giudice deve “dichiarare espressamente che un atto o documento di causa esista o abbia un determinato contenuto”: con la conseguenza che l’omesso esame del fatto non controverso non trova integrale copertura, perché rimane fuori anche dal rimedio della revocazione. 5.5. Da questo punto di vista si comprende che la giurisprudenza processualpenalistica, cui si deve la più compiuta elaborazione del tema del travisamento della prova, e che non dispone del rimedio della revocazione del processo civile, ne discorra in termini di errore che, cadendo sul significante e non sul significato della prova, si traduce nell’utilizzo di una prova inesistente per effetto di una errata percezione di quanto riportato nell’atto istruttorio e perciò – si aggiunge - in una sorta di errore revocatorio che però consente il ricorso al giudice di legittimità.

5.6. Che la revocazione per errore di fatto sia un rimedio imprescindibile di tutela lo ha ribadito la Corte costituzionale nella sentenza 5 maggio 2021, n. 89, a proposito della necessità che siano passibili di revocazione per errore di percezione tutti i provvedimenti decisori, anche quando non assumano la forma della sentenza. La possibilità di reagire contro la falsa supposizione dell’esistenza o dell’inesistenza di un fatto è, secondo la Corte, un corollario del canone del giusto processo.

5.7. Quando il fatto abbia costituito un punto controverso nel corso del giudizio nel quale il giudice ebbe a pronunciarsi, il relativo vizio non può essere fatto valere come motivo di revocazione: ma questa stessa Corte, prima della modifica dell’art. 360, n. 5, ha sempre affermato che, in questo caso, il vizio dovesse poter essere fatto valere nel giudizio di cassazione come difetto motivazionale, con conseguente, totale “copertura” dell’area del vizio di motivazione della sentenza impugnata. 5.8. Il collegio dubita, pertanto, della legittimità di una soluzione secondo cui, nella vigenza dell’art. 360 n. 5 anteriore al 2012, il travisamento potesse dar luogo a ricorso per cassazione come vizio di motivazione, mentre oggi tale possibilità sarebbe irrimediabilmente preclusa volta che il travisamento non potrebbe mai formare oggetto di una omissione - pur valendo, anche in questo caso, il principio, affermato dalla Corte costituzionale, secondo cui la possibilità di emendare dall’errore percettivo il provvedimento giurisdizionale rappresenta l’irrinunciabile presidio dell’effettività della tutela giurisdizionale. 5.8.1. Ci si interroga, pertanto, se possa considerarsi coerente con l’art. 6 CEDU, oltre che con l’art. 24 Cost., un sistema che, da un lato, non offra alcuna tutela in ogni caso in cui il giudice abbia travisato la prova, e che tuttavia, dall’altro, consenta la condanna dello Stato per i provvedimenti giudiziari comunque emessi in base a quello stesso travisamento, in ipotesi espunto dal sistema dei vizi rappresentabili al giudice di legittimità, ai sensi della legge 27/02/2015, n. 18 (che ha modificato la L. 13/04/1988 n. 117 sulla responsabilità civile dei magistrati), ed in particolare, della previsione del comma 3, dell'art. 2, a mente del quale costituisce colpa grave addirittura il travisamento del fatto, oltre che delle prove - indice indiretto ma indiscutibile della pari rilevanza dei due errori.

5.9. A tali considerazioni va ancora aggiunto che negare la censurabilità in Cassazione del vizio di travisamento della prova sarebbe interpretazione contrastante con talune inequivoche indicazioni provenienti dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo in tema di limiti alla impugnabilità delle sentenze, alla luce del preciso monito, indirizzato al giudice di legittimità nazionale, che proviene dalla sentenza 28 ottobre 2021 (Ricorso n. 55064/11 e altri 2 - Succi e altri contro Italia), predicativa di principi che, pur se applicati alla diversa questione dell’inammissibilità dei ricorsi per cassazione per preteso difetto di autosufficienza, sembrano assumere, mutatis mutandis, portata più generale nel passaggio motivazionale in cui si afferma (punto 81 della decisione) “che le restrizioni dell'accesso alle corti di cassazione non possono limitare, attraverso un'interpretazione troppo formalistica, il diritto di accesso a un tribunale in modo tale o a tal punto che il diritto sia leso nella sua stessa sostanza, anche se il carico di lavoro della Corte di cassazione ….. può causare difficoltà al normale funzionamento della trattazione dei ricorsi (cfr. Vermeersch c. Belgio, 49652/10, § 79, 16 febbraio 2021; Efstratiou e altri c. Grecia, n. 53221/14, § 43, 19 novembre 2020)”. La medesima Corte di Strasburgo ha poi ripetutamente affermato che le sentenze le quali dichiarino inammissibile una impugnazione per ragioni formali possono dirsi coerenti con l’art. 6, § 1, della CEDU, solo quando: (a) la causa di inammissibilità sia espressamente prevista dalla legge; (b) la causa di inammissibilità possa essere prevista ex ante; (c) la causa di inammissibilità non sia di derivazione giurisprudenziale o, se lo sia: (c’) non sia frutto di una interpretazione “troppo formalistica”; (c’’) risulti comunque da un orientamento consolidato; (c’’’) sia chiara ed univoca (Corte EDU, sez. I, 15.9.2016, Trevisanato c. Italia, in causa n. 32610/07, §§ 42-44, ove ulteriori ed ampi riferimenti ai precedenti conformi). La (pretesa) incensurabilità in Cassazione del travisamento della prova, tuttavia, verrebbe a rappresentare una ipotesi di inammissibilità non espressamente prevista dalla legge, non prevedibile con certezza ex ante, e nemmeno risultante da un orientamento consolidato. Si tratterebbe, dunque, d’una interpretazione irrispettosa di tutti i parametri dettati dalla Corte di Strasburgo in tema di limitazione del diritto di impugnazione. 5.9.1. E ciò è a dirsi nell’ottica di conciliare la funzione nomofilattica del giudice di legittimità con il fondamentale diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario “in misura tale da non inciderne la sostanza" (così, da ultimo, Cass. n. 3612 del 2022), proprio ai sensi dell’art. 6 § 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Né appare senza significato rammentare, in proposito, che le sezioni unite della Corte, con la sentenza n. 10531 del 2013, interrogandosi sul tema della giustizia della decisione, hanno avuto modo di affermare come "la funzione … del processo, che semplicisticamente è stata definita come pubblicistica, andando a fondo, fa leva sul valore della giustizia della decisione, che deve ritenersi valore primario del processo stesso".

5.10. Se appare condivisibile il principio secondo cui l’errore di percezione su un fatto controverso (il travisamento del fatto) presupporrebbe l’esistenza di prove chiare o che esistesse un fatto distinto dal giudizio di fatto, va peraltro osservato come il giudice non constati mai, sic et simpliciter, i fatti naturali. Le prove – siano testimonianza, documento o confessione – sono, come si è avuto già modo di osservare, sempre e pur sempre dei giudizi sul fatto (da qui, come acutamente osservato in dottrina, la natura “finzionistica” della retorica del giudice, il cui compito “è far apparire giustificata una decisione in base a circostanze che possono essere dette ‘vere’ solo in un mondo immaginario”). 5.10.1. Ne consegue che il travisamento del fatto, a differenza del travisamento della prova, ha ad oggetto la ricostruzione derivante dalla valutazione di insieme di ogni prova, ed implica una disamina olistica di un complesso di circostanze che comportano il rischio di sconfinamenti, mentre il travisamento della prova è pertinente ad una prova singola, rispetto alla quale è del tutto legittimo predicare la possibilità di un errore meramente percettivo, volta che: - il travisamento del fatto equivarrebbe ad attribuire al giudice di legittimità il compito di esaminare più atti per interpretarli e coordinarli tra loro con un’operazione di ricostruzione logica e argomentativa, che tipicamente appartiene al merito del giudizio - il travisamento della prova non implica (come si osserva ancora in dottrina) un’attività di armonizzazione delle prove ovvero di ricostruzione dei fatti, ma impone al giudice una operazione quasi meccanica di raffronto tra testi.

5.11. E’ innegabile che il travisamento della prova comporti, quale operazione logico-deduttiva, a monte, su di un piano strettamente “naturalistico” (anche) un travisamento del fatto: ma il travisamento della prova valutato su di un piano rigorosamente processuale dovrebbe poter rappresentare pur sempre, analogamente all’ipotesi in cui il giudice abbia posto a fondamento della decisione una prova inesistente, una violazione dell’art. 115 c.p.c., denunciabile ex art. 360, n. 4, come motivo di nullità della sentenza, volta che risultino alfine chiari e definiti i confini tra errore di percezione ed errore di valutazione, quando il punto di fatto su cui cade la prova è controverso, sicché appare difficile immaginare che si sia in presenza di una mera svista. 6. Se, di converso, l’errore percettivo è caduto su un fatto storico, principale o secondario, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e che risulti idoneo ad orientare in senso diverso la decisione, esso può essere fatto valere, negli stringenti limiti di cui al novellato art. 360 primo comma n. 5 c.p.c., ogni qual volta esso consista nell’omesso esame di quel fatto (e non anche quando si traduca nella mera insufficienza o contraddittorietà della motivazione), sempre che non ricorra l’ipotesi della cd. “doppia conforme” ai sensi dell’art. 348 ter commi 4 e 5 c.p.c.. 6.1. Ne consegue che, in tema di scrutinio di legittimità del ragionamento probatorio adottato dal giudice di merito, la valutazione del materiale probatorio è destinata a risolversi nella scelta di uno o più tra i possibili contenuti informativi che il singolo mezzo di prova è, per sua natura, in grado di offrire all’osservazione e alla valutazione del giudice, ed è espressione della discrezionalità valutativa del giudice di merito, estranea ai compiti istituzionali della Corte di legittimità - e conseguentemente non denunciabile, dinanzi a quest’ultima, come vizio della decisione di merito, a seguito della definitiva riformulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., restando totalmente interdetta alle parti la possibilità di discutere, in sede di legittimità, del modo attraverso il quale il giudice di merito ha compiuto le proprie valutazioni discrezionali di carattere probatorio.

6.1.1. Viceversa, alla stessa parte deve ritenersi consentita, in applicazione delle norme di cui all’art. 115 e 360 n. 4 c.p.c., la facoltà di denunciare la errata percezione (e la conseguente utilizzazione), da parte del giudice di merito, di prove inesistenti, ovvero di prove non solo riferite a fonti mai dedotte in giudizio dalle parti (un testimone mai addotto o escusso; un documento mai depositato agli atti), ma altresì a prove che, pur riferendosi a fatti/fonti appartenenti al processo (uno specifico documento ritualmente depositato, un testimone regolarmente escusso), si sostanziano nella elaborazione di contenuti informativi non riconducibili in alcun modo a dette fonti, neppure in via indiretta o mediata, ossia di informazioni probatorie delle quali risulti preclusa alcuna connessione logico-significativa con le fonti o i mezzi di prova cui il giudice ha viceversa inteso riferirle, sempre che tali prove abbiano, specularmente interpretate, il carattere della decisività.

6.2. In altri termini, il travisamento della prova censurabile in cassazione, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c., postula: a) che l’errore del giudice di merito cada non sulla valutazione della prova (demostrandum), ma sulla ricognizione del contenuto oggettivo della medesima (demostratum), con conseguente, assoluta impossibilità logica di ricavare, dagli elementi acquisiti al giudizio, i contenuti informativi che da essi il giudice di merito ha ritenuto di poter trarre; b) che tale contenuto abbia formato oggetto di discussione nel giudizio; c) che l’errore sia decisivo, in quanto la motivazione sarebbe stata diversa se fosse stata correttamente fondata sui contenuti informativi oggettivamente risultanti dal materiale probatorio ed inequivocamente difformi da quelli erroneamente desunti dal giudice di merito; d) che il giudizio sulla diversità della decisione sia espresso non già in termini di mera probabilità, ma di assoluta certezza.

7. Nel caso di specie, le ricorrenti hanno correttamente denunciato la nullità della sentenza impugnata anche per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (ai sensi dell'art.360 n.4 c.p.c.),nella parte in cui la Corte territoriale ha escluso che le lettere sopra citate hanno valore di confessione stragiudiziale; e, altrettanto correttamente, hanno sostenuto che i passaggi motivazionali (sopra richiamati) tradiscono l’errore di percezione sul contenuto oggettivo delle prove documentali e delle risultanze dell'indagine peritale, nel quale è incorsa la Corte territoriale. Per altro verso, i ricorrenti hanno assolto agli oneri argomentativi, come sopra illustrati. 8. Non ignora il collegio, come si è già avuto modo di accennare in precedenza, che, a tale interpretazione della fattispecie processuale del travisamento della prova, si contrappone altro orientamento di questa stessa Corte (per tutte, funditus, Cass. sez. lav., ord. 3/11/2020 n. 24395) a mente del quale il c.d. travisamento della prova non sarebbe più deducibile come motivo di ricorso per cassazione a seguito della novella apportata all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. dall’art. 54 del d.l. n.83 del 2012, conv. in l. n.134 del 2012, che ha reso inammissibile la censura per insufficienza o contraddittorietà della motivazione, né sarebbe invocabile a norma del comma 4 dello stesso articolo per violazione dell'art. 115 del medesimo codice, ma piuttosto come motivo di revocazione ai sensi dell'art. 395, comma 1, n. 4, c.p.c.

P.Q.M.

La Corte trasmette gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite al fine di risolvere il contrasto di giurisprudenza segnalato in motivazione. Così deciso in Roma, il 29 marzo 2021