Giu Questione: se, nel caso di ricorso per cassazione dichiarato improcedibile e di mancata iscrizione a ruolo ad opera del ricorrente, debba o meno trovare applicazione il disposto circa il versamento dell'ulteriore contributo unificato
Corte di Cassazione, VI sez. Tributaria - ORDINANZA INTERLOCUTORIA 11 novembre 2022 N. 33270
Massima
La Sesta Sezione Tributaria, in tema di improcedibilità del ricorso per cassazione per il mancato depositato in cancelleria entro i termini di cui all’art. 369 c.p.c., ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente, ai fini dell’eventuale rimessione alle Sezioni Unite, ex art. 374, comma 2, c.p.c., sulla questione oggetto di contrasto, ritenuta anche di massima di particolare importanza se, nel caso di ricorso per cassazione dichiarato improcedibile e di mancata iscrizione a ruolo ad opera del ricorrente, debba o meno trovare applicazione il disposto di cui all'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, ai sensi del quale, quando l'impugnazione, anche incidentale, è dichiarata improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Casus Decisus
RILEVATO CHE Come si evince dal controricorso dell'Agenzia delle entrate, notificato il 21.2.2022 all'indirizzo di posta elettronica certificata del difensore, R. B. in data 13 dicembre 2021 ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell'Abruzzo, n. 361/6/2012, dep. il 11 maggio 2021, ma ne ha omesso il deposito in cancelleria e non lo ha iscritto a ruolo, come da certificazione negativa della cancelleria centrale civile in atti del 26 marzo 2022, ex art. 369 c.p.c. (ai sensi del quale il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della Corte, a pena di improcedibilità [ara. 375, 387c.p.c.j, nel termine di giorni venti dall'ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto).

Testo della sentenza
Corte di Cassazione, VI sez. Tributaria - ORDINANZA INTERLOCUTORIA 11 novembre 2022 N. 33270 L. Napolitano

CONSIDERATO CHE

1.La parte ricorrente, dopo aver notificato il ricorso all'Agenzia delle entrate, non ha provveduto al deposito dello stesso presso la cancelleria di questa Corte nei termini di cui all'art. 369 c.p.c.. Ciò comporta, ex art. 369, cod. proc. civ., l'improcedibilità del ricorso con condanna alle spese per il principio di soccombenza, in ragione del fatto che l'Agenzia delle entrate ha apprestato delle difese con controricorso e che al momento in cui le è stato notificato il ricorso non poteva ragionevolmente ipotizzare che il ricorso non sarebbe stato successivamente depositato nella cancelleria della Cassazione e che quindi tali difese sarebbero risultate irrilevanti in virtù della inevitabile dichiarazione di improcedibilità del ricorso (Cass. n. 27778 del 2021).

2. Il Collegio si interroga in merito al se trovi applicazione al caso di specie, in cui il ricorso è stato dichiarato improcedibile e non è avvenuta l'iscrizione a ruolo del ricorso ad opera del ricorrente, il disposto di cui all'art. 13, comma 1- quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, ai sensi del quale, quando l'impugnazione, anche incidentale, è dichiarata improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a nonna dello stesso art. 13, comma 1-bis. Secondo l'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2022, n. 115: «Quando l'impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l'obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso». Secondo l'art. 13, comrna 1-bis, del d.P.R. 30 maggio 2022, n. 115: «Il contributo di cui al comma 1 è aumentato della metà per i giudizi di impugnazione ed è raddoppiato per i processi dinanzi alla Corte di cassazione».

3. Nella giurisprudenza di questa Corte, si rinvengono, in merito al suddetto tema, due distinti orientamenti.

a) Secondo un primo orientamento, ampiamente maggioritario (cfr. ex multis, Cass., sez. un., 18 ottobre 2022, n. 30702; Cass. sez. un. 4 marzo 2016, n. 4250; Cass., sez. I, 5 ottobre 2022 n. 28898; Cass. sez. Il, 3 ottobre 2022, n. 28588; Cass., sez. III, 28 marzo 2022 n. 9869; Cass., sez. lav., 23 settembre 2022, n. 27884; Cass., sez. trib., 31 agosto 2022, n. 25620; Cass., sez. VI-I, 22 luglio 2022 n. 22990; Cass., sez. VIII, 8 marzo 2022 n. 7538; Cass., sez. 23 settembre 2022, n. -3- Ric. 2022 n 07443 sez. MT - ud. 18-10-2022 27929; Cass., sez. VI-IV, 26 luglio 2022, n. 23310; Cass., sez. VI-V, 1° settembre 2022, n. 25787, tutte pronunce però che sul punto in questione non motivano), e che trova un sicuro argomento a suo favore nella lettera della legge — la quale prevede esplicitamente l'improcedibilità quale situazione giuridica in presenza della quale si applica la suddetta norma - il pagamento del contributo unificato è in questo caso dovuto.

b) Secondo un secondo orientamento invece, cospicuo ma nettamente minoritario e sviluppatosi all'interno della sola sottosezione tributaria della sezione sesta, tale contributo non sarebbe in tal caso dovuto. In particolare, condividono questo secondo orientamento, le seguenti ordinanze: Cass., VI-V, 17 marzo 2022, n. 8728, Rv. 664301 — 01, (che può considerarsi la sentenza capofila del presente orientamento, che è l'unica ad essere massimata e che si rifà a Cass. S.U. n. 4315 del 2020); Cass., VI-V, 18 marzo 2022, n. 8890 (dello stesso estensore di Cass. n. 8728 del 2022 e che ne riporta lo stesso ragionamento); Cass. sez. VIV, 9 settembre 2022 n. 26309 (che richiama Cass. n. 8728 del 2022 cit.); Cass., sez. VI-V, 4 ottobre 2022, n. 28696 (che richiama Cass. n. 8728 del 2022 cit.); Cass., sez. VI-V, 14 settembre 2022, n. 27048 (che richiama Cass. n. 8728 del 2022); Cass., sez. VI-V, 1° agosto 2022, n. 23834 (che richiama soltanto la citata Cass. SU n. 4315 del 2020); Cass., sez. VI-V, 25 maggio 2022 16959; Cass., sez. VI-V, 25 maggio 2022, n. 16945 (che richiama Cass. 8728 del 2022 cit., Cass. 8290 del 2022 cit. e Cass. SU n. 4315 del 2020 cit.); Cass., sez. VI-V, 12 aprile 2022 n. 13024 (che cita Cass. n. 8728 del 2022 cit.); Cass., sez. VI-V, 16 marzo 2022 nn. 8538, 8539 e 8540 (che, scritte dallo stesso relatore, richiamano tutte Cass. SU n. 4315 del 2020 cit.).

c) Deve altresì segnalarsi una isolata pronuncia della sesta sezione, sottosezione terza (Cass., VI-III, 4 marzo 2022, n. 7176) la quale, nel dichiarare l'improcedibilità del ricorso, afferma che «non deve provvedersi ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1- quater, stante il mancato deposito del ricorso medesimo», senza tuttavia specificamente motivare sul punto.

3.1.La sentenza capofila del secondo orientamento (sub b) , Cass. 17 marzo 2022, n. 8728, Rv. 664301 —01, è così massimata: «l'obbligo di versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato è nonnativamente e logicamente dipendente dalla sussistenza del precedente obbligo della parte impugnante di versare il contributo al momento dell'iscrizione a ruolo della causa; va, pertanto, escluso che il giudice dell'impugnazione debba rendere l'attestazione della sussistenza del presupposto processuale previsto dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, qualora la pronuncia adottata sia di improcedibilità del ricorso principale, per omesso deposito di quest'ultimo, e la mancata iscrizione a ruolo del ricorso precluda la debenza stessa del contributo unificato iniziale». A margine della riportata massima non sono indicate massime precedenti o successive, siano esse conformi o difformi, ma solo un precedente segnalato con il "vedi", rappresentato dalla sentenza a sezioni unite 20 febbraio 2020 n. 4315, che è articolata in cinque massime. Una di queste (Rv. 657198 - 04) afferma che «il giudice dell'impugnazione deve rendere l'attestazione della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato di cui all'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, quando la pronuncia adottata è inquadrabile nei tipi previsti dalla norma (integrale rigetto, inammissibilità o improcedibilità dell'impugnazione), mentre non è tenuto a dare atto dell'insussistenza di tale presupposto quando la pronuncia non rientra in alcuna di suddette fattispecie».

Secondo la successiva massima (Rv. 657198 - 05), inoltre, «in tema di raddoppio del contributo unificato a carico della parte impugnante ex art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, l'attestazione del giudice dell'impugnazione della sussistenza del presupposto processuale per il versamento dell'importo ulteriore (c.d. doppio contributo) può essere condizionata all'effettiva debenza del contributo unificato iniziale, che spetta all'amministrazione giudiziaria accertare, tenendo conto di cause di esenzione o di prenotazione a debito, originarie o sopravvenute, e del loro eventuale venir meno». La indicata decisione (Cass. 17 marzo 2022, n. 8728) sviluppa un ampio ragionamento, sul punto oggetto di interesse al fine della presente ordinanza di rimessione, partendo proprio dal principio di cui alla sentenza a sezioni unite n. 4315 del 2020, osservando che «in tale pronuncia si è affermato che "l'obbligo di versare un importo "ulteriore" del contributo unificato (c.d. "doppio contributo") presuppone non iativamente l'obbligo di versare il "primo" contributo unificato" (par. 7.1 della citata pronuncia), posto che "l'aggettivo "ulteriore", espressamente utilizzato dal Legislatore nel D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, primo periodo (c.d. T.U.G.S.), "significa che l'importo da versare si aggiunge e corrisponde a quello dovuto a titolo di contributo unificato per il giudizio di impugnazione, ex art. 13 T.U.S.G., comma 1-bis, al momento dell'iscrizione della causa a ruolo". Secondo detta pronuncia, "il carattere "ulteriore" dell'importo dovuto a titolo di contributo unificato non implica soltanto che l'entità di tale importo corrisponde all'entità del contributo iniziale, che perciò è "raddoppiato"; esso implica anche e soprattutto che l'obbligo di versare un importo "ulteriore" del contributo unificato è - nella formula dell'art. 13 T.U.S.G., comma 1-quater - "normativamente e logicamente dipendente" dalla sussistenza del precedente obbligo della parte impugnante di versare inizialmente, al momento dell'iscrizione della causa a ruolo, il contributo unificato". "In altre parole, l'obbligo di corresponsione di un ulteriore importo del contributo unificato è "normativamente condizionato" alla debenza del contributo unificato iniziale e può sorgere solo a condizione che tale contributo sia dovuto: la debenza del contributo unificato iniziale costituisce, dunque, il presupposto sostanziale della debenza del raddoppio". Il Supremo collegio ha, quindi, affermato che, mentre spetta al giudice accertare e dare atto della sussistenza (non essendo tenuto ad un'attestazione negativa) del primo dei due presupposti individuati dal art. 13 T.U.S.G., comma 1-quater, primo periodo, per il sorgere dell'obbligo di versare il doppio contributo, ovvero che sia stata adottata una pronuncia corrispondente ad uno dei tipi (integrale rigetto o inammissibilità o improcedibilità dell'impugnazione) previsti dalla legge, trattandosi di presupposto che appartiene al campo del diritto processuale, compete, invece, in via esclusiva all'amministrazione giudiziaria (e, solo in caso di contestazione, alla giurisdizione tributaria) accertare la sussistenza del secondo presupposto, che "appartiene al campo del diritto sostanziale tributario" e che è "costituito dalla debenza del contributo unificato iniziale". In buona sostanza, "l'attestazione del giudice può riguardare solo la ricorrenza del "presupposto processuale" che determina in astratto il raddoppio del contributo (ossia l'aver adottato una pronuncia di integrale rigetto o di inammissibilità o di improcedibilità dell'impugnazione); ma non può riguardare la sussistenza dell'altro presupposto richiesto dall'art. 13 T.U.S.G., comma 1-quater, costituito dalla debenza del contributo unificato iniziale, il cui accertamento compete in via esclusiva all'amministrazione giudiziaria e, in caso di contestazione, alla giurisdizione tributaria". Sul rilievo che non tutte le pronunce di integrale rigetto o inammissibilità o improcedibilità dell'impugnazione sono inquadrabili nei tipi previsti dalla norma in esame, le Sezioni unite hanno precisato che il giudice non deve formulare alcuna attestazione nei casi di l'esclusione in radice del raddoppio del contributo unificato: così, ad es., quando dichiari l'estinzione del giudizio (Cass., Sez. 6 -1, n. 23175 del 12/11/2015; Cass., Sez. 6-3, n. 19560 del 30/09/2015) o quando dichiari l'inammissibilità sopravvenuta dell'impugnazione per cessazione della materia del contendere (Cass., Sez. 6-2, n. 13636 del 02/07/2015)". Tra questi, non esaustivi, casi va sicuramente ricompresa la fattispecie in esame, di dichiarazione di improcedibilità del ricorso perché non depositato nella Cancelleria, in quanto, la mancata iscrizione a ruolo del ricorso preclude la debenza stessa del contributo unificato iniziale che, come detto, è il presupposto per la debenza di quello "ulteriore". Peraltro, anche a voler sostenere che la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, per qualsiasi ragione pronunciata, determini automaticamente l'obbligo del giudice di formulare quell'attestazione "condizionandola" alla debenza del contributo inizialmente dovuto", si perviene comunque alla medesima conclusione. Infatti, le Sezioni unite hanno precisato che il giudice non è comunque tenuto a formulare quell'attestazione quando (ad esempio per la materia della controversia, come nelle ipotesi di "equa riparazione" ai sensi della legge n. 89 del 2001, o di disciplinare magistrati; o per la qualità soggettiva delle parti, come nelle ipotesi in cui ad agire in giudizio è l'Amministrazione dello Stato, istituzionalmente esonerata dal materiale versamento del contributo stesso mediante il meccanismo della prenotazione a debito) appaia "ictu oculi" evidente che il pagamento del contributo unificato sia radicalmente e definitivamente escluso". "In tali casi, infatti, l'attestazione del giudice sarebbe vana apparendo evidente ed indiscutibile che il raddoppio del contributo è precluso" (nella specie, per insussistenza del suo presupposto, ovvero della debenza del contributo unificato iniziale) "e il giudice può astenersi dalla detta attestazione". Per negare la debenza del contributo in ipotesi di improcedibilità del ricorso a cui corrisponda la mancata iscrizione a ruolo del ricorso da parte del ricorrente, questo orientamento fa quindi leva su un argomento logico fondato sulla lettera della norma in questione, ossia la presenza dell'aggettivo "ulteriore", che non potrebbe che presupporre l'obbligo di versare il "primo" contributo unificato al momento dell'iscrizione della causa a ruolo", che invece non è stato versato. Tuttavia a tale argomento potrebbe replicarsi ritenendo che l'attestazione della debenza del contributo "ulteriore" farebbe proprio riferimento alla necessità di versare il cd. "doppio contributo", cosicché potrebbe sostenersi che, in ipotesi di ricorsi dichiarati improcedibili, e conclusisi con una ordinanza che attesti la debenza del contributo "ulteriore", l'amministrazione finanziaria possa esigere dal ricorrente appunto il doppio contributo, ovverosia quanto avrebbe dovuto pagare al momento dell'iscrizione a ruolo del ricorso e quanto previsto ai sensi dell'art. 13, comma 1- quater del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ossia proprio quel contributo "ulteriore".

3.2. Il secondo orientamento, inoltre, pretenderebbe di individuare un autorevole precedente nella più volte segnalata sentenza a sezioni unite Cass. n. 4135 del 2020, la quale tuttavia, per un verso è stata sintetizzata dalla già ricordata massima, la quale fa discendere la doverosità del pagamento del doppio contributo alla semplice dichiarazione di improcedibilità senza ulteriori specificazione; per un altro verso è richiamata altresì anche dall'orientamento opposto (quello che per comodità espositiva è stato definito "primo orientamento"), proprio per sostenere la doverosità del pagamento nel caso oggetto della presente controversia: hanno infatti affermato Cass., sez. VI-III, 7 luglio 2022 n 21498 e Cass., sez. 13 ottobre 2022, n. 30071, redatte dallo stesso relatore, che «poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è stato dichiarato improcedibile, sussistono i presupposti processuali (a tanto limitandosi la declaratoria di questa Corte: Cass. Sez. U. 20/02/2020, n. 4315) per dare atto - ai sensi dell'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all'art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 (e mancando la possibilità di valutazioni discrezionali: tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra le innumerevoli altre successive: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) - della sussistenza dell'obbligo di versamento, in capo a parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per la stessa impugnazione». Sembra dunque che la soluzione del problema oggetto della presente ordinanza passi da una corretta interpretazione della sentenza a sezioni unite n. 4135 del 2020.

3.3. A proposito del primo orientamento (sub a), deve però evidenziarsi che, anche se come già riferito è nettamente prevalente, per un verso — tranne forse le due ordinanze sopra indicate della sezione sesta sottosezione terza, che peraltro si limitano a richiamare Cass. SU n. 4135 del 2020 affermando che quest'ultima pronuncia ritiene che in caso di improcedibilità debba corrispondersi il doppio contributo - non argomenta in merito al perché il contributo nel caso in questione sarebbe dovuto, dandolo così per scontato, e per un altro verso non tiene conto, sia pure solo per contrastarlo, dell'orientamento opposto appena illustrato, che non viene invece mai citato, pur essendo, come rilevato, ragguardevole, sebbene chiaramente minoritario, e motivato. Un argomento a favore del primo orientamento potrebbe poi essere rinvenuto in due pronunce (Cass., sez. V, 22 marzo 2022 n. 9206; Cass., sez. VI-III, 17 giugno 2022, n. 19651) le quali, pur dichiarando l'estinzione del giudizio e quindi pur non dichiarando il ricorso improcedibile, affermano la natura lato sensu sanzionatoria della norma in questione («in ragione della definizione agevolata della controversia non si ravvisano i presupposti per imporre il pagamento del cd. doppio contributo siccome misura applicabile ai soli casi tipici di rigetto, inammissibilità o improcedibilità del gravame e pertanto non suscettibile, per la sua natura lato sensu sanzionatoria, di interpretazione estensiva o analogica: Cass., sez. 6-5, 7/12/2018, n. 31372; Cass., sez. 6-5, 7/6/2018, n. 14782»). E allora, se si accede alla natura sanzionatoria dell'art. 13, comma 1- quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, è evidente che il pagamento del contributo (o meglio, del doppio contributo) non potrà negarsi perché la condotta del ricorrente appare evidentemente connotata da una grave negligenza consistente, dopo la notifica il ricorso, nel non essere il difensore riuscito a renderlo procedibile a causa dell'inosservanza di norme di legge fondamentali e oltretutto poste a presidio di interessi fondamentali del processo quali la certezza delle situazioni giuridiche e il controllo circa la tempestività del ricorso. Il danno derivante da tale improcedibilità non è arrecato solo al cliente ma anche e soprattutto al funzionamento del sistema Giustizia, che, già gravato da una consistente arretrato, mal tollera un ulteriore aggravio del peso delle controversie. Ric. 2022 n 07443 sez. MT - ud. 18-10-2022 - Potrebbe ancora replicarsi a questa impostazione che è indimostrata la natura sanzionatoria dell'art. 13, comma 1- quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ben potendosi sostenere che, legando indissolubilmente l'affermata natura sanzionatoria del pagamento del doppio contributo ad una condotta imperita del difensore, sì finirebbe per ritenere che tutte le volte in cui il ricorso del ricorrente venga dichiarato improcedibile, inammissibile o infondato in toto sarebbe ravvisabile un difetto di diligenza del difensore ex art. 1176, comma 2, cod. civ., il che però non corrisponde al vero perché sono tutt'altro che infrequenti i ricorsi rigettati a seguito di un cambio di orientamento giurisprudenziale della Corte di legittimità successivo alla proposizione del ricorso, magari su impulso di una decisione della Consulta altrettanto successiva, il che può al più portare la Cassazione alla decisione di compensare le spese ma non anche a quella di negare la sussistenza del presupposto processuale del pagamento del doppio contributo.

3.4.Deve altresì evidenziarsi che un altro argomento a favore del secondo orientamento può ricavarsi dalla lettura delle stesse pronunce citate in precedenza (Cass., sez. V, 22 marzo 2022 n. 9206; Cass., sez. VI-III, 17 giugno 2022, n. 19651) che hanno definito lato sensu sanzionatoria la natura del pagamento del doppio contributo, laddove affermano, nel negarne la sussistenza dei presupposti per una ipotesi di dichiarazione di estinzione del giudizio, che deve escludersi il raddoppio atteso che tale misura si applica ai soli casi - tipici - del rigetto dell'impugnazione o della sua declaratoria d'inammissibilità o improcedibilità e, trattandosi di misura eccezionale, lato sensu sanzionatoria, essa è di stretta interpretazione e, come tale, non suscettibile di interpretazione estensiva o analogica. Tuttavia, all'argomento relativo alla natura di stretta interpretazione della norma, che in effetti suggerirebbe di primo acchito di propendere, nei casi dubbi come quello in questione, per il secondo orientamento, può agevolmente replicarsi che l'ordinanza da ultimo citata si riferisce ad una ipotesi ben diversa (dichiarazione di estinzione del giudizio) dal caso in questione (dichiarazione di improcedibilità), e tale diversità assume particolare rilievo in ragione del dettato dell'art. 13, comma 1- quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, secondo cui il pagamento del doppio contributo è dovuto in ragione di una espressa previsione della suddetta norma, che contempla espressamente l'improcedibilità quale requisito di applicabilità, quindi senza alcun bisogno di una interpretazione estensiva o di una applicazione in via analogica. In questa prospettiva ha deciso Cass. 23 marzo 2022 n. 9421, che in una ipotesi di estinzione del giudizio, ha affermato che, pur trattandosi di ricorso soggetto, ratione temporis, al regime di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, la decisione assunta non è equiparabile al rigetto o alla dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell'impugnazione, per cui il ricorrente non è tenuto a versare l'ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l'impugnazione medesima. Devo però evidenziarsi che, nel caso ad esempio di estinzione del giudizio a seguito di rinuncia della parte, ben potrebbero in taluni casi in concreto riconoscersi dei profili di imperizia da parte del difensore che pure tuttavia non sono sanzionati dalla norma in questione, il che ne mette ulteriormente in dubbio la sua presunta natura sanzionatoria, sia pure lato sensu.

3.5.Deve ancora sottolinearsi che, nonostante il notevole arretrato tuttora pendente in Cassazione, ancora oggi chiunque può accedere alla Corte di legittimità, quand'anche non siano in gioco diritti fondamentali ma una semplice somma di denaro e pure nell'ipotesi in cui tale somma controversa sia davvero esigua. Tale diritto di accesso alla Corte di cassazione è del resto ritenuto conforme al dettato costituzionale, in quanto l'art. 111, comma settimo, della Costituzione, stabilisce che contro le sentenze pronunciate dagli organi giurisdizionali, ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Non può non evidenziarsi, inoltre, che tale previsione è conforme al dettato di cui all'art. 24 Cost., secondo cui da un lato "tutti" (quindi non solo il cittadino ma anche lo straniero) "possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi" (quindi senza alcuna distinzione relativa all'ammontare della somma controversa) e dall'altro "la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento". Occorre altresì evidenziare che il diritto di difesa (da intendersi anche nella diversa accezione del diritto ad agire in giudizio) costituisce, secondo la Corte costituzionale, un diritto "inviolabile e quindi fondamentale" (cfr. Corte cost., sentenza n. 114 del 2018): tale diritto dunque, nella gerarchia dei valori tracciata negli anni dalla Consulta, occupa il vertice e costituisce quindi un limite anche per eventuali disposizioni in senso contrario dell'Unione Europea (in questo senso la giurisprudenza della Consulta è costante fin dalla sentenza n. 170 del 1984). Tuttavia non può nascondersi che questa garanzia di accesso indiscriminato in Cassazione, questo diritto fondamentale del singolo di accedere sempre e incondizionatamente alla giustizia ha dei costi assai notevoli e si scontra inoltre con il diritto, altrettanto fondamentale, della collettività all'efficienza della Giustizia in genere e ad una ragionevole durata dei processi (artt. 111 Cost. e 6 CEDU). I ritardi della Giustizia, ai quali contribuisce la necessità di trattare anche le cause dichiarate improcedibili, si ripercuotono infatti inevitabilmente e indistintamente su tutti i cittadini (che spesso, scoraggiati dall'idea di dover attendere lungamente per ottenere Giustizia, rinunciano a far valere in sede giudiziale i propri diritti), sugli altri processi (i cui tempi inevitabilmente si allungano) sul rischio di prescrizione dei reati (per trattare i procedimenti civili per importi di modesta entità occorre sottrarre risorse dai giudizi penali), sui conti pubblici (perché l'allungarsi della durata dei processi determina un aumento delle cause per ottenere l'equo indennizzo di cui alla legge Pinto n. 89 del 2001) sull'affidabilità e sull'immagine del sistema Italia e quindi sulla sua competitività e appetibilità per i potenziali investitori esteri. E' giocoforza poi che il maggior numero di provvedimenti redatti porti con sé una maggiore difficoltà per l'interprete di individuare il principio di diritto e la ratio della decisione; inoltre, l'elevato numero di pronunce della Cassazione rende difficile la loro conoscibilità, con il conseguente indebolimento della funzione nomofilatfica della Corte: il che incide altresì su un valore cardine del nostro ordinamento, che è quello della certezza del diritto, che costituisce espressione del principio fondamentale di cui all'art. 3 Cost. (cfr. Corte cost. n. 219 del 2013). In effetti, secondo l'insegnamento della Corte costituzionale, anche i diritti fondamentali, compreso quello ad agire in giudizio, sono suscettibili di essere bilanciati con altri diritti e da essi compressi (cfr. sentenza n. 135 del 2018), purché sia salvaguardato il loro nucleo essenziale: ora è evidente che il diritto di difesa non può dirsi compromesso nel suo nocciolo duro in ragione del pagamento del contributo unificato. Vengono in considerazione il principio di ragionevolezza e quello del divieto di abuso del processo, quest'ultimo espressione del più generale principio del divieto dell'abuso del diritto (cfr. Cass., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106; per il processo civile cfr. Cass. 3 giugno 2022, n. 17894), a sua volta coronario del principio di solidarietà, il quale, analogamente alla buona fede, impone di salvaguardare l'utilità altrui nei limiti di un non apprezzabile sacrificio. E' evidente che, avendo tale principio carattere generale, perché derivante dall'art. 2 Cost., non può non predicarsene l'applicabilità anche al campo processuale (come è avvenuto con le sentenze delle sezioni unite da ultimo citate per la responsabilità extracontrattuale). Potrebbe dunque sostenersi che il principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. debba essere inteso come dovere nei confronti dell'ordinamento giuridico, e quindi della collettività, di non proporre causa improcedibili, visto che la collettività non può permettersi di sopportare il costo, economico e sociale, di un numero eccessivo di cause, anche alla luce dei principi costituzionali riguardanti la ragionevole durata del processo, dato che — a parità d risorse per la Giustizia - l'aumentare del numero delle cause rallenta inevitabilmente i tempi della stessa. In quest'ottica, dunque, il principio di solidarietà sposterebbe la prospettiva su un piano più propriamente pubblicistico, mettendo in gioco valori estranei al rapporto prettamente privatistico. D'altra parte, come si è già accennato, nella giurisprudenza della Cassazione è da tempo utilizzata la nozione di abuso del processo: le sezioni unite, con la sentenza 23 ottobre 2007, n. 23726, nell'affermare che non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo ha giustificato tale principio da un lato con il richiamo alla regola di correttezza e buona fede, che specifica all'interno del rapporto obbligatorio la necessità di soddisfare gli "inderogabili doveri di solidarietà", il cui adempimento è richiesto dall'art. 2 Cost., regola che viene violata quando il creditore aggravi ingiustificatamente la posizione del debitore e dall'altro con la garanzia del processo giusto e di durata ragionevole di cui al novellato art. 111 Cost., che esclude, innanzi tutto, che possa ritenersi "giusto" il processo che costituisca esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi, mentre l'effetto inflattivo che deriverebbe dalla moltiplicazione di giudizi si pone in contrasto con la "ragionevole durata del processo", per l'evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della correlativa durata. Successivamente si è anche affermato (Cass., sez. III, 30 aprile 2014, n. 9488), in ipotesi di frazionamento soggettivo delle azioni giudiziarie (ravvisabile ove più soggetti promuovano contemporaneamente distinte cause di identico contenuto nei confronti dello stesso soggetto, con identico patrocinio legale, e quindi connesse per l'oggetto e il titolo) che tale comportamento costituisce un abuso del processo, idoneo a gravare sia lo Stato che le parti dell'aumento degli oneri processuali, avuto riguardo all'allungamento dei tempi processuali derivanti dalla proliferazione non necessaria dei procedimenti e all'eventuale lievitazione dei costi a carico della parte soccombente e alle stesse conclusioni si è pervenuti nel caso in cui (Cass., sez. I, 15 marzo 2013, n. 6664) ottenuto con un primo precetto il pagamento spontaneo della somma intimata, accettata senza riserve, venga effettuata la notifica di un nuovo precetto per il pagamento di una ulteriore somma, calcolata sulla base del medesimo titolo giudiziale posto a fondamento del precedente. La stessa ratio costituita dall'impedire che la Cassazione debba occuparsi di questioni bagatellari o proposte in maniera smaccatamente negligente, distogliendo le sue limitate risorse da altre questioni, è stata colta da Cass. 30 aprile 2018, n. 10327, la quale ha stabilito che, ai fini dell'applicazione della responsabilità aggravata di cui all'art. 96, comma 3, cod. proc. civ., può costituire abuso del diritto di impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia: in tali ipotesi, infatti, si determina uno sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali ed un ingiustificato aumento del contenzioso che ostacolano la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione. E' evidente in questa decisione il peso decisivo che ha avuto la considerazione del diritto fondamentale della collettività ad una giustizia efficiente. In effetti, accanto ai diritti fondamentali dell'individuo, non solo la Cassazione ma anche la Corte costituzionale sempre più si sforzano di prendere in considerazione e tutelare diritti - altrettanto fondamentali come quelli dell'individuo - riferibili alla collettività, fra i quali non possono non citarsi oltre a quello ad una giustizia efficiente, quello alla salute collettiva (si pensi ad esempio alle vaccinazioni obbligatorie: Corte cost. n. 107 del 2012), all'ambiente, al lavoro, alla sicurezza (e quindi alla repressione dei reati: cfr. Corte cost. n. 76 del 2017, secondo cui il bilanciamento dell'interesse del minore a mantenere un rapporto costante con i genitori con le esigenze di difesa sociale sottese alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore). In questa prospettiva, il pagamento del contributo unificato in tutte le ipotesi in cui il ricorso sia dichiarato improcedibile, costituendo evidentemente una remora dal proporre cause in maniera negligente, non può che contribuire ad una ragionevole durata dei processi. Non può però non evidenziarsi che le questioni relative all'improcedibilità cui si accompagni la mancata iscrizione a ruolo da parte del ricorrente sono tendenzialmente di facile soluzione e quindi non costituiscono un significativo aggravio per il sistema Giustizia. Sembra inoltre che la Consulta attribuisca tuttora un valore particolarmente significativo al diritto all'accesso alla Giustizia rispetto al dovere tributario: ha affermato Corte cost. n. 140 del 2022 che il legislatore, nell'ambito della grande riforma fiscale degli anni settanta del secolo scorso, ha previsto all'art. 7, numero 7), della legge delega 9 ottobre 1971, n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria), come principio direttivo, quello di eliminare «ogni impedimento fiscale al diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi». L'ordinamento si è così indirizzato verso un nuovo e più proporzionato bilanciamento tra i valori costituzionali che vengono in rilievo nella previsione di oneri fiscali condizionanti l'accesso alla tutela giurisdizionale. Tra questi viene senz'altro in considerazione il dovere tributario, in quanto rientrante tra quelli inderogabili di solidarietà, di cui l'art. 2 Cost. richiede l'adempimento (sentenza n. 120 del 2021). Tale qualificazione, infatti, da un lato, esprimendo un principio giuridico di integrazione attinente a quei valori di solidarietà che sono strutturali nel disegno costituzionale, ha segnato un chiaro abbandono della risalente nozione di dovere di soggezione (sentenza n. 288 del 2019), dall'altro, ha posto tale dovere, ma solo in quanto relativo a un'imposizione tributaria che possa ritenersi stabilita nel rispetto del principio di legalità, in relazione di coessenzialità con i diritti inviolabili. Ha altresì affermato la citata Corte cost. n. 140 del 2022 che se in linea di principio possono esistere casi in cui il dovere tributario può sì tradursi in oneri concernenti l'esercizio dello stesso diritto alla tutela giurisdizionale, va chiarito che, in concreto, ciò può avvenire solo nel rispetto del principio di proporzionalità e in particolare della stretta necessità, risultando costituzionalmente legittimo, quindi, solo quando l'adempimento di tale dovere non possa essere adeguatamente tutelato in altro modo. Va altresì precisato che il diritto alla tutela giurisdizionale non può, invece, in alcun modo essere sacrificato in nome di esigenze di tutela dell'«interesse fiscale». Questo, infatti, sebbene costituisca un interesse particolarmente tutelato dall'art. 53, primo comma, Cost. (ex plurimis, sentenza n. 201 del 2020), attiene a momenti della dinamica impositiva nei quali è ancora in fase di definizione ciò a cui corrisponde il dovere tributario. Rispetto a tale interesse — che può giustificare svariate esigenze, come quella di evitare «eventuali frodi facilmente ipotizzabili» (sentenza n. 173 del 1975), o quella di garantire una «pronta realizzazione del credito fiscale» (sentenza n. 358 del 1994), oppure di «prevenire fenomeni di evasione o elusione» (sentenza n. 262 del 2020) — non si manifesta, pertanto, quella coessenzialità alla realizzazione dei diritti inviolabili che invece giustifica il dovere tributario. Questi criteri di bilanciamento si sono dunque riflessi nella scelta del legislatore delegante in occasione della citata riforma tributaria, poiché ha ritenuto di informare l'ordinamento intorno al principio per cui gli impedimenti al diritto di agire in giudizio, oltre a non essere consentiti con riguardo all'interesse fiscale, non sono strettamente necessari neanche al fine di tutelare il dovere tributario, traducendosi in forme di controllo fiscale eccessive, essendo del resto possibili altre modalità comunque idonee a tutelarne l'adempimento. Anche la giurisprudenza della Corte costituzionale, dunque, sembrerebbe suggerire una lettura di stretta interpretazione dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. La questione suddetta presenta dunque, per le ragioni sopra esposte, per la grande frequenza delle pronunce che sono interessate dall'evidenziato problema e per le evidenti implicazioni per il bilancio dello Stato, e quindi in ragione di quanto stabilito dall'art. 81 Cost., i caratteri di "questione di massima di particolare importanza" a norma dell'art. 374 cod. proc. civ., comma 2, cosicché la presente causa va rimessa alle determinazioni del Primo Presidente ai fini della sua eventuale assegnazione alle sezioni unite civili.

P.Q.M.

rimette gli atti al Primo Presidente della Corte di Cassazione per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite Civili, in ragione e per la soluzione della questione, di cui in motivazione, di massima di particolare importanza ai sensi dell'art. 374 cod. proc. civ., comma 2.