Non fondate le questioni di legittimità costituzionale della Legge Pinto laddove l’interpretazione giurisprudenziale consolidata ha escluso la configurabilità del diritto all’equo indennizzo da detta legge previsto ove l’eccessiva durata, di cui la parte si dolga, attenga a procedure di liquidazione coatta amministrativa.
La liquidazione coatta amministrativa – osserva la Consulta – è, al pari del fallimento, un “contenitore” di procedure, nel contesto del quale la connotazione giurisdizionale sopravviene – per effetto di eventuali opposizioni, impugnazioni o insinuazioni tardive – solo dopo il deposito dello stato passivo, che conclude l’iniziale e centrale fase di verifica dei crediti da parte del commissario liquidatore, avente natura, invece, di procedimento amministrativo.
La peculiarità della liquidazione coatta amministrativa, rispetto al fallimento rinviene la sua giustificazione nelle finalità pubblicistiche di tale procedura (sentenze n. 363 del 1994, n. 159 del 1975 e n. 87 del 1969), che infatti riguarda imprese che, pur operando nell’ambito del diritto privato, involgono tuttavia molteplici interessi o perché attengono a particolari settori dell’economia nazionale, in relazione ai quali lo Stato assume il compito della difesa del pubblico affidamento, o perché si trovano in rapporto di complementarietà, dal punto di vista teleologico e organizzativo, con la pubblica amministrazione. Segnatamente l’avvio della procedura di liquidazione coatta amministrativa dipende dalla natura del soggetto debitore (banche, assicurazioni, società cooperative, enti sottoposti a vigilanza e simili).
La ragione della sottrazione di siffatte imprese alla funzione propriamente giurisdizionale sta dunque nel fatto che la liquidazione coatta amministrativa coinvolge interessi pubblici preminenti (rispetto a quelli prettamente esecutivi) legati a finalità di politica economica, industriale o sociale.
E ciò, appunto, comporta che tra le due comparate procedure non sussista quella “identità” delle rispettive posizioni creditorie, che il giudice a quo presuppone e adduce a motivo della censurata disparità di trattamento delle stesse in tema di equo indennizzo ex lege n. 89 del 2001.
La tutela dei creditori di imprese sottoposte a procedura di liquidazione coatta amministrativa assume, infatti, una connotazione doppiamente differenziata, rispetto a quella di altri creditori in sede concorsuale, in quanto gli interessi pubblici che giustificano la procedura amministrativa, per un verso, in qualche misura attenuano il rilievo del singolo diritto di credito e, per altro verso, rafforzano, però, la prospettiva finale di soddisfazione del credito, come effetto riflesso del concorrente obiettivo, di mantenimento in attività del complesso produttivo dell’azienda debitrice, perseguibile dalla procedura amministrativa.
Del resto, l’inapplicabilità della disciplina dell’equo indennizzo alla liquidazione coatta amministrativa non lascia privi di tutela il creditore. Vi sono pur sempre – osserva la Corte – le norme a presidio del procedimento amministrativo. L’art. 2-bis, comma 1, della L. n. 241/1990, ad esempio, prevede il risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza del termine di conclusione del procedimento.
1. Il diritto all’indennizzo di cui alla Legge sulla irragionevole durata del processo non è configurabile in relazione alla liquidazione coatta amministrativa che è procedimento a carattere amministrativo, in cui si innestano solo eventuali fasi di carattere giurisdizionale, quali la dichiarazione dello stato di insolvenza, le relative eventuali impugnazioni e le opposizioni allo stato passivo.
2. La disciplina dell’equo indennizzo non è applicabile alla liquidazione coatta amministrativa. La peculiarità della liquidazione coatta amministrativa, rispetto al fallimento rinviene la sua giustificazione nelle finalità pubblicistiche di tale procedura, che infatti riguarda imprese che, pur operando nell’ambito del diritto privato, involgono tuttavia molteplici interessi o perché attengono a particolari settori dell’economia nazionale, in relazione ai quali lo Stato assume il compito della difesa del pubblico affidamento, o perché si trovano in rapporto di complementarietà, dal punto di vista teleologico e organizzativo, con la pubblica amministrazione. La ragione della sottrazione di siffatte imprese alla funzione propriamente giurisdizionale sta dunque nel fatto che la liquidazione coatta amministrativa coinvolge interessi pubblici preminenti, legati a finalità di politica economica, sociale, industriale.
Ritenuto in fatto
1.– Nel corso di un giudizio proposto per ottenere un equo indennizzo per l’eccessiva durata di una precedente procedura di liquidazione coatta amministrativa, l’adita Corte d’appello di Bologna, in composizione monocratica – premessane la rilevanza e ritenutane la non manifesta infondatezza «in relazione agli articoli 3, 24 e 117 Cost.» – ha sollevato, con l’ordinanza in epigrafe, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1-bis, commi 1 e 2, e 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile).
Ad avviso della rimettente, le norme denunciate – in quanto, secondo l’interpretazione consolidatasi in termini di diritto vivente, riconoscono il diritto ad equo indennizzo per eccessiva durata (oltre i sei anni) di “procedure concorsuali” con riferimento alle sole procedure fallimentari e non anche a quelle di liquidazione coatta amministrativa (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 10 giugno 2011, n. 12729; 30 dicembre 2009, n. 28105; 3 agosto 2007, n. 17048) – violerebbero, appunto, i parametri evocati.
Quanto agli artt. 3 e 24 Cost., «posto che a fronte di una identica situazione soggettiva di vantaggio (l’essere creditore di un fallimento o di una lca), la legge n. 89 del 2001 attribuisce solo al primo (e non al secondo) la possibilità di ottenere tutela (a causa del ritardo nella chiusura della procedura concorsuale) nelle forme previste dalla legge stessa».
Quanto all’art. 117, primo comma, Cost. – in relazione al richiamato (ancorché solo in motivazione) art. 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – in ragione del sopravvenuto contrasto del riferito diritto vivente con la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, 11 gennaio 2018, Cipolletta contro Italia, che ha equiparato le procedure di liquidazione coatta amministrativa alle procedure fallimentari, ai fini del riconoscimento del pari diritto (del creditore) ad un equo indennizzo per l’eccessiva correlativa durata.
2. – Nel giudizio innanzi a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità delle questioni – per omesso previo esperimento del tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme della normativa denunciata – e, in subordine, per la loro infondatezza, in ragione della erroneità della premessa interpretativa.
Considerato in diritto
1.– L’art. 1-bis della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), al suo comma 1, dispone che «[l]a parte di un processo ha diritto a esperire rimedi preventivi alla violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione stessa». E, nel successivo comma 2, stabilisce che «[c]hi, pur avendo esperito i rimedi preventivi di cui all’articolo 1-ter, ha subìto un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell’irragionevole durata del processo ha diritto ad una equa riparazione».
A sua volta, l’art. 2 della stessa legge, sub comma 1, sanziona, con l’inammissibilità della domanda, il mancato esperimento dei rimedi preventivi volti ad evitare l’irragionevole durata del «processo».
L’art. 2, comma 2-bis, tra l’altro, poi precisa (al terzo periodo) che «[s]i considera rispettato il termine ragionevole […] se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni».
2.– In sede di interpretazione delle suddette disposizioni, la Corte di legittimità ha enucleato il principio per cui il diritto all’equa riparazione ex lege n. 89 del 2001 è configurabile solo con riguardo all’eccessiva durata di un «processo» (comportante l’esercizio di un’attività giurisdizionale) e non anche, quindi, con riferimento all’irragionevole protrarsi di un procedimento di carattere meramente amministrativo (ex plurimis, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 25 febbraio 2014, n. 4429; sezione prima civile, sentenze 28 maggio 2010, n. 13088; 16 novembre 2007, n. 23754; 15 gennaio 2004, n. 483).
In linea con tale principio, la stessa Corte ha, quindi, in particolare, affermato che il diritto all’indennizzo di che trattasi non è configurabile in relazione alla liquidazione coatta amministrativa che è procedimento a carattere amministrativo, in cui si innestano solo eventuali fasi di carattere giurisdizionale, quali la dichiarazione dello stato di insolvenza, le relative eventuali impugnazioni e le opposizioni allo stato passivo (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 10 giugno 2011, n. 12729; 30 dicembre 2009, n. 28105; 3 agosto 2007, n. 17048).
3.– Chiamata a decidere su una domanda di equo indennizzo traente causa dalla eccessiva durata di una procedura di liquidazione coatta amministrativa, la Corte d’appello di Bologna, in composizione monocratica, con l’ordinanza di cui si è in narrativa detto, ha sollevato, «in relazione agli articoli 3, 24 e 117, primo comma, Cost.», questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1-bis, commi 1 e 2, e 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, nella parte, appunto, in cui, alla stregua della riferita esegesi, consolidatasi in termini di diritto vivente, esclude la configurabilità del diritto all’equo indennizzo da detta legge previsto ove l’eccessiva durata, di cui la parte si dolga, attenga a procedure di liquidazione coatta amministrativa.
Secondo la rimettente, la normativa denunciata, così interpretata, si porrebbe, per un verso, in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., per la ragione che, «a fronte di una identica situazione soggettiva di vantaggio (l’essere creditore di un fallimento o di una lca), la legge n. 89 del 2001 attribuisce solo al primo (e non al secondo) la possibilità di ottenere tutela (a causa del ritardo nella chiusura della procedura concorsuale) nelle forme previste dalla legge stessa».
E, per altro verso, violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost. – in relazione all’art. 13 (non richiamato in dispositivo ma evocato in motivazione) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – in ragione del sopravvenuto contrasto del riferito diritto vivente con la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 11 gennaio 2018, Cipolletta contro Italia, che avrebbe equiparato le procedure di liquidazione coatta amministrativa alle procedure fallimentari, ai fini del riconoscimento dal pari diritto (del creditore) ad un equo indennizzo per l’eccessiva correlativa durata.
4.– Viene preliminarmente in esame l’eccezione di inammissibilità della questione formulata dall’Avvocatura dello Stato sul rilievo che la rimettente avrebbe omesso il tentativo di «dare alla norma di cui si tratta una lettura costituzionalmente orientata, sì da sottrarla al prospettato dubbio di costituzionalità».
L’eccezione non è suscettibile di accoglimento.
La Corte bolognese ha pur preso in considerazione la possibilità di leggere l’espressione «procedura concorsuale» (sub art. 2, comma 2-bis, terzo periodo, della legge n. 89 de 2001) nel senso che «comprenda in se anche la lca».
Ma ha poi ritenuto che una tale “lettura alternativa” trovi appunto ostacolo non superabile nel “diritto vivente”, diversamente orientatosi. E, secondo quanto più volte affermato da questa Corte, in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice a quo – se pure è libero di non uniformarvisi e di proporre una diversa esegesi del dato normativo, essendo la “vivenza” di una norma una vicenda per definizione aperta, ancor più quando si tratti di adeguarne il significato a precetti costituzionali – ha alternativamente, comunque, la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di “diritto vivente” e di richiederne, su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (sentenze n. 75 del 2019, n. 39 del 2018, n. 259 e n. 122 del 2017, n. 200 del 2016 e n. 11 del 2015).
5.– Nel merito, la questione è, sotto ogni suo prospettato profilo, non fondata.
5.1.– La liquidazione coatta amministrativa è, come noto, al pari del fallimento, un “contenitore” di procedure, nel contesto del quale la connotazione giurisdizionale sopravviene – per effetto di eventuali opposizioni, impugnazioni o insinuazioni tardive – solo dopo il deposito dello stato passivo, che conclude l’iniziale e centrale fase di verifica dei crediti da parte del commissario liquidatore, avente natura, invece, di procedimento amministrativo.
La peculiarità della liquidazione coatta amministrativa, rispetto al fallimento – come da questa Corte già da tempo sottolineato – rinviene la sua giustificazione nelle finalità pubblicistiche di tale procedura (sentenze n. 363 del 1994, n. 159 del 1975 e n. 87 del 1969), che infatti riguarda imprese che, pur operando nell’ambito del diritto privato, involgono tuttavia molteplici interessi o perché attengono a particolari settori dell’economia nazionale, in relazione ai quali lo Stato assume il compito della difesa del pubblico affidamento, o perché si trovano in rapporto di complementarietà, dal punto di vista teleologico e organizzativo, con la pubblica amministrazione. Segnatamente l’avvio della procedura di liquidazione coatta amministrativa dipende dalla natura del soggetto debitore (banche, assicurazioni, società cooperative, enti sottoposti a vigilanza e simili).
La ragione della sottrazione di siffatte imprese alla funzione propriamente giurisdizionale sta dunque nel fatto che la liquidazione coatta amministrativa coinvolge interessi pubblici preminenti (rispetto a quelli prettamente esecutivi) legati a finalità di politica economica, industriale o sociale.
E ciò, appunto, comporta che tra le due comparate procedure non sussista quella “identità” delle rispettive posizioni creditorie, che il giudice a quo presuppone e adduce a motivo della censurata disparità di trattamento delle stesse in tema di equo indennizzo ex lege n. 89 del 2001.
La tutela dei creditori di imprese sottoposte a procedura di liquidazione coatta amministrativa assume, infatti, una connotazione doppiamente differenziata, rispetto a quella di altri creditori in sede concorsuale, in quanto gli interessi pubblici che giustificano la procedura amministrativa, per un verso, in qualche misura attenuano il rilievo del singolo diritto di credito e, per altro verso, rafforzano, però, la prospettiva finale di soddisfazione del credito, come effetto riflesso del concorrente obiettivo, di mantenimento in attività del complesso produttivo dell’azienda debitrice, perseguibile dalla procedura amministrativa.
5.2.– Va poi ancora considerato che l’inapplicabilità della disciplina dell’equo indennizzo alla liquidazione coatta (in quanto) amministrativa, quale risultante dalla normativa censurata, non comporta che, in caso di non giustificabile eccessiva durata di siffatta procedura, il creditore resti privo di alcun rimedio riparatorio.
Fuori dal perimetro del “processo” – sul quale direttamente incide il precetto dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU e al quale propriamente ed esclusivamente si rivolge la disciplina dell’equo indennizzo ex lege n. 89 del 2001 – l’area del procedimento amministrativo non è, comunque, sottratta a principi e norme che sanzionino l’autorità amministrativa e le sue strutture ove ingiustificatamente ritardino il perseguimento degli interessi alla cui cura sono preposti.
La legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) prevede, infatti, sub art. 2-bis, comma 1, che le pubbliche amministrazioni siano tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza del termine di conclusione del procedimento.
E, ancorché per il procedimento di liquidazione coatta amministrativa non sussista un termine predefinito per la sua conclusione, ciò non esclude che – in relazione alla peculiarità e complessità delle singole vicende liquidatorie – detto termine possa essere, nel caso concreto, desunto alla luce dei principi generali che governano l’azione amministrativa: principi – regola di proporzionalità, divieto di aggravio, dovere di conclusione del procedimento e tutela dell’affidamento in ciò riposto dai soggetti che vi sono coinvolti – da leggersi anche in coerenza ai criteri fissati dalla giurisprudenza della Corte EDU.
5.3.– Non sussiste, dunque, la prospettata violazione degli artt. 3 e 24 Cost.
6.– Le considerazioni che precedono valgono ad escludere anche la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per il profilo, prospettato dal rimettente, di sospettato contrasto della normativa in esame, con la citata sentenza della Corte EDU 11 gennaio 2018.
Detta sentenza – che, come osservato dal giudice da essa dissenziente, si discosta dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU relativa alla procedura amministrativa non contenziosa – nel riconoscere al ricorrente il diritto ad un compenso (di euro 24.000,00) a titolo risarcitorio del “danno morale” subìto, per un verso, fonda la sua motivazione sulla premessa di principio, per cui la diversa natura attribuita a livello interno alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, rispetto alla procedura fallimentare, non giustifica che solo a quest’ultima, e non anche alla prima procedura, sia applicabile il rimedio riparatorio interno in linea con l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione. E, per altro verso, fa leva sulla constatazione che il procedimento dal quale il ricorrente attendeva la risposta alla propria pretesa creditoria durava già da “complessivamente quasi venticinque anni” e il Governo non aveva esposto «alcun fatto o argomento convincente che possa giustificare un tale ritardo».
Si tratta, dunque, di una sentenza che, da un lato, nella sua premessa, non tiene compiutamente conto dei rimedi riparatori apprestati dall’ordinamento italiano riferibili anche al procedimento per cui è causa; e, dall’altro lato, nel suo decisum, risponde ad una finalità di tutela dell’interesse del ricorrente, che si ravvisa leso in correlazione alla peculiarità del caso concreto: tutela, questa, “parcellizzata”, che è per sua natura complementare alla tutela “sistemica” apprestata in sede nazionale (sentenze n. 67 del 2017, n. 264 del 2012).
Da qui, dunque, la non fondatezza della questione sollevata dai rimettenti anche in relazione ai parametri da ultimo considerati.
Per questi motivi
la Corte Costituzionale
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1-bis commi 1 e 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di Appello di Bologna, in composizione monocratica, con l'ordinanza indicata in epigrafe.