Giu La condotta del notaio che si appropria di somme ricevute dai clienti per il pagamento dell'imposta di registro
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - 05 settembre 2024 N. 33856
Massima
La condotta del notaio che si appropria di somme ricevute dai clienti per il pagamento dell'imposta di registro, omettendone il versamento, integra il reato di peculato. L'interversio possessionis non si realizza semplicemente con il mancato adempimento nel termine stabilito dalla legge, ma emerge dalle caratteristiche del fatto che evidenziano la volontà di trattare tali somme come proprie, indipendentemente dal pagamento successivo dell'imposta.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - 05 settembre 2024 N. 33856

1. Il ricorso è infondato.

2. Con il primo motivo i difensori deducono congiuntamente la violazione dell'art. 314 cod. pen., quanto al difetto della qualifica pubblicistica del notaio all'atto del pagamento dell'imposta di registro, l'insussistenza della condotta appropriativa delle somme di danaro, prima della notifica dell'avviso di liquidazione da parte dell'amministrazione finanziaria, l'insussistenza del dolo del delitto di peculato e il vizio di motivazione su tali punti.

3. La censura relativa all'insussistenza della qualifica di pubblico ufficiale del notaio in relazione alla sua funzione di responsabile di imposta è infondata.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, la qualifica di pubblico ufficiale spetta al notaio non solo nell'esercizio del suo potere certificativo in senso stretto, ma in tutta la sua complessa attività, disciplinata da norme di diritto pubblico (legge notarile) e diretta alla formazione di atti pubblici (negozi giuridici notarili), ivi compresa l'attività di adempimento dell'obbligazione tributaria, nella specie il mancato versamento da parte del notaio di somme affidate da clienti, destinate al pagamento dell'imposta di registro in relazione agli atti rogati (explurimis: Sez. 5, n. 47178 del 16/10/2009, Materazzo; conf. Sez. 6, n. 6087 del 6/12/1994, Siciliani, Rv. 199183-01; Sez. 6, n. 28302 del 14/01/2003, Mottola, Rv. 225890-01, con riferimento all'appropriazione da parte del notaio delle somme al medesimo consegnate dai clienti per il pagamento dell'I.N.V.I.M.).

Integra, dunque, il reato di peculato la condotta del notaio che si appropria di somme ricevute dai clienti a titolo di sostituto d'imposta in relazione ad atti di compravendita immobiliare rogati, in quanto tale comportamento costituisce un inadempimento non a un proprio debito pecuniario, ma all'obbligo di consegnare il denaro al legittimo proprietario entro il termine stabilito, con la conseguenza che il predetto, sottraendo la res alla disponibilità dell'ente pubblico per un lasso temporale ragionevolmente apprezzabile, realizza un'inversione del titolo del possesso uti dominus (Sez. 6, n. 55753 del 13/11/2018, Puzone, Rv. 274728-01; Sez. 6, n. 20132 del 11/03/2015, Varchetta, Rv. 263547 - 01, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che correttamente la sentenza impugnata avesse affermato la responsabilità di un notaio il quale, indicando una base imponibile inferiore a quella prevista all'atto dei rogiti, aveva calcolato un'imposta da pagare più bassa di quella già versata dai clienti e incamerato la differenza conseguentemente non corrisposta all'erario).

L'adempimento dell'imposta di registro da parte del notaio, del resto, non interviene quando la funzione pubblica certificativa è cessata, ma ne costituisce necessario completamento, in quanto è strettamente connesso all'attribuzione della fede pubblica all'atto rogato e mira al soddisfacimento di un interesse pubblico.

L'art. 18 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro), espressamente sancisce che "(L)a registrazione ... attesta l'esistenza degli atti ed attribuisce ad essi data certa di fronte ai terzi a norma dell'art. 2704 del codice civile".

Questa connessione è ulteriormente resa esplicita dall'art. 28 della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Sull'ordinamento del notariato e degli archivi notarili), che consente al notaio di rifiutare la redazione dell'atto, qualora le parti non gli rendano immediatamente disponibili le somme necessarie per adempiere le tasse.

Il notaio è, inoltre, responsabile del pagamento dell'imposta di registro, solidalmente con le parti, in relazione agli "atti enunciati" nell'atto rogato, secondo quanto sancito dall'art. 57 d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro).

Il fatto che il notaio sia responsabile d'imposta ed assuma come tale la veste di coobbligato solidale (dipendente), che la legge affianca al soggetto passivo d'imposta al fine di agevolare la riscossione dei tributi, tuttavia, non vale certo ad escludere la qualifica pubblicistica che gli compete.

E' vero, come rileva il ricorrente, che la giurisprudenza di legittimità ha escluso la configurabilità del delitto di peculato con riferimento alle condotte di ritardato o di parziale versamento dell'imposta di soggiorno, in quanto l'art. 180 del D.L. 19 maggio 2020, n. 34, convertito dalla legge 20 luglio 2020, n. 77 ha attribuito la qualifica di responsabile d'imposta a tale operatore turistico, a fronte della previgente disciplina che lo investiva, quale agente contabile, del servizio pubblico di riscossione del detto tributo (ex plurimis: Sez. 5, n. 12516 del 10/03/2022, Moiraghi, Rv. 283463-01; Sez. 6, n. 9213 del 15/02/2022, Khvostova, Rv. 282997-01).

Il notaio, tuttavia, a differenza dell'albergatore, non solo è responsabile di imposta, ma è investito di specifiche funzione pubbliche certificative, strettamente connesse alla registrazione dell'atto rogato.

4. Con la seconda censura proposta nel primo motivo di ricorso i difensori hanno dedotto il vizio di violazione dell'art. 314 cod. pen. e il difetto di motivazione in ordine all'elemento oggettivo della condotta, in quanto l'interversio possessionis necessaria ad integrare il peculato non potrebbe ritenersi integrata sino a quando non sia decorso il termine ultimo, di quindici giorni dall'avviso di liquidazione dell'imposta, per adempiere l'obbligazione tributaria.

5. Anche questi motivi sono infondati.

5.1. Per delibare queste censure è necessario rilevare che il notaio è obbligato ad effettuare, nel termine di trenta giorni dalla stipula di un atto pubblico, la registrazione dell'atto e il pagamento delle rispettive imposte (di registro, catastali e ipotecarie), provvedendo, mediante addebito su un conto professionale dedicato, a versare all'Agenzia delle entrate le somme ricevute a tale titolo dalle parti contraenti.

Per effetto della modifica del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 463, da parte del D.Lgs. 18 gennaio 2000, n. 9, gli adempimenti in materia di registrazione degli atti relativi a diritti sugli immobili sono eseguiti mediante una procedura telematica.

Questa disciplina assegna ai soggetti, obbligati a richiedere la registrazione, di cui all'art. 10, lett. b), del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 - soggetti fra i quali sono compresi i notai per gli atti redatti - una particolare posizione nella fase di autoliquidazione delle imposte, connessa all'impiego del modello unico informatico recante la richiesta di registrazione; la trasmissione del quale, unitamente a tutta la documentazione necessaria, va eseguita previo pagamento dei tributi dovuti in base ad autoliquidazione.

L'art. 3-ter del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 463, prevede, inoltre, una particolare procedura di controllo automatizzato dell'autoliquidazione, attribuendo all'amministrazione finanziaria la potestà di notificare al notaio un avviso di liquidazione integrativo, dal quale scaturisce la possibilità, per il notaio medesimo, sia di pagare entro i quindici giorni successivi senza interessi moratori né sanzioni, sia di eventualmente compensare il proprio debito di rettifica con il credito risultante per le somme da lui versate in eccesso su altre registrazioni telematiche autoliquidate.

Muovendo dalla ricognizione di questa disciplina è possibile esaminare gli argomenti del ricorrente.

5.2. Secondo l'orientamento tradizionale della giurisprudenza di legittimità, il pubblico ufficiale che ha ricevuto denaro per conto della pubblica amministrazione realizza l'appropriazione sanzionata dal delitto di peculato nel momento stesso in cui ne ometta o ritardi il versamento, cominciando in tal modo a comportarsi uti dominus nei confronti del bene del quale ha il possesso per ragioni d'ufficio (ex plurimis: Sez. 6, n. 43279 del 15/10/2009, Rv. 244992, Pintimalli).

Tale comportamento costituisce, infatti, un inadempimento non ad un proprio debito pecuniario, ma all'obbligo di consegnare il denaro al suo legittimo proprietario, con la conseguenza che, sottraendo la res alla disponibilità dell'ente pubblico per un lasso temporale ragionevolmente apprezzabile, egli realizza una inversione del titolo del possesso uti dominus (Sez. 6, n. 53125 del 25/11/2014, Rv. 261680, Renni).

La giurisprudenza di legittimità ha, tuttavia, recentemente mutato orientamento, rilevando che il reato non si perfeziona allo spirare del termine per adempiere del pubblico ufficiale, ma allorquando emerga senza dubbio, dalle caratteristiche del fatto, che si è realizzata l'interversione del titolo del possesso, ovvero che il concessionario ha agito uti dominus.

Il mancato adempimento della somma dovuta nel termine fissato dalla legge dimostra, infatti, l'inadempimento dell'imputato, secondo la logica del dies interpeiiat prò homine sancita dall'art. 1219, secondo comma n. 3, cod. civ., ma non ancora la sua responsabilità penale.

In tema di peculato, l'appropriazione del denaro, riscosso dal notaio a titolo di imposte e non riversato all'erario, si realizza, dunque, non già per effetto del mero ritardo nell'adempimento, bensì allorquando si determina la certa interversione del titolo del possesso, che si realizza allorquando il pubblico agente compia un atto di dominio sulla cosa, con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, condotta che non necessariamente può essere ritenuta insita nella mancata osservanza del termine di adempimento (Sez. 6 n. 16786 del 02/02/2021, Conte, Rv. 281335).

Il principio è stato, peraltro, ribadito dalla giurisprudenza di legittimità anche con riferimento al caso analogo del ritardato versamento, da parte del concessionario del servizio di ricevitoria del lotto, delle giocate riscosse per conto dell'Azienda Autonoma Monopoli di Stato (ex plurimis: Sez. 6, n. 33468 del 14/06/2023, Viola, Rv. 285092-01; Sez. 6, n. 38339 del 29/09/2022, De Marco, Rv. 283940-01; Sez. 6, n. 31167 del 13/04/2023, Mancini, Rv. 285082-01)

5.3. La Corte di appello di Palermo, richiamando puntualmente l'orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità, ha non incongruamente ritenuto integrata l'interversio possessionis delle somme affidate all'imputato dai clienti non già per effetto della mera scadenza del termine di legge di trenta giorni dal rogito per corrispondere l'imposta di registro, ma in ragione della consapevole appropriazione delle stesse da parte del ricorrente.

La Corte di appello ha, infatti, rilevato che il conto corrente del notaio dedicato a tale incombente per legge, è risultato sistematicamente incapiente, come riferito dal direttore e dai dipendenti della banca, che hanno costantemente avvisato il notaio che gli addebiti disposti sul conto dedicato non andavano a buon fine (pag. 21 della sentenza impugnata).

L'utilizzo da parte dell'imputato delle somme versate sul conto dedicato per finalità diverse da quelle per le quali erano state ricevute, nella valutazione non illogica della Corte di appello, dunque, integra il delitto di peculato, indipendentemente dalle successive vicende relative al pagamento dell'imposta di registro.

6. Con la terza censura proposta nel primo motivo di ricorso, i difensori deducono il vizio di motivazione, in quanto la Corte di appello non avrebbe motivato in ordine all'influenza della nota del Ministero delle Finanze - Agenzia delle entrate - Direzione gestione centrale dei tributi - del 21 febbraio 2003, Prot. 25802/2003 ai fini della configurabilità del dolo dell'imputato.

7. Il motivo è inammissibile per aspecificità, in quanto non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata.

La Corte di appello si è, peraltro, confrontata specificamente con la censura proposta dai difensori nell'atto di appello e ha congruamente escluso la buona fede dell'imputato, in quanto la condotta illecita si è protratta per anni, pur a fronte delle numerose segnalazioni ricevute dal personale della banca, che ha reiteratamente avvisato il notaio dell'incapienza del conto dedicato al pagamento dell'imposta di registro.

8. Con il secondo motivo i difensori deducono che la Corte di appello avrebbe confermato la sentenza di primo grado anche in relazione a casi nei quali gli atti notarili non sarebbero stati soggetti a tassazione.

9. Il motivo è infondato, in quanto la Corte di appello, nella sentenza impugnata, ha confermato la condanna del ricorrente per le sole somme effettivamente oggetto di appropriazione e non già per gli atti, erroneamente indicati nell'imputazione, per i quali l'imposta di registro non era dovuta.

10. Con il terzo motivo i difensori deducono il vizio di motivazione in ordine all'affermazione di sussistenza dell'elemento oggettivo del reato in relazione ai mancati versamenti dell'imposta di registro per gli episodi del 2013, in quanto per gli atti stipulati in tale anno il A.A. prima ancora di ricevere l'avviso di liquidazione da parte dell'Agenzia delle Entrate, avrebbe provveduto ad effettuare i versamenti dell'imposta di registro dovuta.

Illogica sarebbe, peraltro, sul punto l'interpretazione di alcune conversazioni intercettate operata dalla Corte di appello.

11. Il motivo è inammissibile, in quanto il ricorrente non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, bensì con le prove esaminate dal Tribunale, sollecitandone una diversa lettura.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, esula, tuttavia, dai poteri della Corte di cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Sez. U, n. 6402 del 2/07/1997, Dessimone, Rv. 207944).

L'interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, del resto, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715).

La Corte di appello ha, peraltro, non illogicamente rilevato che dalle intercettazioni è emerso che l'imputato, anche nel 2013, stava attraversando una forte crisi di liquidità, per motivi non inerenti alla propria attività professionale, e che le somme ricevute dai clienti sono state consapevolmente utilizzate dal medesimo non già per registrare gli atti per le quali erano state specificamente riscosse, ma per ripianare debiti pregressi e per registrare agli atti rogati in precedenza e per i quali non vi era stato ancora l'adempimento del tributo.

12. Con il primo motivo nuovo i difensori hanno dedotto l'illogicità e la contraddittorietà della motivazione, in quanto la Corte di appello avrebbe ritenuto irrilevante ai fini della sussistenza del delitto di peculato che l'omessa notifica degli avvisi di liquidazione fosse dovuta non già ad un accordo criminoso del notaio con i funzionari dell'Agenzia delle Entrate, come originariamente ipotizzato dalla pubblica accusa ed escluso dalla Corte di appello, ma alla mera inerzia dell'amministrazione.

13. Il motivo è infondato.

La Corte di appello ha, infatti, ritenuto dimostrata la commissione del delitto di peculato non già in ragione della scadenza del termine per pagare l'imposta di registro, ma per effetto dell'utilizzo da parte dell'imputato per fini personali delle somme affidategli dai clienti per adempiere il tributo.

14. Con il quarto motivo e il secondo motivo aggiunto i difensori hanno dedotto la violazione del principio del ne bis in idem, nella sua dimensione euro unitaria, in quanto l'imputato è stato già sanzionato in sede amministrativa in relazione ai fatti per cui si procede e la Corte di appello di Palermo ha tenuto conto di tale circostanza solo al fine di ridurre la pena irrogata in concreto.

15. I motivi sono infondati.

15.1. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 200 del 2016, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale.

In tale pronuncia, relativa a un caso di concorso formale tra i reati di disastro doloso (art. 434, secondo comma, cod. pen.) e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro (art. 437, secondo comma, cod. pen.), la Corte costituzionale ha affermato che, per stabilire se opera il divieto del secondo giudizio, il giudice deve porre a confronto il fatto, così come emerge nei processi, nelle sue componenti storiche (comprensivo di condotta, nesso eziologico ed evento), indipendentemente dalle qualificazioni legali.

La Corte costituzionale ha, dunque, affermato che, in ottemperanza all'art. 117, primo comma, Cost., l'art. 649 cod. proc. pen., che enuncia il divieto del ne bis in idem, deve essere interpretato in senso conforme a quello attribuito dalla giurisprudenza della Corte Edu in relazione all'analogo principio enunciato dall'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU.

Secondo la giurisprudenza della Corte Edu, infatti, l'idem factum deve essere colto in una dimensione squisitamente naturalistica ("facts which constitute a set of concrete factual circumstances invoiving the same defendant and inextricabiy linked together in time and space"), nella quale è indifferente la diversa qualificazione giuridica (expiurimis: Corte Edu, Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine c. Russia, Par. 84).

La Corte costituzionale ha, dunque, precisato, che, nell'accertare l'identità del fatto, il giudice deve verificare la medesimezza o meno del fatto storico-naturalistico "affrancato dal giogo dell'inquadramento giuridico" (Corte cost., sentenza n. 200 del 2016, Par. 4 del Considerato in diritto), in quanto "le sempre opinabili considerazioni sugli interessi tutelati dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell'evento, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant'altro concerne i diversi reati, oggetto dei successivi giudizi, non si confanno alla garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem e sono estranee al nostro ordinamento (Corte cost., sentenza n. 200 del 2016, Par. 7 del Considerato in diritto).

L'identità del "fatto", pertanto, sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona" (sentenza n. 129 del 2008)" (Corte cost., sentenza n. 200 del 2016, Par.8 del Considerato in diritto).

15.2. Pur condividendo il superamento dell'approccio fondato sulla qualificazione giuridica, il motivo relativo alla violazione del ne bis in idem, con riferimento alla duplicazione conseguente alla irrogazione della sanzione penale e della sanzione tributaria irrogata dall'amministrazione fiscale, è infondato.

L'appropriazione delle somme versate dai clienti per adempiere l'imposta di registro e l'omesso versamento dell'imposta non integrano un idem factum, in quanto costituiscono condotte distinte e diversamente collocate nel tempo.

Proprio la motivazione della sentenza impugnata ha congruamente rilevato come la condotta appropriativa, realizzata con l'utilizzo delle somme dei clienti versate sul conto dedicato, sia stata anteriore rispetto al mancato adempimento dell'imposta di registro e come il delitto debba ritenersi integrato anche nei casi in cui sia intervenuto successivamente il pagamento dell'onere tributario.

15.3. La censura di violazione del ne bis in idem è, peraltro, infondata anche con riferimento al cumulo della condanna penale e della sospensione dal servizio per la durata di tre mesi disposta dalla Commissione amministrativa regionale di disciplina.

Nel procedimento disciplinare è, infatti, stato contestato al notaio pur sempre l'omesso versamento dell'imposta di registro e non l'appropriazione delle somme ricevute dalle parti private.

Anche in tal caso, dunque, manca la medesimezza della condotta necessaria per verificare la sussistenza della violazione del ne bis in idem.

16. Con il quinto motivo i difensori censurano la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena, al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, delle circostanze attenuanti di cui all'art. 323-bis cod. pen. e quella di cui all'art. 62 n. 4 cod. pen.

17. Il motivo è infondato.

La decisione sulla concessione o sul diniego delle attenuanti generiche è, infatti, rimessa alla discrezionalità del giudice di merito, che nell'esercizio del relativo potere agisce con insindacabile apprezzamento, sottratto al controllo di legittimità, a meno che non sia viziato da errori logico-giuridici.

Per principio di diritto assolutamente consolidato ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall'imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l'uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l'indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo (ex plurimis, Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane ed altri, Rv. 248244).

Tale obbligo, peraltro, nel caso di specie è stato pienamente assolto, in quanto la Corte di appello ha non illogicamente escluso le attenuanti generiche, in quanto le condotte appropriative sono state reiterate dall'imputato per lungo tempo e "per importi assolutamente considerevoli ... l'unico elemento positivo valutabile in favore del predetto, ossia l'avvenuto pagamento di quanto dovuto, è già stato valutato ai fini del riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 61 n. 6 cod. pen.".

Inammissibili, in quanto aspecifiche e apodittiche, sono, inoltre, le censure proposte dal ricorrente relativamente alla determinazione della pena base e degli aumenti sanzionatori in applicazione della disciplina della continuazione, e alla mancata applicazione delle circostanze attenuanti di cui all'art. 323-bis cod. pen. e quella di cui all'art. 62 n. 4 cod. pen.

La Corte di appello ha, peraltro, congruamente escluso tali circostanze attenuanti, in quanto non potevano considerarsi di speciale tenuità, né le condotte, né il danno cagionato alle persone offese, e ha determinato la pena, in conformità all'art. 133 cod. pen. e in misura non manifestamente illogica, in ragione della gravità dei fatti accertati.

18. Il rigetto del ricorso proposto dal ricorrente comporta la prescrizione dei reati di peculato commessi all'agosto del 2010.

Solo l'inammissibilità del ricorso per cassazione, infatti, preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio, ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., l'estinzione del reato per prescrizione (ex plurimis: Sez. U, n. 23528 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164-01).

Il proscioglimento nel merito può, tuttavia, essere dichiarato solo se la prova dell'insussistenza del fatto o dell'estraneità ad esso dell'imputato risulti evidente sulla base del testo della sentenza impugnata (ex plurimis: Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, Fontana, Rv. 258169-01; Sez. 1, n. 35627 del 18/04/2021, Amurri, Rv. 253458-01), senza possibilità di nuove indagini e ulteriori

accertamenti, che sarebbero incompatibili con l'immediata operatività della causa estintiva, che determina il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274-01).

Secondo il costante orientamento di questa Corte, in presenza della causa estintiva della prescrizione, l'obbligo di declaratoria, da parte del giudice di legittimità, di una più favorevole causa di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., comma 2, cod. proc. pen., comporta il controllo unicamente della sentenza impugnata, nel senso che gli atti dai quali può essere desunta la sussistenza della causa più favorevole sono costituiti unicamente dalla predetta sentenza (così, tra le tante, Sez. 1, n. 35627 del 18/04/2012, P.G. in proc. Amurri e altri, Rv. 253458; Sez. 6, n. 27944 del 12/06/2008, Capuzzo, Rv. 240955; Sez. 1, n. 10216 del 05/02/2003, De Stefano, Rv. 223575; Sez. 4, n. 9944 del 27/04/2000, Meloni e altri, Rv. 217255).

Dalle sentenze di merito, tuttavia, non risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, secondo quanto previsto dall'art. 129, comma 2, cod. proc. pen.

19. Alla stregua di tali rilievi, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alle condotte poste in essere fino all'agosto di 2010 perché per le stesse il reato è estinto per intervenuta prescrizione.

Il ricorso deve essere rigettato nel resto e deve essere disposta la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte di appello di Palermo per la sola rideterminazione della pena in relazione alle condotte residue.

Ai sensi dell'art. 624 cod. proc. pen., deve essere dichiara l'irrevocabilità della sentenza con riferimento alla responsabilità del ricorrente.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle condotte poste in essere fino all'agosto del 2010 perché il reato è estinto per intervenuta prescrizione; rigetta nel resto il ricorso e dispone la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte di appello di Palermo per la sola rideterminazione della pena in relazione alle condotte residue.

Visto l'art. 624 cod. proc. pen. dichiara l'irrevocabilità della sentenza con riferimento alla responsabilità del ricorrente.

Conclusione

Così deciso in Roma il 23 maggio 2024.

Depositata in Cancelleria il 5 settembre 2024.