È fondato unicamente il settimo motivo di ricorso, relativo al diniego del perdono giudiziale, mentre le altre doglianze vanno disattese perché infondate.
1. Iniziando dai primi tre motivi, suscettibili di trattazione unitaria perché tra loro sovrapponibili, deve escludersi l'eccepita violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza rispetto a entrambi i profili dedotti. Sul punto deve richiamarsi la condivisa affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 5, n. 3780 del 14/11/2017, dep. 26/01/2018, Rv. 272166), secondo cui, in tema di correlazione tra accusa e sentenza, la nozione di "fatto nuovo" di cui all'art. 518 cod. proc. pen., attiene solo a un accadimento del tutto difforme e autonomo da quello contestato, essendosi altresì precisato (cfr. Sez. 6, n. 38061 del 17/04/2019, Rv. 277365 e Sez. 6, n. 21094 del 25/02/2004, Rv. 229021) che non è diverso il fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, laddove la differente condotta realizzativa sia emersa dalle risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato, di modo che anche rispetto ad essa egli abbia avuto modo di esercitare le proprie prerogative difensive, ciò in quanto la contestazione del fatto non deve essere ricercata soltanto nel capo di imputazione, ma deve essere vista con riferimento ad ogni altra integrazione dell'addebito che venga fatta nel corso del giudizio e sulla quale l'imputato sia stato posto in grado di opporre le proprie deduzioni.
1.1. Alla luce di tale premessa interpretativa, non vi è spazio per l'accoglimento delle censure difensive, dovendosi considerare, quanto alla questione della data del commesso reato, che la collocazione del fatto nel luglio 2020 e non nell'estate 2019, secondo il tenore dell'originaria imputazione, è scaturita dal rilievo che gli accertamenti tecnici disposti sul cellulare dell'imputato hanno consentito di appurare che l'invio della foto incriminata dalla B.B. a A.A. è avvenuto il 22 luglio 2020 alle 18.22, contestualmente allo scambio di messaggi contenente un chiaro riferimento ai timori della ragazza per la possibile diffusione della foto, non essendovi dubbi sul fatto che tali accertamenti fossero ben noti all'imputato, la cui difesa non a caso ha molto insistito sull'esito di tali accertamenti per rimarcare la cancellazione della foto, che lo stesso A.A. avrebbe eseguito per mantenere fede all'impegno preso con la persona offesa, per cui deve escludersi che lo spostamento in avanti del tempus commisi delieti abbia costituito un sovvertimento del contenuto dell'imputazione con pregiudizio per la difesa. Lo stesso discorso vale per l'ulteriore passaggio argomentativo della sentenza impugnata in cui la Corte di appello, nel prendere atto della mancata prova che la diffusione della foto sia avvenuta tramite gli applicativi Whatsapp e Telegram, ha affermato che la cessione dell'immagine può essere comunque avvenuta "in svariati altri modi", resi possibili ad esempio anche da altre applicazioni esistenti.
Anche in tal caso si è in presenza non di un fatto diverso, ma di una differente modalità descrittiva della condotta illecita, che nel capo di imputazione è stata incentrata appunto sulla diffusione del materiale pedopornografico, non essendo né dirimente né esaustivo il richiamo all'utilizzo dei social network, che sono solo una delle possibili forme di trasmissione dei contenuti di un telefonino moderno. Ne consegue che le censure in punto di violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza non possono trovare accoglimento, non essendo la condanna dell'imputato esorbitante rispetto al perimetro dell'imputazione e alle risultanze probatorie di cui il ricorrente ha avuto ampia contezza durante i giudizi di merito, dovendosi anzi rilevare che la Corte di appello, proprio alla luce di una più compiuta ricostruzione del fatto delineato dalle prove note alle parti, ha legittimamente dato una diversa definizione giuridica della condotta, che è all'esito del giudizio di secondo grado è stato inquadrata nella più lieve previsione di cui all'art. 600 ter, comma 4, cod. pen., ciò peraltro in accoglimento di uno dei motivi di appello.
2. Passando al quarto, al quinto e al sesto motivo, suscettibili a loro volta di trattazione unitaria, occorre evidenziare che la formulazione del giudizio di colpevolezza dell'imputato non presenta vizi di legittimità rilevabili in questa sede. Ed invero le due conformi sentenze di merito, le cui argomentazioni sono destinate a integrarsi per formare un apparato motivazionale unitario, hanno operato un'adeguata disamina del materiale probatorio acquisito, valorizzando in particolare le dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni da B.B., classe 2004. Costei, con l'ausilio di un'esperta, la dottoressa Latella, ha riferito di aver inviato nell'estate del 2019 (ma in realtà come detto nel luglio 2020) una fotografia di lei appena uscita dalla doccia a Gaetano A.A., con cui all'epoca ella era fidanzata, su richiesta del ragazzo, il quale le aveva promesso di non divulgare la foto, impegnandosi a cancellarla subito dopo la ricezione. La persona offesa ha peraltro precisato di non essere stata minacciata da A.A., aggiungendo che anche dopo la fine del legame sentimentale, avvenuta peraltro pochi giorni dopo l'invio della foto, i due sono rimasti in buoni rapporti. La B.B. ha in ogni caso sottolineato di aver inoltrato l'immagine soltanto all'imputato, per cui i giudici di merito hanno ricondotto a quest'ultimo la diffusione della fotografia in questione, diffusione nel frattempo avvenuta nei mesi successivi all'invio tra gli abitanti della piccola frazione di P del Comune di B, essendo l'immagine pervenuta tra gli altri anche a D.D., zio di B.B., il quale informò la madre della ragazzina, C.C., dalla cui denuncia sporta il 26 marzo 2021 ha avuto origine il procedimento penale
2.1. Orbene, la narrazione di B.B. è stata legittimamente ritenuta credibile dai giudici di merito, in quanto lineare e priva di inutili enfatizzazioni o di manifestazione di acrimonia o di intenti calunniatori nei confronti dell'imputato, non essendosi la ragazza neanche costituita parte civile.
La ricostruzione della persona offesa, le cui lievi discrasie segnalate dalla difesa hanno riguardato aspetti marginali della vicenda, ha trovato inoltre adeguate conferme innanzitutto nelle dichiarazioni di E.E., zio dell'imputato, il quale, compulsato dalla madre di B.B., ha riportato le parziali ammissioni di A.A., il quale aveva confermato di aver ricevuto la fotografia in esame dalla ragazza, dichiarando di non ricordare se in passato l'avesse inviata a qualcuno. Un ulteriore elemento di conferma è stato inoltre ravvisato negli esiti dell'attività tecnica svolta sul cellulare dell'imputato, che ha consentito di risalire ai messaggi scambiati in occasione dell'invio della foto della ragazza nuda, desumendosi dalla chat la ritrosia di B.B. nel mandare l'immagine e le rassicurazioni ricevute da A.A. circa la mancata divulgazione della foto, che poi è stata cancellata. Tuttavia, ha ragionevolmente evidenziato la Corte di appello (pag. 8 della sentenza impugnata), proprio la ritrosia riferita dalla persona offesa e attestata dal tenore dei messaggi scambiati con l'imputato in occasione dell'invio dell'immagine rende credibile l'affermazione della B.B. di aver trasmesso la foto esclusivamente all'imputato, con il quale all'epoca ella era del resto legata, per cui la diffusione della foto è stata coerentemente attribuita all'imputato, che ben può averla fatta circolare con modalità diverse dall'utilizzo dei social network, offrendo al riguardo i dispositivi elettronici varie soluzioni, come ad esempio il ricorso al Bluetooth, dovendosi solo ribadire al riguardo che all'imputato è stata contestata la condotta di divulgazione dell'immagine, che correttamente la sentenza impugnata ha riqualificato come cessione, proprio in assenza di prove circa l'immissione della foto in canali di diffusione collettiva, mentre la prova almeno della cessione è stata desunta dal fatto che l'unico ad aver ricevuto l'immagine è stato proprio A.A.
2.2. In definitiva, in quanto fondata su argomentazioni razionali e coerenti con le fonti dimostrative acquisite, correttamente intese nel loro reale significato e correlate in maniera non illogica, la valutazione sulla credibilità della persona offesa e il giudizio sull'ascrivibilità all'imputato della foto pedopornografica si sottraggono alle censure difensive, con le quali si sollecita sostanzialmente una diversa (e frammentaria) lettura del materiale probatorio, operazione non consentita in questa sede, dovendosi richiamare la costante affermazione della giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601 e Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482), secondo cui, in tema di giudizio di cassazione, a fronte di un apparato argomentativo privo di profili di irrazionalità, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito. È stato altresì precisato (Sez. 3, n. 5602 del 21/01/2021, Rv. 281647 - 04 e Sez. 2, n. 29480 del 07/02/2017, Rv. 270519), che il principio dell' "oltre ragionevole dubbio", introdotto nell'art. 533 cod. proc. pen. dalla legge n. 46 del 2006, non ha mutato la natura del sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione della sentenza, che non può essere utilizzato per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che tale duplicità sia stata, come avvenuto nel caso di specie, incontrovertibilmente esclusa. Diventa perciò un fuor d'opera invocare la violazione del suddetto principio qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prove di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze istruttorie, nonché estranee all'ordine naturale delle cose e, ancor prima, della logica. Del resto, circoscrivere alle sole dichiarazioni della vittima, come spesso avvenuto nel ricorso, le doglianze volte a contestare l'affermazione di responsabilità equivale a ignorare come queste si inseriscano all'interno di un composito quadro probatorio globalmente valutato, non potendo il giudice di merito limitarsi a una considerazione atomistica e parcellizzata delle singole risultanze istruttorie. Di qui l'infondatezza delle censure in punto di responsabilità.
3. Meritevole di accoglimento è invece il settimo motivo di ricorso, avente ad oggetto la mancata concessione del perdono giudiziale all'imputato. In proposito, occorre richiamare l'affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 2, n. 19410 del 12/03/2019, Rv. 276560 e Sez. 1, n. 45080 del 30/10/2008, Rv. 242337), secondo cui, ai fini della concessione del perdono giudiziale, la prognosi positiva in ordine al futuro comportamento dell'imputato non può fondarsi sul solo dato dell'incensuratezza, dovendo valutarsi ulteriori elementi rivelatori della personalità del minore, quali le circostanze e le modalità dell'azione, l'intensità del dolo, la condotta di vita anche susseguente al reato, le condizioni familiari e sociali. Ciò premesso, la valutazione compiuta nella sentenza impugnata risulta carente sul punto, avendo la Corte di appello valorizzato in senso ostativo sia la pendenza di altro procedimento penale a carico di A.A., sia la circostanza che l'ammissione successiva al fatto è risultata, oltre che parziale, probatoriamente neutra, sia l'assenza di segni di resipiscenza per l'accaduto, anche nei confronti della vittima. Ora, tale giudizio non si sottrae alle censure difensive, dovendosi considerare, innanzitutto, che il riferimento all'altra pendenza a carico del minore è rimasto generico, non essendo chiaro l'oggetto e lo stato di tale procedimento penale. Piuttosto, non può sottacersi che, nel ridimensionare il trattamento sanzionatorio, la Corte di appello ha posto l'accento proprio sulla "buona biografia penale" del ricorrente, rilievo questo che invece pare rimesso in discussione nella stessa pagina (la 15) della sentenza dedicata alla richiesta di perdono giudiziale, dovendosi a ciò aggiungere che, sempre al fine di giustificare la mitigazione della pena, i giudici di secondo grado hanno rimarcato "la modesta entità della condotta di cessione, che riguardò una sola fotografia, ottenuta in un contesto paritario".
Tale elemento, invero non proprio secondario, non è stato invece valutato ai fini del giudizio sulla concedibilità del perdono giudiziale, come pure non hanno trovato spazio nel giudizio della Corte territoriale le condizioni familiari e sociali del minore, che invece avrebbero dovuto essere oggetto di adeguato approfondimento, non apparendo in sé dirimente, in definitiva, il solo riferimento al comportamento tenuto da A.A. in epoca successiva alla commissione del reato per cui si procede, comportamento peraltro comunque contraddistinto da pur parziali ammissioni. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al giudizio sulla concedibilità del perdono giudiziale, con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Reggio Calabria, che avrà cura di procedere a una nuova valutazione di merito, estesa a tutti i parametri sopra richiamati. Nel resto il ricorso proposto nell'interesse di A.A. deve essere invece disatteso.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al giudizio sulla
concedibilità del perdono giudiziale, con rinvio per nuovo giudizio
ad altra Sezione della Corte di appello di Reggio Calabria. Rigetta
nel resto il ricorso.
Conclusione
Così deciso il 07 maggio 2024.
Depositato in Cancelleria il 3 settembre 2024.