1. Il ricorso è infondato.
2. Il primo motivo di censura è inammissibile per genericità di formulazione.
Deve ribadirsi, in linea generale, il principio già affermato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, la violazione del diritto di difesa, "sub specie" di mancata ammissione delle prove dedotte, esige che siano indicate specificamente le prove che l'imputato non ha potuto assumere e le ragioni della loro rilevanza ai fini della decisione nel contesto processuale di riferimento (Sez. 5, n. 39764 del 29/5/2017, Rhafor, Rv. 271849). La sentenza n. 39764 del 2017 riguarda, peraltro, proprio un'ipotesi in cui la Corte ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso che non aveva indicato specificamente quali testi avrebbero dovuto essere ascoltati né le circostanze utili sulle quali avrebbero dovuto riferire.
In un'ottica ermeneutica distinta ma collegata, poi, si è condivisibilmente affermato che la parte che intende censurare con ricorso per cassazione l'ordinanza del giudice che, all'esito dell'istruttoria, abbia revocato una prova testimoniale già ammessa è tenuta, in ossequio al principio di specificità di all'art. 581, comma primo, lett. c), cod. proc. pen., a spiegare il livello di decisività delle prove testimoniali che il giudice ha ritenuto superflue (Sez. 6, n. 15673 del 19/12/2011, dep. 2012, Ceresoli, Rv. 252581). Successivamente si è chiarito che, in tema di ricorso per cassazione, l'impugnazione dell'ordinanza di esclusione di una prova testimoniale deve illustrare, in ossequio al principio di specificità di cui all'art. 581 cod. proc. pen., i motivi per i quali la deposizione ritenuta superflua dal giudice fosse, invece, rilevante ai fini della decisione (Sez. 1, n. 20581 del 10/1/2023, Astafi, Rv. 284536). La sentenza n. 15673 del 2012 si è espressa proprio in una fattispecie, analoga a quella oggi sottoposta al Collegio, in cui la Corte ha ritenuto inammissibile il motivo con cui la parte si limitava ad affermare che la testimonianza revocata sarebbe stata "potenzialmente contrastante" con quelle assunte. L'odierno ricorrente, infatti, si limita ad evocare genericamente la "assoluta discordanza" tra le dichiarazioni rese dalla vittima del reato in sede di esame e quelle da ella riferite nel corso delle sommarie informazioni, senza aggiungere altro.
Quanto ai testi esclusi dall'esame dibattimentale, poi, di essi non si indicano né i nomi o i ruoli avuti nella vicenda, né le circostanze, men che meno quelle "decisive" o semplicemente rilevanti, sulle quali essi avrebbero dovuto deporre. Tale estrema genericità di contenuti rende evidente la mancanza di qualsiasi profilo di violazione del diritto di difesa garantito dalla Costituzione o dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani, che rimane meramente evocato dal ricorrente, quale mera cornice formale e priva di contenuti concreti.
3. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
La tesi del ricorrente è che il delitto in esame non possa ritenersi sussistente quando l'autore della condotta sia il titolare dell'abitazione in cui viene effettuata la registrazione, coabitante nel luogo di dimora, perché egli è patte di quella "vita privata" che la disposizione penale mira a tutelare.
Ebbene, la giurisprudenza di questa Corte regolatrice ha già chiarito che integra il reato di interferenze illecite nella vita privata di cui all'art. 615-bis cod. pen. la condotta di colui che, mediante l'uso di strumenti di captazione visiva o sonora, all'interno della propria dimora, carpisca immagini o notizie attinenti alla vita privata di altri soggetti che vi si trovino, siano essi stabili conviventi o ospiti occasionali, senza esservi in alcun modo partecipe; ne consegue che detto reato non è configurabile allorché l'autore della condotta condivida con i medesimi soggetti e con il loro consenso l'atto della vita privata oggetto di captazione (Sez. 5, n. 36109 del 14/5/2018, C., Rv. 273598). Nella citata decisione n. 36109 del 2018 la Corte ha ritenuto corretta la qualificazione ai sensi dell'art. 615-bis cod. pen. della condotta dell'imputato che aveva filmato la propria moglie, nuda o seminuda, all'interno del bagno o della camera da letto, intenta all'igiene del corpo o alla cura della persona, in assenza di elementi che dimostrassero che la donna volesse condividere con l'imputato detti momenti di intimità.
La disposizione incriminatrice, invero, tutela la proiezione spaziale della personalità nei luoghi nei quali questa si manifesta privatamente e punisce i soli comportamenti di interferenza posti in essere da chi risulti estraneo agli atti di vita privata oggetto di indebita captazione (poiché altrimenti il bene della riservatezza domiciliare non risulterebbe leso).
Pertanto, chi partecipa con l'assenso dell'offeso alla scena ritratta o alla conversazione captata (sia essa domestica, intima, o comunque tale da non rendersi percepibile ad una generalità indeterminata di persone) non può essere autore del reato di cui all'art. 615-bis cod. pen. (Sez. 5, n. 22221 del 10/1/2017, D.M., Rv. 270236). Tuttavia, come spiega bene la sentenza n. 36109 del 2018, non risulta decisivo, per escludere la rilevanza penale della condotta, che il fatto avvenga nell'abitazione di chi ne sia l'autore, giacché ciò che rileva è che il dominus loci non sia estraneo al momento di riservatezza captato.
Di conseguenza, risponde del reato anche chi predispone mezzi di captazione visiva e sonora nella propria dimora, carpendo immagini e conversazioni o notizie attinenti alla vita privata di chi in tale abitazione si trovi, siano essi stabili conviventi oppure occasionali ospiti, quando l'autore della condotta non sia partecipe dell'atto della vita privata captato. Viceversa, non risponde del reato colui che condivide con i medesimi soggetti l'atto della vita privata (l'orientamento basato sul consenso del soggetto captato o filmato - cfr., per tutte, Sez. 5, n. 13384 del 20/12/2018, dep. 2019, L., Rv. 275236 - sorto per tutelare soprattutto le vittime di condotte abusive dell'utilizzo delle conversazioni e dei filmati intimi poi diffusi a terzi, ha trovato riscontro, nelle sue finalità, nella previsione normativa del delitto di cui all'art. 615-ter cod. pen.).
Dunque, il discrimine tra interferenza illecita e lecita non è dato dalla natura del momento di riservatezza violato, ma dalla circostanza che il soggetto attivo vi sia stato o meno partecipe (così, in motivazione, entrambe le sentenze sinora richiamate). Non si discostano da tali approdi neppure le sentenze Sez. 5, n. 1766 del 28/11/2007, dep. 2008, Radicella Chiaramonte, Rv. 239098 e Sez. 5, n. 24848 del 17/5/2023, N., Rv. 284871, le quali hanno escluso la sussistenza del reato di interferenze illecite nella vita privata facendo leva sempre sull'estraneità del soggetto autore della condotta all'atto di vita privata carpito, con ciò ammettendo la configurabilità del reato anche a carico del dominus loci qualora questi non compaia nelle registrazioni effettuate e sia, anche momentaneamente, escluso (non presente) nei luoghi nei quali avvengono le videoriprese o le registrazioni.
Nella prima sentenza, si è ritenuto, così, che non configurasse reato la condotta di colui che mediante l'uso di strumenti di ripresa visiva provveda a filmare in casa propria rapporti intimi avvenuti con la convivente; nella seconda pronuncia, il reato è stato escluso nel caso della condotta di colui che, ammesso ad accedere nell'abitazione del coniuge separato, provveda a filmare, senza consenso, gli incontri tra quest'ultimo e il figlio minore avvenuti anche in sua presenza, rispetto ai quali, dunque, egli era partecipe dell'atto di vita privata captato.
3.1. Nel caso all'attenzione del Collegio, in più punti della sentenza impugnata si è evidenziata la non partecipazione dell'imputato alle conversazioni registrate tra la vittima e suoi interlocutori mediante apposizione di una microspia nell'abitazione comune.
La materialità della condotta, poi, è stata ammessa anche dal ricorrente che, invocando - come si dirà - la causa di giustificazione dello stato di necessità, ha precisato di aver voluto registrare le conversazioni tra la vittima, sua ex compagna di vita, e il loro figlio minore, nel tentativo di provare l'asserita manipolazione contro di lui.
4. Il terzo motivo, nella parte dedicata ad eccepire la sussistenza della causa di giustificazione prevista dall'art. 54 cod. pen., è generico ed assertivo, poiché non si confronta con le ragioni della sentenza d'appello, che hanno dato atto di come nessun grave pregiudizio sia stato provato nei confronti del figlio minore, nella sua dimensione di conservazione di un corretto rapporto genitoriale con il padre, anche alla luce della precisazione della Corte d'Appello relativa alla circostanza che, nel giudizio civile di separazione, si è disposto l'affido condiviso del piccolo, valutata l'insussistenza di elementi ostativi.
4.1. Inammissibili sono anche i profili difensivi con i quali, nell'ambito dello stesso terzo motivo di ricorso, si eccepisce l'insussistenza del dolo, confondendo il coefficiente psichico del reato con il movente dell'agire criminoso.
Infatti, non ha rilievo la spinta emotiva che ha determinato il ricorrente a commettere il delitto, vale a dire la convinzione che il figlio minore versasse in uno stato di pericolo per i tentativi di manipolazione psicologica da parte della madre contro il padre, poiché - al di là dell'assenza di prove di un simile pregiudizio in atto - ciò che conta per la sussistenza del reato è il dolo generico, consistente nella volontà cosciente dell'agente di procurarsi indebitamente immagini inerenti la "privacy" altrui (Sez. 1, n. 25666 del 4/4/2003, Amadei, Rv. 225333).
5. Infine, sono inammissibili il quarto ed il quinto motivo di censura, sviluppati sotto generici profili di meritevolezza delle circostanze attenuanti generiche e della causa di esclusione della punibilità prevista dall'art. 131 - bis cod. pen. e, soprattutto, inediti, poiché mai proposti nei motivi d'appello, come confermato anche dalla sintesi delle ragioni difensive sviluppate dalla Corte d'Appello, ribadite anche nelle conclusioni scritte rassegnate dalla difesa in vista dell'udienza del processo di secondo grado.
6. Al rigetto del ricorso, segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
6.1. Deve essere disposto, altresì, che siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003, in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 del D.Lgs. 196 del 2003 in quanto imposto dalla legge.
Conclusione
Così deciso il 7 dicembre 2023.
Depositata in Cancelleria il 27 marzo 2024.