Giu All’indennità SECIT deve essere riconosciuta la natura retributiva ma anche e soprattutto il carattere di voce retributiva stabile e continuativa del trattamento economico attribuito al personale appartenente alle “qualifiche funzionali dalla I alla
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE LAVORO - ORDINANZA 12 settembre 2024 N. 24530
Massima
All’indennità SECIT deve essere riconosciuta la natura retributiva ma anche e soprattutto il carattere di voce retributiva stabile e continuativa del trattamento economico attribuito al personale appartenente alle “qualifiche funzionali dalla I alla V” assegnato al servizio SECIT …, e ciò indipendentemente dalla circostanza che in origine ne sia stata affermata la non pensionabilità (Corte di Cassazione, sentenza n. 21475/2019)

Casus Decisus
L’attuale controricorrente – dipendente del Ministero dell’Economia e delle Finanze che fu temporaneamente distaccato presso il SECIT (Servizio consultivo ed ispettivo tributario) – si rivolse al Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, per chiedere l’accertamento del suo diritto a continuare a percepire la c.d. «indennità SECIT», di cui agli artt. 9 e 12 della legge n. 146 del 1980, anche dopo la soppressione di quella struttura e la sua assegnazione al servizio presso il Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria. Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale accolse parzialmente la domanda, riconoscendo al lavoratore, nei limiti della maturata prescrizione, il permanente diritto al pagamento dell’indennità, nella misura goduta alla data del 25.6.2008, fino alla data di cessazione del rapporto di lavoro e condannando il Ministero al pagamento delle conseguenti differenze retributive. Impugnata la sentenza di primo grado, la Corte d’Appello di Roma respinse il gravame con la sentenza contro la quale il Ministero ha ora proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi. Il lavoratore si è difeso con controricorso, illustrato anche con memoria depositata nel termine di legge anteriore alla data fissata per la camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE LAVORO - ORDINANZA 12 settembre 2024 N. 24530 DI PAOLANTONIO ANNALISA

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 45, comma 2, lett. a, d.l. n. 112 del 2008, convertito in legge n. 133 del 2008. Violazione e/o falsa applicazione, dell’art. 202 d.P.R. n. 3 del 10.1.1957 e della legge n. 537 del 24.12.1993 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.». C

Il ricorrente rileva che l’art. 45 del d.l. n. 112 del 2008, con cui venne soppresso il SECIT, decretò l’abrogazione di tutte le norme incompatibili con tale soppressione, esplicitamente indicando, tra queste, anche l’art. 12 della legge n. 146 del 1980, con cui venne istituita la «speciale indennità di funzione non pensionabile pari al cinquanta per cento della retribuzione percepita» (c.d. «indennità SECIT»). Contesta, pertanto, la motivazione della Corte d’Appello laddove ha ritenuto che il citato art. 45 non fosse di ostacolo al (parziale) accoglimento delle domande del lavoratore.

2. Il secondo motivo censura, «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 12 della legge n. 133 del 2008, dell’art. 11, comma 2, della legge n. 358 del 1991 e del Contratto Collettivo Nazionale per il Comparto Ministeri, autorizzato con d.P.C.M. 3.3.1995, n. 63, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.». Il Ministero contesta la ricostruzione del quadro normativo descritta nella sentenza d’appello e, in particolare, la statuizione secondo cui l’art. 11, comma 2, della legge n. 358 del 1991, estendendo la speciale indennità a tutto il personale SECIT, a prescindere dalle mansioni svolte e dai risultati conseguiti, la fece diventare una voce retributiva corrisposta in modo fisso e continuativo, come tale insuscettibile di reformatio in peius. 3. Il terzo motivo è rubricato «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 45 del d.l. n. 112 del 2008 convertito in legge n. 133 del 2008 e dell’art. 202 d.P.R. n. 3 del 1957, in relazione all’applicazione del divieto di reformatio in peius, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.». Il ricorrente contesta l’applicabilità, nel caso di specie, del divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito dal lavoratore, sul presupposto – già sostenuto nella illustrazione del precedente motivo – che la c.d. «indennità SECIT» fosse da considerare una componente della retribuzione «accessoria e speciale» e non una voce fissa e continuativa.

4. I tre motivi, da esaminare congiuntamente per la loro stretta connessione logica e giuridica, sono infondati. La decisione impugnata è infatti conforme al principio di diritto che questa Corte ha già avuto occasione di affermare rigettando un ricorso di contenuto sovrapponibile al presente.

4.1. La sentenza n. 21475/2019, alla cui più ampia motivazione si rinvia ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., dopo una compiuta descrizione dello sviluppo cronologico del quadro normativo, ha statuito, in modo condivisibile, che «all’indennità in esame deve essere riconosciuta la natura retributiva ma anche e soprattutto il carattere di voce retributiva stabile e continuativa del trattamento economico attribuito al personale appartenente alle “qualifiche funzionali dalla I alla V” assegnato al servizio SECIT …, e ciò indipendentemente dalla circostanza che in origine ne sia stata affermata la non pensionabilità. … Essa, infatti, come emerge dall’inequivoco tenore letterale del citato c. 4 dell’art. 11 della L. n. 1991 n. 358, fu attribuita, con carattere di generalità, per il solo fatto della assegnazione al SECIT, senza alcuna correlazione alla specificità delle mansioni in concreto svolte e/o ai risultati ottenuti. Tant'è che l’importo era stato predeterminato, in virtù del rinvio espresso all’art. 12 c. 4 della legge n. 146 del 1980, in misura pari al “cinquanta per cento della retribuzione percepita, con esclusione dell'indennità integrativa speciale e dell’assegno temporaneo di cui alla legge 19 luglio 1977 c. 412”». Si è inoltre argomentato che «L’indennità in esame non è venuta meno, né ha mutato i caratteri sopra indicati a seguito della privatizzazione del rapporto di impiego pubblico e dell’intervento della contrattazione collettiva»; per giungere quindi alla conclusione che «Il principio generale della irriducibilità della retribuzione, che vieta anche nell’ambito dei rapporti di impiego pubblico privatizzato, il peggioramento ingiustificato del trattamento economico maturato, non risulta nella fattispecie derogato dalle disposizioni contenute nell’art. 45 del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modificazioni dalla L. n. 133 del 2008».

Infatti, «La abrogazione espressa (c. 2 dell'art. 45) di tutte le “le disposizioni incompatibili con quelle di cui al medesimo comma 1” e, in particolare degli articoli 9, 10, 11, 12 della legge 24 aprile 1980, n. 146, e successive modificazioni (lett. a) e dell’articolo 22 del regolamento emanato con decreto del Presidente della Repubblica 26 marzo 2001, n. 107 (lett. b), non può essere richiamata utilmente», perché «l’indennità era stata attribuita agli odierni ricorrenti dall’art. 11 della L. n 358 del 1991, che non è stata oggetto di intervento abrogativo; essa, poi, era stata disciplinata dalla contrattazione collettiva successivamente intervenuta, che, nel silenzio della legge, non può ritenersi derogata da quest’ultima».

4.2. Rispetto a tale ordine di argomentazioni, il ricorso oggi in esame – che venne notificato prima del deposito della sentenza n. 21475/2019 – non pone elementi di novità che inducano a riconsiderare o a mutare l’orientamento già espresso.

5. Rigettato il ricorso, le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

6. Si dà atto che, nonostante l’esito del giudizio, non sussiste il presupposto per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del  2002, in quanto ricorrente è un’amministrazione centrale dello Stato.

P.Q.M.

La Corte: rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 4.000 per compensi, oltre alle spese generali al 15%, ad € 200 per esborsi e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 19.6.2024.