1. In via preliminare, parte controricorrente ha eccepito l’esistenza di giudicato esterno sulle questioni oggetto del contendere (in primis, sul fatto che il patrimonio di Sergio S. derivi in parte dalla sottrazione di somme appartenenti a Flavia R., per essersi il primo appropriato degli importi provenienti dalla vendita di immobili della seconda), formatosi per effetto delle sentenze rese (dapprima dal Tribunale di Forlì, poi dalla Corte di appello di Bologna) nel giudizio di separazione tra coniugi, divenute definitive a seguito del rigetto (in parte qua) della impugnazione di legittimità pronunciato da Cass. 04/04/2011, n. 7618.
1.1. L’eccezione è inammissibile, per distinte ed autonome ragioni. Parte controricorrente deduce di aver già sollevato l’eccezione «in comparsa conclusionale di primo grado e in comparsa di costituzione e risposta avanti alla Corte di appello di Bologna». Sulla introduzione della questione nel thema decidendum nei gradi di merito del giudizio, però, si limita alle testé trascritte generiche affermazioni, inosservanti del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, mancando la trascrizione - sia pure per stralci essenziali o per passaggi d’interesse - del contenuto degli scritti difensivi richiamati, dei quali è altresì omessa, in specifica violazione del disposto dell’art. 366, primo comma, num. 6, cod. proc. civ., l’indicazione della collocazione nel fascicolo di ufficio e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (sul tema, ex plurimis, Cass., Sez. U., 27/12/2019, n. 34469; Cass., Sez. U., 18/03/2022, n. 8950). Peraltro, pur ipotizzando la rituale proposizione dell’eccezione de qua, sulla stessa non spende parola la sentenza impugnata: sicché l’odierna controricorrente, onde nuovamente sottoporre la stessa al vaglio di questa Corte, avrebbe dovuto spiegare ricorso incidentale (lamentando la omessa pronuncia, rilevante ex art. 112 cod. proc. civ.), non già ribadire l’argomentazione all’esclusivo fine di paralizzare l’accoglimento dell’avverso ricorso.
1.2. Ma l’eccezione di giudicato in discorso è inammissibile anche ove configurata come sollevata per la prima volta in cassazione. Se infatti è noto che nel giudizio di impugnazione di legittimità il giudicato esterno (al pari di quello interno) è financo rilevabile di ufficio dalla Suprema Corte, va d’altro canto rammentato che l’opponibilità di tale giudicato incontra un limite temporale afferente la sua formazione: è orientamento consolidato, infatti, che il giudice di legittimità possa valutare direttamente e per la prima volta l’efficacia di giudicato soltanto in relazione a decisioni divenute definitive dopo la scadenza del termine ultimo per ogni allegazione difensiva in grado di appello (cioè successivamente alla scadenza dei termini per il deposito di memorie di replica), in tal caso la produzione della sentenza con attestazione di passaggio in giudicato non trovando ostacolo nel divieto sancito dall’art. 372 cod. proc. civ. (ex plurimis, Cass. 28/07/2023, n. 23106; Cass. 02/09/2022, n. 25863; Cass. 04/02/2021, n. 2675; Cass. 31/05/2019, n. 14883; Cass. 22/01/2018, n. 1534; Cass., Sez. U, 16/06/2006, n. 13916). Nella specie, quindi, inammissibilmente la controricorrente intende avvalersi di un giudicato esterno formatosi in epoca anteriore alla definizione del giudizio di appello concluso con la pronuncia gravata.
2. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione dell’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., «per avere la Corte di appello di Bologna valutato tempestiva l’eccezione di ricorrenza di obbligazione naturale avanzata da parte convenuta in primo grado (e per la prima volta in comparsa conclusionale), senza opportuna valutazione del fatto che essa rappresentava eccezione in senso stretto, proponibile solo dalla parte, e solo in comparsa di costituzione e risposta, in quanto involgente – e con essa manifestantesi – un diritto potestativo che la parte può esercite o meno».
2.1. La doglianza è infondata.
L’azione generale di ingiustificato arricchimento postula che la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro sia avvenuta senza «giusta causa»: l’assenza di questa, dunque, costituisce elemento che integra la fattispecie contemplata dall’art. 2041 cod. civ..
In altri termini, colui che agisce con l’azione in parola è onerato di allegare che il proprio depauperamento, correlato da nesso di causalità con l’altrui arricchimento o con la causa di quest’ultimo, sia privo di una legittima causa dell’attribuzione o trasferimento patrimoniale: e tanto concreta il fatto costitutivo tipico della domanda ex art. 2041 del codice civile. In tal senso può correttamente intendersi, puntualizzandone i riverberi di natura processuale, il consolidato indirizzo esegetico di questa Corte che dalle esposte premesse inferisce che «non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale» (cfr., ex plurimis, Cass. 13/06/2023, n. 16864; Cass. 16/02/2023, n. 4909; Cass. 16/02/2022, n. 5086; Cass. 24/06/2020, n. 12405; Cass. 07/06/2018, n. 14732; Cass. 15/05/2009, n. 11330).
A fronte di una domanda di ingiustificato arricchimento in tal guisa conformata, la deduzione della esistenza di un’obbligazione naturale quale ragione giustificante lo spostamento patrimoniale non concreta né comporta l’allegazione di un fatto ulteriore e diverso rispetto a quello posto a fondamento della domanda, munito di efficacia estintiva, impeditiva o modificativa del diritto ex adverso fatto valere: si esula, in tutta evidenza, dal concetto di eccezione. Dedurre che la prestazione asserita come ingiustificata rappresenti in realtà l’adempimento di un dovere morale o sociale significa, a ben vedere, prospettare una differente veste giuridica alla vicenda fattuale narrata dalla parte istante: l’ascrizione di una ragione causale alla attribuzione patrimoniale è, quindi, negazione del fatto costitutivo della domanda, ovvero, in altre parole, mera difesa, sottratta, in quanto tale, al regime preclusivo delle attività assertive delle parti stabilito dal codice di rito con riferimento alle eccezioni, di rito o di merito.
Sulla scorta di ciò, ineccepibile si rivela la conforme qualificazione operata dal giudice territoriale, nonché la conseguente esclusione della tardività del rilievo, sol perché avvenuto per la prima volta con la comparsa conclusionale del giudizio di primo grado.
Va, in conclusione, enunciato il seguente principio di diritto: «in tema di azione di ingiustificato arricchimento di cui all’art. 2041 cod. civ., la deduzione che l’attribuzione patrimoniale asseritamente priva di causa sia conseguenza dell’adempimento di un’obbligazione naturale configura una mera difesa, non un’eccezione, sicché non è soggetta al regime delle preclusioni dettate per il dispiegamento di quest’ultima».
3. Con il secondo motivo, per falsa applicazione degli artt. 2033 e 2041 cod. civ. in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., si lamenta la «sussunzione della fattispecie concreta (acquisto immobile-rudere, ristrutturazione integrale con realizzazione di più unità immobiliari e divisione del compendio tra le parti, tuttavia in misura non equa) entro una fattispecie giuridica (art. 2034 cod. civ.) non pertinente e della quale non ricorrono i presupposti – violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., con imprudente valutazione del materiale probatorio ed errata ricostruzione del fatto». L’intera argomentazione del ricorrente si compendia, in sintesi, nel sostenere che l’attività posta in essere dagli allora coniugi (acquisto, ristrutturazione, divisione dei cespiti) era stata dagli stessi concepita e gestita, nella sua globalità, come un’operazione negoziale immobiliare, talché nemmeno ipotizzabile era un’obbligazione naturale.
3.1. La censura è inammissibile.
A tacer della dubbia deducibilità della questione come ragione di impugnazione di legittimità, siccome apparentemente non sottoposta alla valutazione del giudice territoriale (nella sentenza impugnata si narra, quale motivo di appello, della contestazione della proporzionalità dell’apporto del solvens, non della configurabilità in sé dell’obbligazione naturale nella vicenda), a suffragare l’inammissibilità del motivo basti osservare che la doglianza del ricorrente si risolve nel sollecitare questa Corte ad una nuova valutazione del materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio di merito, diretta ad una ricostruzione della quaestio facti in termini differenti da quella operata dal giudice di merito: attività, tuttavia, del tutto estranee alla natura ed alla funzione del giudizio di legittimità. Ad ulteriore conforto di quanto sopra, si aggiunga poi che, per costante orientamento di nomofilachia, l’indagine sulla sussistenza di un dovere morale e sociale (cioè di un’obbligazione naturale) concreta un accertamento in fatto, riservato al giudice di merito, incensurabile in Cassazione se sorretto da motivazione sufficiente ed immune da vizi logici (oltre alle citate Cass. n. 16864 del 2023 e Cass. n. 14732 del 2018, cfr., in specie, Cass. 01/07/2021, n. 18721; Cass. 13/03/2003, n. 3713), anomalie motivazionali nel caso nemmeno adombrate. Inconferente è, da ultimo, la evocata violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., la quale abilita all’impugnazione di legittimità allorquando si deduca che il giudice di merito abbia disatteso il principio del libero apprezzamento delle prove in assenza di una deroga normativamente prevista ovvero, all’opposto, abbia valutato secondo prudente apprezzamento una prova o una risultanza probatoria soggetta a diverso regime (Cass., Sez. U, 30/09/2020, n. 20867, cui adde Cass. 31/08/2020, n. 18092; Cass. 18/03/2019, n. 7618; e già Cass. 10/06/2016, n. 11892): vizi non prospettati dal ricorrente.
4. Il terzo motivo, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., prospetta «vizio di omessa pronuncia – error in procedendo – violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. – motivazione contraddittoria, insufficiente, apparente, perplessa in relazione ai requisiti della “presenza di una prestazione spontanea che trova la sua giustificazione causale nella comunione di vita tra le parti” e della “proporzionalità tra la prestazione eseguita dal solvens, il patrimonio di cui l’adempiente dispone e l’interesse da soddisfare” richiesti per la ricorrenza di obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ.».
4.1. Anche questo motivo è inammissibile.
Per fermo convincimento del giudice di nomofilachia, le attribuzioni patrimoniali (o le prestazioni a carattere patrimoniale) da un coniuge a favore dell’altro effettuate nel corso del matrimonio configurano, al pari di quelle eseguite tra conviventi more uxorio, l’adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., dacché espressione della solidarietà che avvince due persone unite da legame stabile e duraturo, a condizione, tuttavia, che siano rispettati i princìpi di proporzionalità ed adeguatezza, il cui contenuto va in concreto parametrato alle condizioni sociali ed economiche dei componenti della famiglia. Detto altrimenti, la proporzionalità ed adeguatezza va vagliata alla luce di tutte le circostanze del caso specifico, dovendo la prestazione risultare adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio ed alle condizioni sociali del solvens: pertanto, la verifica sulla sussistenza di detti caratteri è compito tipicamente devoluto al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo nei circoscritti limiti dei vizi motivazionali rilevanti ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ. (diffusamente, Cass. n. 16864 del 2023, cit.; oltre alle pronunce citate supra, si veda Cass. 25/01/2016, n. 1266). Orbene, proprio l’apprezzamento di natura fattuale sui connotati dell’attribuzione patrimoniale controversa parte ricorrente intende, al fondo, rimettere in discussione, ma: per un verso, chiamando la Corte di legittimità ad un inammissibile riesame delle emergenze istruttorie; d’altro canto, denunciando anomalie motivazionali non riconducibili a quelle legittimanti l’adizione del giudice di legittimità, circoscritte alla «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», alla «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» ed alla «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione (sul punto, basti il richiamo a Cass., Sez. U, 22/09/2014, n. 19881 e a Cass., Sez. U, 07/04/2014, n. 8053).
5. Il ricorso è rigettato.
6. Il regolamento delle spese del giudizio di legittimità segue la regola della soccombenza, con liquidazione operata secondo la vigente normativa secondaria, in conformità alla nota depositata da parte controricorrente.
7. Atteso l’esito del ricorso, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento al competente ufficio di merito da parte della ricorrente - ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente alla refusione in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura di euro 7.290 per compensi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15 per cento ed agli accessori, fiscali e previdenziali, di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento al competente ufficio di merito da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso principale, a norma dell’art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione