con il primo motivo si denuncia violazione dei limiti esterni della giurisdizione per sconfinamento nella giurisdizione della Corte costituzionale ed invasione della sfera legislativa.
Osserva la parte ricorrente che la Corte costituzionale ha affermato che gli accordi con i Comuni, pure ammissibili prima delle linee guida del 2010, devono contemplare soltanto «misure di compensazione e riequilibrio ambientale», e che seppure tali clausole possano avere carattere esclusivamente monetario, “ossia solo per equivalente”, esse devono comunque rispondere, esclusivamente, alla funzione di «monetizzazione degli effetti deteriori che l’impatto ambientale determina». Aggiunge che, sulla base della sentenza costituzionale vincolante per il giudice remittente, le ricorrenti avevano eccepito che la convenzione mancava di tale destinazione finalistica posto che in nessuna parte di essa si faceva riferimento all’introduzione di “misure di compensazione”, non contemplando l’art. 4 alcun impatto territoriale e ambientale né tanto meno alcuna monetizzazione di esso (non risultava inoltre provato che le ingenti somme corrisposte fossero state destinate all’attuazione di riequilibrio del pregiudizio ambientale, territoriale o paesaggistico determinato dal realizzato impianto eolico). Aggiunge ancora che il Consiglio di Stato, affermando che le pattuizioni meramente patrimoniali anteriori al d.m. 10 settembre 2010 non dovessero dimostrare la loro natura “compensativa”, e riconducendo tale conclusione alla sentenza costituzionale, ne ha violato i contenuti, invece vincolanti per il giudice a quo, così illegittimamente sconfinando nella sfera della giurisdizione costituzionale, e per di più, così decidendo, ha creato ex novo la regola iuris applicata, stravolgendone il tenore testuale e la voluntas legis.
Precisa che vi è travalicamento dei limiti esterni perché l'attività “interpretativa” del giudice amministrativo ha invaso quella già esercitata dalla Corte costituzionale nel giudizio incidentale attivato dallo stesso Consiglio di Stato in corso di causa, con sentenza interpretativa di rigetto, vincolante per il giudice a quo, creando una norma nuova. In particolare, osservano ancora le società ricorrenti, la norma imperativa di cui all’art. 1, comma 5, l. n. 239 del 2004, prevede espressamente che gli enti locali territorialmente interessati dalla localizzazione di infrastrutture strategiche «hanno diritto di stipulare accordi con i soggetti proponenti che individuino misure di compensazione e riequilibrio ambientale, coerenti con gli obiettivi generali di politica energetica nazionale”, con ciò testualmente imponendo la previa determinazione degli impatti territoriali degli impianti e la traduzione monetaria di quegli impatti nelle stesse convenzioni con i Comuni, per cui, in base all’univoco tenore testuale della norma, le sole misure patrimoniali ammissibili sono quelle che hanno funzione di “compensazione e riequilibrio ambientale”, e che siano “individuate” nelle Convenzioni con i Comuni.
Conclude nel senso che il Consiglio di Stato, affermando che la legislazione vigente non richiederebbe che le misure compensative siano preventivamente individuate negli accordi, e specificamente relazionate agli squilibri da compensare, ha creato una norma inesistente, laddove invece in base alla disposizione la mancanza della destinazione finalistica determina la nullità dell’accordo. Con il secondo motivo si denuncia violazione dei limiti esterni, sotto il profilo dell’arretramento della giurisdizione in relazione alla censura di incompatibilità della norma con la disciplina unionale.
Osservano le ricorrenti che, nonostante la denuncia di plurimi profili di contrasto con il diritto euro-unitario, il Consiglio di Stato si è rifiutato di pronunciare sulla questione, assumendo che i detti profili erano già stati valutati dal giudice costituzionale, erroneamente perché nella sentenza costituzionale non vi è alcuna valutazione circa la legittimità euro-unitaria delle disposizioni normative anteriori al 10 settembre 2010, ma solo in relazione all’art. 1, comma 953, l. n. 145 del 2018. Precisano al riguardo che la normativa nazionale, come ricostruita dalla Corte costituzionale, sovverte le libertà di circolazione di servizi e capitali nel territorio dell’Unione e di concorrenza nel mercato interno, di cui agli artt. 3, 56 e 63 TFUE, in quanto, condizionando la realizzazione degli impianti alla stipula di pattuizioni a contenuto meramente patrimoniale con i Comuni su cui insistono gli impianti medesima, disincentiva gli investimenti nello Stato italiano, crea differenziazioni territoriali ingiustificate che limitano la concorrenza, e aggrava ingiustificatamente l’implementazione dei servizi di produzione di energia green.
Aggiungono che la normativa nazionale ribalta anche le Direttive europee in materia di liberalizzazione del mercato elettrico, perseguita in UE sin dalla Direttiva 1996/92/CE, volta alla creazione di un mercato unico dell’energia elettrica. Concludono quindi chiedendo alla Corte di Cassazione «di disapplicare– o di ordinare al Consiglio di Stato in sede di rinvio di disapplicare – l’art. 1, c. 5, della l. n. 239 del 2004, letto in correlazione con l’art. 12, c. 6, d.lgs. n. 387 del 2003, perché incompatibile con le Direttive 2001/77/CE, 2009/28/CE, e 2018/2001/UE e con il relativo effetto utile, nonché con gli artt. 3, 56 e 63 TFUE, come pure con i principi di liberalizzazione del mercato elettrico di cui alle Direttive 1996/92/CE, 2003/54/CE, 2009/72/CE, e conseguentemente dichiarare la nullità della Convenzione stipulata con il Comune di S. per contrasto con le richiamate fonti unionali, previo eventuale rinvio pregiudiziale alla CGUE».
Con il terzo motivo si denuncia violazione dei limiti esterni della giurisdizione per sconfinamento nella giurisdizione della Corte costituzionale ed invasione della sfera legislativa, in relazione alla domanda subordinata di nullità/inefficacia parziale della convenzione. Premesso che la Corte costituzionale aveva reputato non fondata la questione di legittimità costituzionale sulla base del motivo imperativo di carattere generale fra cui la tenuta dei bilanci degli enti locali, osserva la parte ricorrente che il Consiglio di Stato, disattendendo l’eccezione di inefficacia della convenzione quanto meno con riferimento alla somme non corrisposte, le quali non erano state iscritte in bilancio, ha manifestamente violato la sentenza costituzionale, vincolante per il giudice a quo, per la quale la preventiva acquisizione e rendicontazione a bilancio delle somme pattuite nelle convenzioni tra privati e Comuni costituiva invece presupposto di applicabilità della norma, così incorrendo nel vizio di eccesso di potere giurisdizionale per indebito sconfinamento nella sfera giurisdizionale riservata alla Corte costituzionale.
Aggiunge che, per conseguenza, risulta creata ex novo la norma applicata perché l’art. 1, comma 953, l. n. 145 del 2018 collega l’efficacia della convenzione alla circostanza che restano acquisiti nei bilanci degli enti locali i proventi economici, e dunque all’elemento della preventiva iscrizione a bilancio di questi ultimi, per cui il Consiglio di Stato, negando che l’acquisizione a bilancio dei proventi pattuiti in Convenzione sia condizione di applicabilità della norma, è andato oltre uno dei possibili significati della norma. Il primo ed il terzo motivo, da trattare congiuntamente, sono inammissibili. I due motivi contengono un duplice ordine di censure per violazione di limiti esterni. Con la prima censura si denuncia l’eccesso di potere giurisdizionale derivante dalla violazione del dictum della sentenza della Corte costituzionale, con la seconda l’eccesso derivante dalla applicazione di una norma inesistente per mancato rispetto dei confini linguistici della disposizione. Muovendo dalla prima censura va subito detto che l’asserita violazione del vincolo che deriverebbe dalla sentenza costituzionale si tradurrebbe nell’applicazione della disposizione sulla base di un’interpretazione ritenuta costituzionalmente viziata, ma non nella creazione di norma, in quanto applicazione di disposizione pur sempre esistente nell’ordinamento e valutata, ma non dichiarata, costituzionalmente illegittima dal giudice costituzionale se interpretata come per ipotesi avrebbe fatto il giudice comune.
Ciò premesso, va evidenziato che, contrariamente a quanto affermato dalle ricorrenti, la sentenza costituzionale n. 46 del 2021 non costituisce una sentenza interpretativa di rigetto, non solo perché nel dispositivo manca la formula “nei sensi di cui in motivazione”, profilo che di per sé non sarebbe dirimente, ma anche perché la stessa motivazione non manifesta, anche per implicito, un’interpretazione della disposizione che il giudice costituzionale abbia ritenuto viziata perché non conforme a Costituzione. Anche assumendo tuttavia una natura interpretativa della sentenza di rigetto in discorso, essa comunque non sarebbe assistita, come ogni pronuncia di rigetto, da un’efficacia vincolante sia per il giudice a quo che per tutti gli altri giudici comuni, se non nello stretto limite negativo del divieto di applicazione della disposizione nel significato interpretativo ritenuto non conforme al parametro costituzionale evocato e scrutinato dalla Corte costituzionale, a meno di non ritenere l’interpretazione rifiutata da quest’ultima come l’unica corretta o possibile e dunque sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale, eventualmente evocando anche parametri costituzionali diversi da quello precedentemente indicato e scrutinato (Cass. Sez. Un. 16 dicembre 2013, n. 27986). Come sopra anticipato, l’applicazione della norma sulla base di un’interpretazione che il giudice delle leggi ha considerato costituzionalmente viziata non corrisponde a creazione ex novo di una norma e dunque non può configurare il denunciato vizio di eccesso di potere giurisdizionale, sia nei confronti del legislatore, perché è applicazione di una disposizione ancora esistente nell’ordinamento, sia nei confronti del giudice costituzionale, perché la violazione del divieto di applicazione della disposizione nel significato interpretativo ritenuto non conforme resta sul piano della violazione del diritto vigente, comprensivo della sua componente costituzionale, ma non è esercizio di giurisdizione costituzionale.
A fortiori, alla medesima conclusione di inconfigurabilità dell’eccesso di potere giurisdizionale deve pervenirsi quando, in presenza di semplice sentenza costituzionale di rigetto, come nel caso di specie, sia denunciato un contrasto in ordine alla disposizione applicata fra l’interpretazione del giudice costituzionale e quella del giudice comune. L’intera problematica resta sul piano dell’interpretazione ed applicazione del diritto vigente. Sul punto della prima censura contenuta nei due motivi va in conclusione enunciato il seguente principio di diritto: “l’applicazione da parte del giudice comune di una disposizione sulla base di un’interpretazione che la Corte costituzionale ha considerato con sentenza interpretativa di rigetto non conforme a Costituzione non configura eccesso di potere giurisdizionale, sia nei confronti della funzione legislativa, perché è applicazione di una disposizione ancora esistente nell’ordinamento e non creazione ex novo di norma, sia nei confronti della giurisdizione costituzionale, perché la violazione del divieto di applicazione della disposizione nel significato interpretativo ritenuto non conforme a Costituzione resta sul piano della violazione del diritto vigente, il quale deve essere applicato in conformità alla Costituzione, ma non è esercizio di giurisdizione costituzionale”.
Passando alla seconda censura contenuta nei due motivi, come affermato da queste Sezioni Unite «soltanto il fraintendimento della disposizione, quale abnorme percezione dell’enunciato linguistico, frutto di una “lettura” della disposizione normativa che prescinde dagli strumenti interpretativi rivolti a farne emergere il significato, si traduce nella creazione di una norma giuridica inesistente» (Cass. Sez. Un. 11 aprile 2023, n. 9659). In relazione al primo motivo, il fraintendimento linguistico attingerebbe l’art. 1, comma 5, l. n. 239 del 2004, il quale prevede che «le regioni, gli enti pubblici territoriali e gli enti locali territorialmente interessati dalla localizzazione di nuove infrastrutture energetiche ovvero dal potenziamento o trasformazione di infrastrutture esistenti hanno diritto di stipulare accordi con i soggetti proponenti che individuino misure di compensazione e riequilibrio ambientale, coerenti con gli obiettivi generali di politica energetica nazionale, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387». Ha affermato il Consiglio di Stato che «non v'è ragione per sostenere che nel quadro normativo previgente fosse indispensabile, già all'interno dell'accordo, specificare le modalità di reinvestimento a beneficio pubblico delle somme incassate». Secondo le ricorrenti la mancata indicazione nell’accordo della misura di compensazione e riequilibrio ambientale determina la nullità del patto. Si tratta chiaramente di una conseguenza ermeneutica che trae l’interprete dalla lettura della disposizione, ma non vi è in quest’ultima un inequivoco elemento linguistico che enunci la nullità per mancanza della detta indicazione. In relazione al secondo motivo, viene in rilievo il testo dell'art. 1, comma 953, l. n. 145 del 2018, il quale prevede che:
«ferma restando la natura giuridica di libera attività d'impresa dell'attività di produzione, importazione, esportazione, acquisto e vendita di energia elettrica, i proventi economici liberamente pattuiti dagli operatori del settore con gli enti locali, nel cui territorio insistono impianti alimentati da fonti rinnovabili, sulla base di accordi bilaterali sottoscritti prima del 3 ottobre 2010, data di entrata in vigore delle linee guida nazionali in materia, restano acquisiti nei bilanci degli enti locali, mantenendo detti accordi piena efficacia. Dalla data di entrata in vigore della presente legge, fatta salva la libertà negoziale delle parti, gli accordi medesimi sono rivisti alla luce del decreto del Ministro dello sviluppo economico 10 settembre 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 219 del 18 settembre 2010, e segnatamente dei criteri contenuti nell'allegato 2 al medesimo decreto. Gli importi già erogati e da erogare in favore degli enti locali concorrono alla formazione del reddito d'impresa del titolare dell'impianto alimentato da fonti rinnovabili». Il Consiglio di Stato ha interpretato la disposizione nel senso che la preventiva acquisizione nei bilanci degli enti locali dei proventi economici pattuiti non è condizione di efficacia degli accordi. Anche in tal caso si tratta del risultato interpretativo della disposizione senza che emerga una questione di fraintendimento linguistico perché in nessuna parte la lettera dell’enunciato è nel senso contrario a quanto affermato dal giudice amministrativo. Il secondo motivo è inammissibile. Vi è eccesso di potere giurisdizionale per c.d. arretramento quando il giudice speciale neghi la propria giurisdizione sull'erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (fra le tante Cass. Sez. Un. 11 novembre 2019, n. 29082; 15 aprile 2020, n. 7839). Nel caso di specie il diniego di giurisdizione non risulta denunciato sulla base di una ritenuta estraneità in astratto della materia alla sfera giurisdizionale, ma perché il giudice speciale avrebbe considerato che i profili di contrasto con il diritto eurounitario sarebbero già stati valutati dalla Corte costituzionale. Si tratta all’evidenza di un giudizio non sindacabile da queste Sezioni Unite in quanto avente ad oggetto soltanto l’estensione dello scrutinio svolto dal giudice costituzionale e non avendo quindi implicazioni sul piano astratto dei limiti esterni della giurisdizione. Quanto alla invocata disapplicazione da parte di questa Corte, o all’ordine da disporre al Consiglio di Stato in sede di rinvio di disapplicazione dell’art. 1, c. 5, della l. n. 239 del 2004, previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione Europea, si tratta chiaramente di pronuncia che esula dai limiti segnati dall’ultimo comma dell’art. 111 Cost.. Né può questa Corte disporre il rinvio pregiudiziale perché la pronuncia da parte della Corte di giustizia sarebbe funzionale a disvelare eventuali errori in cui il Consiglio di Stato possa essere incorso nell'interpretazione e applicazione di disposizioni sostanziali di diritto interno in rapporto al diritto dell'Unione, ma tali errori non sarebbero scrutinabili da queste Sezioni Unite, non attenendo a motivi di giurisdizione e non potendo quindi condurre in nessun caso alla cassazione dell'impugnata sentenza ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost. (Cass. Sez. Un. 27 maggio 2022, n. 1733; 18 gennaio 2022, n. 1454).
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Poiché il ricorso viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 - quater all'art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dei presupposti processuali dell'obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna le ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il giorno 20 giugno 2023