Giu Il debitore ammesso al concordato preventivo omologato che si dimostri insolvente nel pagamento dei debiti concordatari può essere dichiarato fallito anche prima della risoluzione del concordato
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE - SENTENZA 14 febbraio 2022 N. 4696
Massima
Nella disciplina della legge fallimentare risultante dalle modificazioni apportate dal d.lgs. n. 5/2006 e dal d.lgs. 169/2007, il debitore ammesso al concordato preventivo omologato che si dimostri insolvente nel pagamento dei debiti concordatari può essere dichiarato fallito, su istanza dei creditori, del PM o sua propria, anche prima ed indipendentemente dalla risoluzione del concordato ex art. 186 l. fall.

Casus Decisus
1. Il Fallimento A. s.p.a., in persona del curatore, ha proposto due motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 394/2016, comunicata il 16 dicembre 2016, con la quale la Corte di appello di Campobasso, in accoglimento del reclamo proposto ex art. 18 l. fall. dalla società debitrice - già ammessa a procedura di concordato preventivo in continuità aziendale, omologato nel 2013 - ha revocato la sentenza n. 12/2016 con cui il Tribunale di Campobasso ne aveva dichiarato, su istanza del Pubblico Ministero, il fallimento. Ha in particolare osservato la Corte di appello che: - il Tribunale aveva ritenuto che la società si trovasse in stato di insolvenza a seguito dell'incapacità di far fronte alle obbligazioni derivanti dal concordato preventivo omologato (a sua volta derivante dall'evidente incapienza dell'attivo concordatario realizzato e realizzabile), senza tuttavia porsi il problema della necessità della preliminare risoluzione del concordato in corso di esecuzione, così come prevista dall'art. 186 l. fall.; - diversamente da quanto accadeva nell'assetto normativo precedente al d.lgs. 5/2006 ed al d.lgs. 169/2007 - allorquando il concordato preventivo inadempiuto doveva essere dichiarato risolto dal Tribunale d'ufficio o su iniziativa del commissario giudiziale ex art. 137, richiamato dall'art. 186 l. fall. - nella disciplina successiva, qui applicabile, il concordato preventivo inadempiuto non poteva essere risolto se non su iniziativa dei creditori e, senza previa risoluzione, non poteva essere dichiarato direttamente il fallimento del debitore in applicazione dei presupposti generali di cui agli artt. 5 e 6 l. fall.; - ammettere la possibilità di dichiarazione di fallimento senza previa risoluzione del concordato preventivo omologato comportava la sostanziale elusione (su istanza di un creditore o, come nella specie, del Pubblico Ministero) degli effetti negoziali di quest'ultima procedura, così come prodottisi all'esito di una decisione maggioritaria e vincolante per l'intero ceto creditorio; - in questo senso doveva intendersi quanto stabilito dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 9935/2015, secondo cui "l'omologazione del concordato rende improcedibili le istanze di fallimento già presentate e rimuove lo stato di insolvenza, rendendo possibile la presentazione di nuove istanze solo per fatti sopravvenuti o per la risoluzione o l'annullamento del concordato", mentre nessun elemento di segno contrario poteva trarsi dalla sentenza della Corte costituzionale n. 106/2004, in quanto emanata prima della riforma normativa, appunto allorquando era previsto che il concordato dovesse essere dichiarato risolto dal Tribunale ancor prima (come sarebbe stato poi stabilito) che su ricorso dei creditori; - esito diverso la controversia avrebbe potuto sortire qualora la curatela avesse dato prova (il che non era avvenuto) della chiusura della fase esecutiva del concordato e della dichiarazione, da parte del giudice delegato, dell'impossibilità del suo regolare adempimento.

Testo della sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE - SENTENZA 14 febbraio 2022 N. 4696 Curzio

2.1. Con il primo motivo di ricorso il Fallimento deduce - ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. - violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 186 r.d. 267/1942, per non avere la Corte di appello considerato che:

- nella specie il concordato omologato prevedeva la continuità dell'attività aziendale attraverso la liquidazione (funzionale tanto al pagamento della quota debitoria concordataria quanto alla protrazione della produzione) di assets non strategici (i marchi "Surgelati A." ed "A. Surgelati", il cui valore di realizzo era stato stimato in euro 3.650.000,00), la realizzazione di crediti (per complessivi euro 2.228.582,00) ed un aumento di capitale, ma - come testualmente osservato dal Tribunale nella sentenza dichiarativa - "l'attività aziendale non è mai ripresa, il capitale sociale non è stato aumentato e l'attivo realizzato ed effettivamente realizzabile è risultato notevolmente inferiore alle previsioni e tale da non consentire la regolare esecuzione del piano concordatario";

- né l'art. 5 né l'art. 186 l. fall. (quest'ultimo concernente la sola individuazione dei creditori come soggetti legittimati a chiedere la risoluzione del concordato inadempiuto, oltre che del termine per la presentazione della relativa istanza) subordinavano la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore commerciale insolvente che si trovasse in concordato preventivo omologato (allorquando lo stato di insolvenza si manifestasse, come nel caso concreto, successivamente alla omologazione) alla previa risoluzione del concordato stesso;

- questa conclusione trovava conferma, sul piano sistematico, nella inammissibilità di limitazioni al diritto di azione non espressamente previste dalla legge e, in tal senso, deponeva la sentenza delle Sezioni unite citata dalla stessa Corte di appello la quale, da un lato, regolava la diversa ipotesi della improcedibilità delle istanze di fallimento già presentate al momento della omologazione e, dall'altro, ammetteva appunto la presentazione di nuove istanze di fallimento, oltre che per la risoluzione o l'annullamento del concordato, anche per fatti sopravvenuti all'omologazione;

- per quanto la citata sentenza della Corte costituzionale n. 106 del 2004 fosse intervenuta prima della riforma della legge fallimentare, il principio da essa espresso - secondo cui la subordinazione della dichiarazione di fallimento, per obbligazioni anteriori al concordato, alla previa risoluzione di quest'ultimo non risultava affatto imposta dall'ordinamento né, in particolare, dalla obbligatorietà del concordato per tutti i creditori anteriori - doveva ritenersi del tutto pertinente anche alla luce delle modificazioni introdotte all'art. 186 l. fall. dal d.lgs. 169/2007.

2.2. Con il secondo motivo di ricorso il Fallimento deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 185 l. fall., nella parte in cui la Corte di appello aveva rilevato il difetto di prova, da parte della curatela, della chiusura della fase esecutiva del concordato e dell'avvenuta dichiarazione, da parte del giudice delegato, dell'impossibilità della regolare esecuzione del concordato stesso.

Ciò perché:

- né l'art. 185 l. fall. né altra norma della legge fallimentare attribuivano al giudice delegato il potere-dovere di dichiarare l'impossibilità della regolare esecuzione del concordato, ovvero di emettere un provvedimento dichiarativo dell'ultimazione o della impossibile esecuzione del concordato, residuando unicamente - dopo l'omologazione - un compito di mera sorveglianza in capo al commissario giudiziale, con l'obbligo di riferire al giudice delegato dell'adempimento del concordato e di eventuali fatti pregiudizievoli per i creditori;

- in ogni caso, quand'anche il giudice delegato avesse, per legge, il potere di adottare un simile provvedimento, la sua mancanza non avrebbe comunque potuto inibire la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore insolvente, indipendentemente dalla mancata risoluzione del concordato preventivo al quale fosse stato ammesso.

3. La società debitrice ha depositato controricorso, con il quale deduce che:

- il Tribunale di Campobasso aveva dichiarato il fallimento per un'insolvenza riferibile, non a nuovi debiti assunti nella continuazione dell'attività produttiva (pacificamente non verificatasi), ma alle obbligazioni antecedenti al concordato preventivo e, dunque, ad un'insolvenza che trovava definitiva regolazione (salvo l'annullamento o, appunto, la risoluzione del concordato ad iniziativa dei creditori) nel piano concordatario omologato, avente effetto vincolante erga omnes;

- dopo l'omologazione il debitore era tenuto pur sempre ad adempiere gli stessi debiti pre-concordatari, seppure con le modalità stabilite nella proposta omologata, non rientrando tra gli effetti del concordato anche quello della novazione delle obbligazioni pregresse, sicché "una stessa crisi non può essere regolata da due diverse procedure, senza previa rimozione, per risoluzione e/o annullamento, di quella preventivamente adita";

- solo attraverso la modalità e nei termini decadenziali della risoluzione i creditori (e soltanto costoro) erano ammessi a valutare la convenienza dell'alternativa tra il mantenimento della procedura concordataria (anch'essa liquidatoria ed oggi di rafforzata natura privatistica) e le prospettive di una, normalmente più onerosa, liquidazione fallimentare;

- corretta doveva ritenersi l'applicazione da parte della Corte d'appello dei principi desumibili sia da Cass., Sez. un., n. 9935/2015, sia dalla sentenza (di rigetto) della Corte costituzionale n. 106/2004, il cui ragionamento non poteva essere esteso alla disciplina riformata;

- inammissibile era il secondo motivo di ricorso per cassazione del Fallimento, in quanto rivolto ad un'affermazione della Corte di appello (sulla mancata attestazione da parte del GD dell'impossibilità di eseguire il concordato) che aveva natura non di ratio decidendi, ma di mero obiter dictum, perché sostanzialmente irrilevante al fine di sostenere ed argomentare la decisione.

4. Assegnato il ricorso a decisione, è intervenuta l'ordinanza interlocutoria n. 8919 del 31 marzo 2021, con la quale la Prima sezione civile della Corte di cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente, ex art. 374, comma 2, c.p.c., per l'eventuale assegnazione alle Sezioni unite "della questione dell'ammissibilità dell'istanza di fallimento ex artt. 6 e 7 l. fall. nei confronti di impresa già ammessa al concordato preventivo poi omologato, a prescindere dell'intervenuta risoluzione del concordato, quale questione di massima di particolare importanza".

Osservano i giudici rimettenti che:

- il problema in esame, in realtà, è già stato affrontato e risolto dalla Corte di cassazione con due ordinanze della Sesta sezione (Cass. nn. 17703/2017 e 29632/2017) nelle quali si è affermato che, venuto a cadere, con la riforma dell'art. 186 l. fall. da parte del d.lgs. 169/2007, ogni automatismo tra risoluzione del concordato e dichiarazione di fallimento, quest'ultima può intervenire anche a prescindere dalla previa adozione della prima, quantomeno nei casi in cui il creditore istante faccia valere il credito non nella misura originaria, ma in quella falcidiata con la proposta concordataria omologata ineseguita; il debitore, si è ritenuto, continua infatti ad essere obbligato all'adempimento del concordato anche una volta scaduto il termine per la sua risoluzione (o rigettata la relativa domanda) così da determinarsi, in caso di inadempimento, un "fatto sopravvenuto" autonomamente rilevante (Cass., Sez. un., n. 9935/2015), ovvero uno "scenario comune" di fallibilità su istanza non solo dei creditori concorsuali (come detto, per la misura falcidiata), ma anche del pubblico ministero, dello stesso debitore ed, eventualmente, anche di creditori nuovi (nel qual caso il credito inadempiuto non può che rilevare per l'intero);

- altri precedenti di legittimità (Cass., nn. 26002/2018; 12085/2020), pur non occupandosi specificamente del problema in esame quanto della operatività dell'effetto esdebitatorio dell'omologazione del concordato preventivo, ex art. 184 l. fall., in caso di sopravvenuta dichiarazione di fallimento, hanno tuttavia dato per presupposto (con l'eccezione di Cass., n. 13850/2019) che quest'ultima possa avvenire senza la preliminare risoluzione del concordato omologato;

- questo indirizzo, per quanto costante, non trova però piena condivisione in parte autorevole della dottrina, secondo la quale la possibilità di fallimento omisso medio troverebbe invece ostacolo nella specialità della disciplina concordataria (segnatamente dell'art. 186 l. fall.) rispetto alla regola generale ex art. 6 l. fall.; nella configurabilità, a seguito dell'esdebitazione prodotta dalla omologazione e del ritorno in bonis del debitore, di una "nuova" insolvenza solo relativamente ad obbligazioni contratte dopo l'omologazione stessa e rimaste inadempiute; nella ininfluenza di quanto stabilito dalla citata sentenza della Corte costituzionale n. 106/2004, in quanto resa nella vigenza di un sistema del tutto diverso, perché contemplante sia il fallimento sia la risoluzione d'ufficio del concordato; nella incompatibilità di un concordato preventivo "convertito" in fallimento con le finalità perseguite con lo strumento concordatario, secondo la ricostruzione che ne viene data dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalenti;

- il quadro interpretativo rimarrebbe dunque controverso ed ampiamente discutibile, restando in particolare irrisolti vari profili la cui disamina potrebbe indurre ad una soluzione del problema opposta rispetto a quella fin qui recepita dalla giurisprudenza di legittimità, dovendosi in particolare verificare se l'affermata possibilità di dichiarare il fallimento senza prima risolvere il concordato: non implichi elusione dei diversi presupposti della risoluzione stessa (quanto ad inadempimento di non scarsa importanza e rispetto del termine annuale di decadenza); risulti compatibile con un sistema normativo che prevede la possibilità di dichiarazione di fallimento nel concordato preventivo solo al verificarsi di determinati eventi (artt. 162, 173, 179, 180 l. fall.), originanti un fallimento in consecuzione e non autonomo; risponda al principio generale (già richiamato da Cass., Sez. un., nn. 9935 e 9936/2015 cit.) di necessario coordinamento tra procedure concorsuali relative ad una medesima insolvenza, con preferenza per la soluzione concordataria, anche in considerazione del fatto che il fallimento verrebbe così ad essere precluso dalla mera presentazione della domanda di ammissione alla procedura concordataria, non anche a fronte di un concordato già ammesso ed omologato; non contravvenga alla obbligatoria vincolatività del concordato per i creditori anteriori ex art. 184 l. fall., previsione costituente, come già affermato dalla Corte di cassazione (n. 13850/2019), "proiezione concorsuale del principio civilistico di cui all'articolo 1372 codice civile"; possa legittimamente determinare la coesistenza di due procedure con due distinte masse, quella concordataria originaria e quella fallimentare successiva, eventualmente inclusiva anche di beni non considerati nella proposta concordataria;

- ulteriore elemento interpretativo a sostegno della soluzione preclusiva della dichiarazione di fallimento in assenza di previa risoluzione dovrebbe poi evincersi dall'inserimento nell'art. 119 del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, da parte del d.lgs. 147/2020, del settimo comma, secondo il quale "il Tribunale dichiara aperta la liquidazione giudiziale solo a seguito della risoluzione del concordato, salvo che lo stato di insolvenza consegua a debiti sorti successivamente al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo"; disposizione, quest'ultima, la cui attuale inapplicabilità non ne escluderebbe la rilevanza ermeneutica (Cass., Sez. un., n. 12476/2020) sul presupposto della sostanziale continuità della disciplina normativa circa i requisiti della risoluzione del concordato nel sistema vigente e quelli di cui al "futuro" art. 119 c.c.i.i. (la cui unica innovazione, sul punto, è costituita dalla legittimazione alla richiesta di risoluzione anche in capo al commissario giudiziale);

- la questione da devolvere alle Sezioni unite involgerebbe infine un ulteriore approfondimento circa la "possibilità di fallimento solo per un'insolvenza nuova rispetto al momento dell'omologazione del concordato ovvero anche per l'inadempimento alle obbligazioni discendenti dall'esecuzione dello stesso concordato omologato e, in caso di ammissibilità del fallimento in tale ipotesi, della possibilità di un eventuale fallimento dell'impresa ammessa al concordato omologato anche prima dello spirare del termine annuale di cui al terzo comma dell'articolo 186 l. fall.".

5. Il Pubblico Ministero istante non ha svolto attività difensiva nel presente giudizio.

Il Procuratore Generale, in sede di conclusioni scritte e di discussione orale, ha chiesto l'accoglimento del ricorso, osservando che:

- nessun utile elemento interpretativo può trarsi dalla modifica da ultimo apportata all'art. 119 c.c.i.i., vista la notevole innovatività, rispetto al passato, della disciplina ivi contenuta;

- lo stato di insolvenza del debitore in concordato preventivo può manifestarsi anche con riguardo ai debiti antecedenti all'omologa, ed anche per la sola porzione offerta in pagamento;

- irrazionale deve ritenersi una soluzione che, in assenza di una univoca disposizione di legge, sottragga alle conseguenze proprie del fallimento (di rilevanza anche pubblicistica) un imprenditore commerciale insolvente, visti anche i limiti che assisterebbero eventuali azioni esecutive individuali da parte dei creditori;

- la necessità di previa chiusura della procedura concordataria convertita in fallimento (artt. 162, 173, 180 l. fall.) più non sussiste nei casi in cui la proposta concordataria, intervenuta l'omologa, non risulti comunque più eseguibile;

- la prospettiva, in assenza di risoluzione, di un'inutile onerosità della procedura fallimentare successiva, così come l'esigenza di coordinare due distinte masse patrimoniali (una limitata ai beni inizialmente segregati per attuare il concordato ed un'altra comprensiva dei restanti beni del debitore), non costituiscono validi argomenti a sostegno dell'opposta tesi.

Il Fallimento ricorrente ha depositato memoria.

6.1. Non ci sono valide e convincenti ragioni per disattendere l'indirizzo interpretativo in varie occasioni, e senza contrasto, in materia stabilito da questa Corte (Cass., nn. 17703/2017 e 29632/2017, ma anche Cass., nn. 26002/2018 e 12085/2020, tutte già citate).

La tesi secondo cui la fallibilità sarebbe preclusa senza la previa risoluzione del concordato omologato, sostenuta da parte autorevole della dottrina, muove da un assunto sostanziale di questo tipo: l'effetto esdebitatorio generale e vincolante per tutti i creditori anteriori, proprio del concordato preventivo omologato, elimina l'insolvenza pre-concordataria e determina il ritorno in bonis del debitore, con la conseguenza che questa stessa insolvenza non può dar luogo ad un fallimento successivo se non dopo che, appunto nei modi e nei tempi della risoluzione, quell'effetto sia stato eliminato. Sul piano formale, questa idea trova radice nel fatto che le procedure concorsuali riguardanti la stessa insolvenza si pongono tra loro in una relazione che non è mai di sovrapposizione ed interferenza, ma sempre e solo di consecuzione; in modo tale che la dichiarazione di fallimento non preceduta dalla previa eliminazione del concordato attraverso la sua risoluzione verrebbe ad inammissibilmente rompere questa sequenza ordinata (o "ipotattica" come qualche volta si legge) di atti e procedure intrinseca al sistema.

Non si tratta di argomenti dirimenti.

La tesi in esame introduce nell'ordinamento una vistosa deroga alla regola generale di fallibilità dell'imprenditore commerciale insolvente ex artt. 1 e 5 l. fall., e ciò in forza di una interpretazione priva di riscontro nella lettera della legge e solo apparentemente sistematica.

Prima della modificazione apportata dal d.lgs. 169/2007, l'art. 186 l. fall. stabiliva una connessione necessaria tra il venir meno degli effetti del concordato preventivo ed il fallimento, nel senso che quest'ultimo veniva senz'altro dichiarato d'ufficio dal Tribunale "con la sentenza che risolve o annulla il concordato". Con la riforma - vista l'abolizione in generale della fallibilità d'ufficio e la non più perfetta coincidenza tra lo stato di crisi che costituisce il presupposto oggettivo del concordato preventivo e quello di insolvenza che legittima il fallimento - questo automatismo è però stato eliminato, con l'effetto che, nella previsione di legge, risoluzione del concordato preventivo e fallimento costituiscono adesso istituti ed eventi del tutto autonomi, distinti ed anche operativamente tra loro slegati. E non è un caso che lo stesso automatismo espunto per la dichiarazione di fallimento a seguito di concordato preventivo continui invece a sussistere per la riapertura del fallimento nel concordato risolto ex art. 137 l. fall.; disposizione, questa, richiamata in effetti dall'art. 186, ultimo comma, ma con limite di compatibilità.

Quanto sul punto affermato dal giudice delle leggi sotto il vigore del regime di automatismo (Corte cost., sent. 106/2004, cit.), lungi da essere reso inattuale dalle modifiche succedutesi, risulta a tutt'oggi di perdurante e - se mai - rafforzata persuasività.

Il caso che aveva originato la rimessione alla Corte costituzionale (per sospetto contrasto degli artt. 137, 184 e 186 l. fall. con gli artt. 3, 24 e 41 Cost.) era quello di un creditore anteriore al quale veniva precluso di instare per il fallimento del debitore ammesso al concordato preventivo, nonostante che egli non fosse stato avvisato della proposta concordataria, né inserito nell'elenco dei creditori. Il giudice remittente dubitava, in particolare, della compatibilità costituzionale di un sistema, incentrato sull'art. 186 l. fall. all'epoca vigente, in base al quale, "trascorso il temine per la risoluzione, è preclusa la dichiarazione di fallimento ed i creditori possono agire solo per la percentuale concordataria, ma il debitore non è più assoggettabile a fallimento, a meno che lo stesso non abbia intrapreso una nuova attività imprenditoriale".

La Corte costituzionale - con una sentenza interpretativa di rigetto - ha però fugato questi dubbi, osservando che:

- l'obbligatorietà del concordato omologato può venire meno solo a seguito della risoluzione o dell'annullamento, con dichiarazione «che retroagisce al momento del decreto di apertura della procedura di concordato, e che determina, ovviamente, l'ammissione al passivo dei crediti anteriori per l'intero loro ammontare e non già nella misura "falcidiata" dal concordato»;

- la tesi della preclusione del fallimento in assenza di risoluzione non è affatto imposta dalla legge, ma «è frutto di una interpretazione che privilegia un - rispettabile ma opinabile - profilo sistematico, secondo il quale il concordato (se non risolto o annullato) cancellerebbe definitivamente "quella" insolvenza in ragione della quale fu ammesso ed omologato e, pertanto, impedirebbe di attribuire successivamente rilevanza, ai fini di cui all'art. 5 legge fall., ai debiti esistenti al momento dell'apertura della procedura»;

- spetta in ogni caso al giudice di adottare una interpretazione conforme a Costituzione «in luogo di quella "sistematica" che egli ritiene confliggente con le evocate norme costituzionali», in maniera tale che, «ferma l'obbligatorietà della falcidia concordataria sui crediti anteriori, dovrebbe verificare se l'inadempimento di tali crediti, da parte di soggetto qualificabile come imprenditore commerciale, era tale da potersi definire come insolvenza, ai sensi dell'art. 5 legge fall., e trarne le conseguenze di legge in ordine alla legittimità della sentenza dichiarativa di fallimento».

Dunque la circostanza che la risoluzione comportasse il fallimento non escludeva che quest'ultimo potesse essere dichiarato anche indipendentemente dalla prima e, anzi, solo su questa premessa poteva reggersi il giudizio di compatibilità costituzionale delle norme denunciate.

Si tratta di affermazioni assai chiare che, al di là della peculiarità del caso (creditore pretermesso) così come dell'avvicendarsi delle riforme normative, riportano il problema sul terreno suo proprio, che è quello della regola generale di fallibilità dell'imprenditore commerciale insolvente e della diversa finalizzazione dei due istituti (come detto, oggi addirittura rinsaldata); soprattutto, esse pongono con forza in evidenza come l'insolvenza ("quella" insolvenza) possa persistere ex art. 5 l. fall., pur dopo l'omologa, anche con riguardo alla parte falcidiata ma inadempiuta dei crediti, e come la risoluzione operi non quale condizione di fallibilità, quanto soltanto al diverso fine della rimozione dell'obbligatorietà del concordato e, dunque, allo scopo di restituire al creditore anteriore la libertà di agire senza limiti concordatari, e per l'intero.

Questa impostazione, come detto, resta attuale e pone in crisi l'argomento secondo cui la preclusione del fallimento in assenza di risoluzione andrebbe sostenuta in ragione della specialità - rispetto agli artt. 1, 5, 6 e 7 l. fall. - dell'art. 186, la cui portata starebbe proprio nel non consentire modalità di esautoramento del concordato omologato diverse ed ulteriori rispetto alla risoluzione (o all'annullamento).

Si tratta di affermazione che dà per scontato ciò che si dovrebbe invece dimostrare e che, appunto, non tiene conto del fatto che una cosa è il superamento dell'obbligatorietà del concordato e dei vincoli che da esso discendono ex artt. 184 l. fall. e 1372 c.c., e tutt'altra è la configurabilità di un'insolvenza in relazione anche soltanto al fabbisogno concordatario così come risultante anche prima ed indipendentemente dalla risoluzione.

La risoluzione, nel sistema oggi vigente, costituisce un rimedio prettamente contrattuale (anch'esso rapportato, ex art. 1455 c.c., ad un inadempimento di certa importanza) innestato nel concordato al fine di eliminarne gli effetti dilatori e rimessori, oltre che segregativi.

Il che equivale a dire che, riguardando un istituto diverso da quelli di generale fallibilità, l'art. 186 non si pone affatto in rapporto di specialità con le norme che presiedono a questi ultimi; ma se l'art. 186 ha un diverso oggetto e non è norma speciale incidente sullo statuto di fallibilità, neppure hanno ragion d'essere le preoccupazioni di elusività o aggiramento dei presupposti e modi della risoluzione quanto a legittimazione dei soli creditori, a necessità di un accertamento giudiziale sulla non scarsa importanza dell'inadempimento, a rispetto del termine annuale dalla scadenza dell'ultimo adempimento concordatario.

Altro è a dire che tra risoluzione e fallimento esistano comunque imprescindibili correlazioni, ma questo sul piano - non della preclusione - ma dell'entità (influenzata o no dal rispetto degli obblighi rimodulati) del credito insinuabile e, prima ancora, della misura dell'insolvenza rilevante.

Ciò nel senso che: «I) qualora il fallimento sia stato dichiarato quando è ancora possibile instare per la risoluzione ex art. 186 l. fall. della procedura concordataria, i creditori non sono tenuti a sopportare gli effetti esdebitatori e definitivi del concordato omologato, a norma dell'art. 184 l. fall., posto che l'attuazione del piano è resa impossibile per l'intervento di un evento come il fallimento che, sovrapponendosi al concordato medesimo, inevitabilmente lo rende irrealizzabile; II) qualora invece sia scaduto il termine per la risoluzione del concordato di cui all'art. 186, comma 3, l. fall. (...) ed il piano concordatario si sia dunque consolidato, senza che i creditori (pur potendo) si siano attivati per chiedere la risoluzione, il debitore continua ad essere obbligato al suo adempimento e i creditori (anche nuovi) e il P.M. possono promuovere le iniziative dirette a fare accertare l'insolvenza del debitore "nella citata misura falcidiata"» (così Cass., nn. 26002/2018; 12085/2020, cit.).

Certamente suggestivo è l'argomento secondo cui la natura prevalentemente privatistica e negoziale oggi attribuibile (ancor più che in passato) al concordato preventivo deporrebbe per la necessità della previa risoluzione, dovendosi altrimenti mettere in conto che la volontà dei creditori - ai quali spettano ruoli nevralgici nella valutazione di convenienza e fattibilità economica del piano, nelle dichiarazioni di voto e nelle opposizioni all'omologa - possa risultare eterodiretta ed anzi essere posta nel nulla nel momento in cui il PM, lo stesso debitore o anche un creditore di minoranza agissero per il successivo fallimento per saltum, cioè senza prima passare dal vaglio giudiziale dei presupposti di risolubilità ex art. 186 l. fall.

Se è vero che le riforme degli anni duemila hanno accentuato il carattere disponibile dell'istituto determinando con ciò un ridimensionamento dei suoi connotati pubblicistici ed un certo arretramento del controllo giurisdizionale, altrettanto indubbio è che la prevalenza dell'elemento negoziale non può non risultare cedevole ogniqualvolta risulti - anche senza necessità di accertamento giudiziale dei presupposti della risoluzione - che il concordato omologato non è attuabile perché il debitore non lo può adempiere, ed anzi si trova in una situazione in tutto assimilabile a quella di insolvenza. Nel qual caso devono riprendere forza nella loro interezza le ragioni di tutela pubblicistica proprie del fallimento.

Non sfugge poi - e proprio in una concezione di massima negozialità - che lo stato di insolvenza eventualmente radicato e riscontrabile nell'inadempimento di uno o più contratti, in via generale, determina il fallimento senza mai richiedere né presupporre che quei contratti vengano prima formalmente risolti.

6.2. Nel 2015 queste Sezioni unite si sono già occupate (sentenze gemelle nn. 9935 e 9936) dei due snodi fondamentali del problema costituiti, come si è detto, dalla rimozione dell'insolvenza per effetto dell'omologa e dalla necessaria consecutività delle procedure concordataria e fallimentare.

In quella sede le Sezioni unite hanno affermato che la pendenza di una domanda di concordato preventivo "impedisce temporaneamente la dichiarazione di fallimento sino al verificarsi degli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall. (...)" e che, in pendenza di una procedura concordataria, "il fallimento dell'imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del P.M., può essere dichiarato soltanto quando ricorrono gli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall. e cioè, rispettivamente, quando la domanda di concordato sia stata dichiarata inammissibile, quando sia stata revocata l'ammissione alla procedura, quando la proposta di concordato non sia stata approvata e quando, all'esito del giudizio di omologazione, sia stato respinto il concordato (...)".

Per quanto qui più conta, si è in particolare affermato che tra la procedura concordataria e quella fallimentare deve sussistere un coordinamento (c.d. asimmetrico) volto ad attribuire preminenza allo scopo preventivo ed alternativo della prima, anche indipendentemente dalla priorità temporale di presentazione delle relative istanze (principio di prevenzione).

Quindi:

- durante la pendenza di una procedura di concordato, il fallimento è precluso, salvo che nei casi tassativamente previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall., intendendosi per "pendenza" indifferentemente "le fasi di ammissione, di approvazione o di omologazione";

- la necessità di un previo esame della domanda di concordato preventivo corrisponde sia al favor per la procedura concordataria (accentuato dalla riforma), sia a quanto richiesto dalla Commissione europea con la raccomandazione del 12 marzo 2014 circa l'opportunità che gli Stati membri prevedano, allo scopo di facilitare i negoziati sui piani di ristrutturazione, la sospensione delle domande di insolvenza presentate dopo la proposta di concordato, così da evitare che la possibilità di regolare l'insolvenza attraverso un accordo tra debitore e maggioranza dei creditori venga meno per la presentazione di una istanza di fallimento; sicché "non solo è necessario un coordinamento tra le procedure, ma è anche necessario che tale coordinamento avvenga assicurando il previo esaurimento della procedura di concordato preventivo";

- la dichiarazione di fallimento presuppone pertanto l'esito negativo della procedura di concordato e non consente la presentazione di ulteriori domande di concordato preventivo, mentre "l'omologazione del concordato rende improcedibili le istanze di fallimento già presentate e rimuove lo stato di insolvenza, rendendo possibile la presentazione di nuove istanze solo per fatti sopravvenuti o per la risoluzione o l'annullamento del concordato".

Ebbene, non può dirsi che la tesi del "fallimento senza risoluzione" si ponga in contrasto con quanto così affermato.

Va intanto premesso che il problema venne dalle Sezioni unite affrontato sotto il profilo del coordinamento prettamente processuale tra domanda di concordato ed istanza di fallimento, con richiamo alla litispendenza, alla continenza, alla riunione, all'abuso del processo (domanda di concordato presentata al solo fine di procrastinare la sentenza dichiarativa di fallimento), alla non necessità di diretta ed autonoma impugnazione, oltre che di quest'ultima sentenza, anche della dichiarazione di inammissibilità della domanda di concordato preventivo; vale a dire, con richiamo ad istituti ininfluenti ai presenti fini.

Soprattutto - e questo appare dirimente - le Sezioni unite hanno questi problemi affrontato sul presupposto, come detto, della "pendenza" della procedura concordataria, fino all'avvenuta omologazione; ed il problema del coordinamento è stato risolto ammettendo in questa ipotesi il fallimento esclusivamente nei casi di cui agli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall., tutti relativi ad eventi patologici denotanti l'impossibile raggiungimento della finalità preventiva, e che sono dal legislatore colti nel loro verificarsi fino al momento dell'omologazione (non-omologazione), non oltre.

Al contrario, il rapporto tra risoluzione e fallimento muove dal diverso contesto della post-omologazione, tenuto ben presente che, con il decreto di omologazione, la procedura di concordato preventivo - semplicemente - "si chiude" (art. 181 l. fall.); il che rende finanche inimmaginabile la necessità di un coordinamento tra procedure compresenti.

Questa considerazione consente di porre in una luce diversa anche la nozione di "rimozione" dell'insolvenza da parte dell'omologazione, pure fatta propria dalle Sezioni unite, nelle sentenze in esame, sull'implicito presupposto e nell'ottica fisiologica del regolare adempimento degli obblighi concordati, non certo della loro inottemperanza.

Anche in proposito, rileva l'evidenziata finalità prettamente processuale del coordinamento, nel senso che con l'omologazione lo stato di insolvenza viene definitivamente ed irrevocabilmente assegnato alla ristrutturazione debitoria concordata ed alle modalità satisfattive in essa contemplate.

E tuttavia questa è cosa ben diversa dal precludere la dichiarazione di fallimento ogniqualvolta queste modalità risultino - non in pendenza della procedura di concordato preventivo, ma nell'adempimento dell'accordo definitivamente raggiunto - inattuabili, così da attestare che lo stato di insolvenza persiste pur dopo la vicenda concordataria.

In modo tale che l'inadempimento di quell'accordo rientra di per sé tra quei "fatti sopravvenuti" in presenza dei quali (oltre che nei casi di risoluzione o annullamento) anche le sentenze in esame ammettono la possibilità di presentazione di nuove istanze di fallimento, essendo l'improcedibilità derivante dall'omologa riservata alle sole istanze di fallimento "già presentate".

Il che dà conto del dato di fondo per cui l'insolvenza, intesa quale fenomeno giuridico di sostrato economico, è sì rimossa dall'omologazione del concordato, ma nel duplice senso che, per effetto di questa:

- (sostanziale) l'insolvenza non rileva più nella sua manifestazione d'origine ma, eventualmente, solo in quella rinveniente dalla mancata esecuzione del patto concordatario;

- (processuale) le precedenti istanze di fallimento non possono avere corso.

In definitiva, l'avvenuta omologazione, la chiusura della procedura concordataria e l'accesso del debitore alla fase puramente esecutiva dell'accordo (anche se sotto sorveglianza ex art. 185 l. fall.) comportano l'applicazione non già delle regole di coordinamento, ma dei principi generali di responsabilità; compresa, se dall'inesecuzione dell'accordo si debbano trarre elementi di insolvenza, la dichiarazione di fallimento.

Va del resto osservato che la preclusione all'esperimento, da parte dei creditori anteriori, di azioni esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore che abbia chiesto il concordato preventivo ha effetto, a pena di nullità, dalla presentazione del ricorso e "fino al momento in cui il decreto di omologazione del concordato preventivo diventa definitivo" (art. 168 l. fall.), sicché dopo questo momento essi riacquistano piena legittimazione ad agire contro il debitore per ottenere l'esecuzione del patto. E non è dato comprendere perché non lo possano fare con tutti i mezzi consentiti dalla legge e, quindi, perché alla tutela esecutiva individuale - non necessariamente condizionata all'istanza di risoluzione - non possa in questo caso associarsi, in presenza dei relativi presupposti ed anche al fine di tutelare la par condicio nella crucialità di questa fase, quella concorsuale.

È pur vero che l'omologa fa cessare il vincolo processuale all'azione esecutiva individuale fermo però restando il limite sostanziale derivante dall'esdebitazione e dall'obbligatorietà dell'accordo per tutti i creditori anteriori; e però già si è detto che questo limite sostanziale - suscettibile di venir meno con la risoluzione o l'annullamento del concordato - non è tale da impedire che l'azione satisfattiva venga proposta nei limiti della ristrutturazione né che, sempre in questi limiti, possa manifestarsi uno stato di insolvenza.

Che, poi, l'iniziativa fallimentare possa talvolta apparire cosa inutile e diseconomica non è questione che influisca più di tanto sulla ricerca di una regola generale, dovendosi comunque anche valutare l'interesse dei creditori a bloccare l'assunzione di nuove obbligazioni da parte del debitore destinate alla prededuzione, ex art. 111 l. fall., nel fallimento successivo (Cass., n. 2656/2021 ed altre). E ciò a tacere di altre ottiche di legittimazione - svincolate da una valutazione di stretta convenienza economica - qual è quella del PM, oltre che dello stesso debitore che riconosca l'inattuabilità di quanto concordato.

Il fatto che la sola presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo precluda la dichiarazione di fallimento, mentre lo stesso effetto verrebbe negato a fronte di una proposta concordataria addirittura già omologata e non risolta, non costituisce affatto una paradossale incongruenza sistematica, dal momento che la fase ammissiva non può essere intesa come un minus procedurale rispetto a quella esecutiva; che esse hanno ruoli ed effetti del tutto diversi; che, soprattutto, il favor per il concordato e per la sua missione preventiva non può spingersi oltre l'evidenza dell'impossibilità di esecuzione della proposta concordataria omologata (questo sì darebbe luogo ad un'incongruenza paradossale). Né questa impossibilità di esecuzione si concreta in una "seconda" insolvenza, rimanendo l'insolvenza quella stessa che ha dato inizio alla procedura concordataria e che, all'esito di questa, si manifesta in forma addirittura aggravata dall'incapacità di soddisfare regolarmente le obbligazioni pur nelle più favorevoli modalità ed entità concordate. Ciò a maggior ragione in considerazione del fatto che l'omologazione non comporta di per sé novazione dell'obbligazione anteriore, quanto soltanto il diverso e più circoscritto effetto della parziale inesigibilità del credito (Cass., n. 12085/2020, cit.; v. anche Cass., n. 13477/2011).

In linea di principio, la possibilità di dichiarare il fallimento anche senza risoluzione o annullamento non subisce restrizioni in ragione della eterogeneità e sostanziale atipizzazione delle offerte concordatarie oggi consentite dall'ordinamento.

Ciò nel senso che questa varia fenomenologia può incidere - a valle - solo sul diverso aspetto della configurabilità in concreto, in capo al debitore concordatario, di uno stato di insolvenza per debiti anteriori.

Stato di insolvenza ontologicamente escluso ogniqualvolta il concordato preveda in diverse forme (remissorie, cessorie o assuntorie pure) la liberazione del debitore.

L'art. 186 l. fall., nel comma 4, esclude la risolubilità ogniqualvolta gli obblighi del concordato "siano assunti da un terzo con liberazione immediata del debitore"; nel qual caso non si dubita che, in presenza dei relativi presupposti, il fallimento possa essere chiesto nei confronti dell'assuntore il cui intervento ha comportato novazione soggettiva degli obblighi pregressi sciogliendo ogni collegamento tra i debiti su di lui gravanti e quelli che hanno prodotto l'insolvenza d'origine.

Diversamente accade in presenza di formule dilatorie, promissorie, garantite, miste o di continuità aziendale ex art. 186-bis l. fall., nel qual caso il debitore rimane obbligato agli adempimenti concordatari ed al pagamento della percentuale promessa ovvero di quella minima imposta dalla legge (come oggi stabilito, con esclusione del concordato con continuità aziendale, dall'art. 160, ultimo comma, l. fall., introdotto dal d.l. 83/2015, convertito in l. 132/2015).

6.3. Il legislatore del d.lgs. 14/2019 (Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza) ha stabilito quanto segue: "Risoluzione del concordato. 1. Ciascuno dei creditori e il commissario giudiziale, su istanza di uno o più creditori, possono richiedere la risoluzione del concordato per inadempimento. 2. Al procedimento è chiamato a partecipare l'eventuale garante. 3. Il concordato non si può risolvere se l'inadempimento ha scarsa importanza. 4. Il ricorso per la risoluzione deve proporsi entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto dal concordato. 5. Le disposizioni che precedono non si applicano quando gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti da un terzo con liberazione immediata del debitore. 6. Il procedimento è regolato ai sensi degli articoli 40 e 41. 7. Il Tribunale dichiara aperta la liquidazione giudiziale solo a seguito della risoluzione del concordato, salvo che lo stato di insolvenza consegua a debiti sorti successivamente al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo".

Quest'ultima previsione (comma 7), quella più calzante al problema in esame, è stata introdotta dal primo intervento integrativo e correttivo di cui al d.lgs. 147/2020.

È scontato che si tratti di disposizione qui non applicabile, dal momento che il codice della crisi non è ancora vigente avendo subito, come è noto, vari rinvii; d'altra parte, la disposizione in esame non potrebbe governare la presente fattispecie neppure se esso fosse - per ipotesi - già in vigore, visto il regime transitorio previsto nell'art. 390, comma 1, e l'assoggettamento delle procedure pendenti alla disciplina previgente.

Ciò non toglie che si tratti di una fonte che costituisce già oggi parte integrante del corpus legislativo dell'ordinamento, così che il ricorso ad essa in funzione interpretativa non può ritenersi aprioristicamente inibito.

Soccorre, esattamente in termini, quanto stabilito da queste Sezioni unite - chiamate a pronunciarsi sulla proponibilità dell'azione revocatoria ordinaria tra procedure fallimentari - nella sentenza n. 12476/2020, cit., nella quale si legge che la pretesa di rinvenire nel c.c.i.i. norme destinate a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare oggi ancora vigente può sì ammettersi, ma "se (e solo se) si possa configurare - nello specifico segmento - un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro". Analogamente, Cass., Sez. un., n. 8504/2021 (in tema di impugnazione del rigetto della proposta di trattamento dei crediti tributari avanzata nell'ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex artt. 182-bis e ter l. fall.) ha riaffermato l'utilità interpretativa del "codice della crisi" qualora ricorra, nello specifico segmento considerato, un ambito di continuità tra i due regimi (v. anche Cass., Sez. un., n. 35954/2021).

Dunque è proprio in applicazione di questo indirizzo che va negata, nel caso qui in esame, qualsivoglia influenza ermeneutica a quanto prescritto dall'art. 119 c.c.i.i. in ordine al fatto che il Tribunale possa dichiarare aperta la liquidazione giudiziale (salvo che lo stato di insolvenza consegua a debiti sorti successivamente al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo) "solo a seguito della risoluzione del concordato".

È infatti evidente il difetto di quel requisito di continuità di regime che si è detto essere essenziale per il recupero della valenza interpretativa postuma.

Basti considerare che la nuova disciplina della risoluzione del concordato attribuisce la legittimazione a chiedere quest'ultima, oltre che ai creditori, anche al commissario giudiziale, seppure su istanza di uno o più creditori.

Vale a dire, ad un organo della procedura che - nell'assetto attuale della fase esecutiva - è privo di legittimazione in materia, risultando in realtà investito di sole funzioni di vigilanza e segnalazione, non di azione.

Nella stessa relazione illustrativa al c.c.i.i. la disciplina viene descritta in termini dichiaratamente innovativi: "l'articolo 119 sulla risoluzione del concordato contiene una rilevante novità rispetto all'attuale disciplina, in quanto dispone che la legittimazione ad agire per la risoluzione spetti non soltanto ai creditori ma anche al commissario giudiziale ove un creditore gliene faccia richiesta (...)".

Non è certo questa la sede per ricostruire gli esatti contorni di questa disposizione, soprattutto per quanto concerne i poteri di sindacato ed autonoma valutazione riconoscibili al commissario giudiziale che si trovi sollecitato ad agire giudizialmente per la risoluzione da parte di uno o più creditori.

Preme invece qui osservare come il regime sopravvenuto introduca un'innovazione che va al di là del mero ampliamento del novero dei soggetti legittimati, per assumere carattere sistematico in quanto involgente il ruolo del commissario giudiziale nella fase esecutiva del concordato. Ed è ancora la relazione illustrativa a chiarire come l'innovazione sia stata ritenuta necessaria per imprimere una svolta ad uno stato di cose - evidentemente indotto dall'attuale regime, nel quale la risoluzione ex art. 186 l. fall. viene dai creditori percepita come rimedio giudiziale inutilmente defatigante e dispendioso in un quadro di già conclamata insoddisfazione - caratterizzato dalla presenza di un numero elevatissimo di concordati preventivi dormienti; cioè di "procedure concordatarie che si prolungano per anni ineseguite in quanto i creditori, spesso scoraggiati dall'andamento della procedura e preoccupati dei costi per l'avvio di un procedimento giudiziale, non si vogliono assumere l'onere di chiederne giudizialmente la risoluzione" (ivi).

Non va poi sottaciuto l'ulteriore elemento di soluzione di continuità intrinseco allo stesso raccordo tra risoluzione e fallimento, là dove nella disciplina complessiva risultante dall'art. 119 cit. (che per altri aspetti ricalca pedissequamente l'attuale formulazione dell'art. 186 l. fall.) viene poi introdotta (comma 7) una previsione che, subordinando la liquidazione giudiziale alla risoluzione, si pone per ciò solo in opposto avviso rispetto al diritto vivente oggi individuabile nella giurisprudenza di legittimità sul punto.

Neppure per questa via interpretativa di tipo evolutivo risulta dunque possibile introdurre nell'ordinamento, in via sostanzialmente pretoria, una condizione di fallibilità-procedibilità che, per le indicate ragioni, non è oggi rinvenibile.

7. È quindi fondato - ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. - il primo motivo di ricorso della curatela fallimentare, con assorbimento del secondo.

La sentenza impugnata va conseguentemente cassata con rinvio alla Corte di appello di Campobasso la quale, in diversa composizione, riesaminerà il caso facendo applicazione del seguente principio di diritto: "nella disciplina della legge fallimentare risultante dalle modificazioni apportate dal d.lgs. n. 5/2006 e dal d.lgs. 169/2007, il debitore ammesso al concordato preventivo omologato che si dimostri insolvente nel pagamento dei debiti concordatari può essere dichiarato fallito, su istanza dei creditori, del PM o sua propria, anche prima ed indipendentemente dalla risoluzione del concordato ex art. 186 l. fall.".

Il giudice di rinvio deciderà anche delle spese.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Campobasso, in diversa composizione, anche per le spese.